Generazione che sale

il sogno perduto

Quando tento di andare più veloce, sento le ginocchia affondare sul terreno incolto. Poggio i palmi delle mani per terra, emetto respiri profondi. Non posso fermarmi proprio adesso.
Tento di rialzarmi, ma le gambe continuano a cedere. I muscoli sono intorpiditi, la vista inizia a venir meno. Non c’è più niente da fare. Rimango così disteso per ore, spossato, tremante, in attesa che il buio venga ad inghiottirmi. Forse, in fondo, non sarà poi così male. Quando le tenebre mi porteranno via, persino il petto smetterà di bruciare.
La chiazza scura che sta invadendo il cielo va facendosi man mano più vicina, ed io inizio a
precipitare, sempre più giù, sempre più giù…
Bip. Bip. Bip.
Lo spiffero che penetra dalla porta semiaperta mi permette di tornare alla realtà. O forse no. Non so dire se ciò che sto vivendo sia reale, oppure si tratti soltanto di una proiezione del vero all’interno della mia testa. So di essere sveglio, eppure non posso aprire gli occhi. So di poter pensare, e continuare a correre, e a scappare, ma soltanto quando l’effetto delle droghe è talmente forte da proiettarmi in altre dimensioni. Per tutto il resto del tempo, mi trovo relegato in un letto ed avvinghiato ad una macchina ronzante, oscillo non tra dolore e noia, ma tra vita e morte. Qualcosa preme sul mio viso, ma non posso vedere di cosa si tratti. Sento, sento tutto, eppure è come se dormissi. Respiro, ma allo stesso tempo sono sul punto di soffocare. Ho diciassette anni, e sto per morire.
Dei passi mi riecheggiano nella mente, si avvicinano a me. Hanno un suono talmente delicato, talmente ovattato, che non dubito nemmeno per un istante riguardo chi li stia producendo. Lei è qui vicino.
Sento la sua presa salda tra le dita, sento le nocche calde contro la mia mano gelata. Vorrei
muovermi, parlarle, incrociare il suo sguardo, eppure non posso fare altro se non rimanere immobile con le palpebre chiuse.
<<Non puoi mollare, Aamil. Sei troppo forte per cedere adesso.>>
La sua voce mi riporta indietro di mesi e mesi.
Intona una ninna nanna che ricordo ancora a memoria, nonostante siano anni che non parlo più la lingua in cui è scritta. Quelle parole mi fanno tornare al calore della prateria ed alla sabbia che scivola tra le dita, alle capanne composte da fronde accatastate, ai pozzi prosciugati che ormai tirano su soltanto sabbia. Sono trascorsi anni, e se chiudo gli occhi riesco ancora a rivedere tutto, quasi non me ne fossi mai andato, quasi non fossi mai fuggito.
I tramonti infuocati dietro le colline, con l’aria calda che scende per l’esofago, e incendia i polmoni, e non concede sollievo neanche a notte fonda. Gli occhi scuri di mia madre che bruciavano di quello stesso fuoco che accendeva il sole, il fuoco di chi ha perso ogni cosa, e tuttavia non è disposto ad arrendersi.
Era poco più che una bambina, mia madre. Su quel barcone l’avevano capito tutti, quanto fosse diversa. Ci ritrovavamo ammassati nella stiva giorno a notte, col freddo che penetrava tra le assi marce e si infiltrava nelle ossa, fino a togliere il fiato. C’erano freddo e puzzo di stantio, sporco, sudore, e fame. Mia madre guardava indietro senza che il suo volto tradisse nessuna emozione, ma dall’angolo in cui ero stipato, io riuscivo a sentire le lacrime bagnarle le guance nel corso della notte. Urlava, dentro di sé, a squarciagola, e nonostante i pianti dei bambini, e le strida delle donne, e le intimazioni degli uomini che tentavano invano di mantenere l’ordine in mezzo a quel putiferio, tutti la osservavano estasiati, quasi potessero sentire le parole che non aveva mai proferito.
Era stata una vita di violenze subìte e mai raccontate, la sua. So di essere il figlio di un sopruso, eppure lei non me lo aveva mai detto. Era diversa perché riusciva a non odiarmi, era diversa perché riusciva a ribellarsi. Era riuscita a fuggire ed a sopravvivere, era l’emblema della voglia di vivere ad ogni costo.
Io e Nabilah siamo gemelli, eppure non ci somigliamo affatto. La sua bellezza me la ricorda, in qualche modo. La sua voce mi riporta all’ultima notte trascorsa con lei.
Non riuscì mai a concludere il viaggio, mia madre. Se ne andò cantandoci quella ninna nanna, quella che Nabilah continua a sussurrare, composta dalle ultime note che giungeranno alle mie orecchie. Se provassi a tornare indietro con la mente, insieme ai tramonti, probabilmente rivedrei ancora la luce abbandonare i suoi occhi. Rivedrei gli uomini sollevarla e portarla via, di forza, quasi fosse stata una qualunque bestia, un qualunque fardello od un’ancora da gettare tra le onde. Rivedrei le pieghe della veste contrarsi ed allargarsi contro la presa di quelle persone, ed il modo innaturale in
