Interventi

Istantanee sulla poesia di Michael Blackburn

«Caught on the Edge of Immensity[1]»

Istantanee sulla poesia di Michael Blackburn

  1. Il poeta 
  1. «A Poet with Wheels»: fuga dalla città invivibile

        In un articolo, The Leaving of London[2], Michael Blackburn parla della sua definitiva partenza da Londra dopo le due esperienze di vita e lavoro nella città nota anche come Big Smoke, Great Wen, That There London. Una Londra che nel tempo – più o meno dagli anni ’70 alla soglia del nuovo millennio – è diventata “the first area in the UK where white British are a minority”.

       Prima di parlare dell’enorme crescita demografica di Londra, dovuta agli intensi flussi migratori, dei giochi economici dietro la realtà metropolitana, della ricchezza multiculturale, della varietà che Londra offre, a inizio d’articolo Blackburn colloca un inserto autobiografico. Appena un flash, ma – date le frugali notizie sulla vita, le peregrine dichiarazioni d’autore, i rari interventi critici fruibili in rete – l’istantanea autobiografica è una tessera preziosa per formarsi un’immagine più ricca di questo poeta, scrittore, docente di letteratura inglese e scrittura creativa presso l’Università di Lincoln (UK), per il quale la poesia è sempre stata la meta prioritaria, fin dalla prima plaquette The Constitution of Things (1984) da cui sono tratte due delle tre poesie proposte (The Constitution of Things, che dà titolo al libretto, e Light and Rain).