cui le braccia ricadevano penzoloni lungo il corpo, e gli occhi vitrei a fissare il buio di una notte che non avrebbe mai più lasciato spazio al sorgere del sole.
“Quassù non c’è posto per i vivi, figurarsi per i morti” aveva detto qualcuno.
Se provassi a tornare indietro con la mente, probabilmente rivedrei tutto ciò che ho descritto. Ma in questo momento, il Cielo mi perdoni, non voglio farlo. Voglio ascoltare Nabilah, voglio ascoltare la nostra ninna nanna. Voglio andarmene come mia madre, cantando insieme a lei. Da quando è successo, non sono più riuscito ad avvicinarmi al mare. Non riesco ad immergermi in quello che so essere un cimitero.
In questi anni mi sono sempre ritrovato di fronte le sue acque cristalline, le ho osservate da lontano, nella consapevolezza che lei fosse accanto a me. Ma toccarle, mai.
Ho diciassette anni, e non so neanche nuotare. E adesso, adesso questo non ha più nessuna importanza.
Possedevo una bici. L’avevo comprata con tutti i risparmi accumulati in anni trascorsi tra strade e case-famiglia, tra speranze e cedimenti. Avrei voluto portare via Nabilah e metterla al sicuro, non appena saremmo cresciuti ancora un po’.
Avrei voluto studiare, lavorare, diventare un uomo. La bici era stata il mio primo piccolo sogno divenuto realtà. Già, “era stata”. Perché dopo l’incidente, non è più esistita alcuna bici. Solo un vecchio ammasso di ferraglie tutte accartocciate.
Non era bella, non era nuova. Ma era mia.
L’ho sentita piegarsi a causa dell’impatto, e contemporaneamente ho avvertito il mio corpo venire sbalzato via dal sellino e prendere quota; l’ho sentito schiantarsi sull’asfalto, schiacciato come una vecchia lattina vuota, ho ascoltato la gente che correva, imprecava, strillava terrorizzata. Hanno cercato di aiutarmi. Ci hanno provato in tantissimi, da quando sono qui.
Perché ovunque ci sia qualcuno che ti picchia, ti insulta, ti diffama, e ti accusa di aver rubato diritti e sicurezze a chi abita in questa terra da prima di te, c’è anche qualcuno disposto ad amarti ed accettarti. L’ho imparato col tempo.
La prima notte in cui il barcone toccò le sponde della Sicilia, c’era un sacco di gente ad accoglierci. Mi ricordo di un uomo di mezz’età che cucinava per noi.
“Accidenti, ho dimenticato il sale. Se aspettate un secondo, chiamo il mio amico e me lo faccio portare.”
“Ma sono le tre di notte” aveva obiettato qualcuno “disturbi il tuo amico a quest’ora?”
“Nessun problema. Questa è la mia terra. Qui siamo così.”
Ogni tanto ripenso a quell’uomo, a dove saremmo io e Nabilah se nessuno ci avesse aiutati.
Non tutti capiscono. Molta gente ti calunnia e ti denigra, quando sa che sei scappato dalla tua terra. Dice che saresti dovuto rimanere dov’eri, che è stata una disgrazia averti accolto.
La mia pelle mi impedisce di nascondere le mie origini, è come un marchio a fuoco che attira i sospetti di taluni, la compassione di altri, l’indifferenza di molti.
Ma io non ho mai voluto nascondermi. E nel mio cuore porterò una ed una sola Sicilia, quella delle persone che ti accolgono e ti preparano il cibo, quella degli uomini che ti regalano del sale a notte fonda e delle donne che ti sorridono, non blaterando sciocchezze sul fatto che tu sia uguale a loro, ma apprezzandoti proprio perché sei diverso.
Qualcuno entra nella stanza, e Nabilah smette di cantare. La invitano a proseguire, le dicono che ha una bella voce. So che è imbarazzata, so che non può arrossire. Noi afro-italiani non arrossiamo. Ci imbarazziamo e basta.
Ripenso agli orrori del mio passato, e capisco che è la minore delle spese.
Nabilah chiede se ce la farò, ma non odo risposta, e ne sono sollevato.
Non sopporterei se venissero qui a dirmi che devo continuare a lottare.
Ѐ come quando stai per annegare, e più tenti di risalire a galla, più i cavalloni ti spingono giù. Il tuo cervello grida che è tutta una questione di volontà, ma non è vero, perché tu vuoi vivere, lo vuoi più di qualunque altra cosa al mondo, eppure l’acqua continua a scendere giù per l’esofago, e impregna i polmoni, e i muscoli si rifiutano di obbedire.
Mia madre aveva portato con sé una valigia. Più che una valigia era un fagotto, un fagotto quasi vacante. Odorava di Africa e di prateria, conteneva pochi oggetti e molti ricordi.
Aprendolo, l’ultima volta, vi avevo trovato all’interno soltanto una piccola falena.
Ed è solo ora che capisco.
“Nabilah, io la mia battaglia l’ho persa. Ma tu devi combattere. Credo in te, ti amo”.
Penso queste parole, ed è come se lei capisse. La sua presa si fa più salda, la mia inizia ad allentarsi. Ho diciassette anni, e sono un immigrato.
Ѐ stato il mio spirito da immigrato a darmi la vita. E adesso, adesso è arrivato il momento di cedere la mia vita al grande spirito del mondo.

L'autore

Roberta Belladonna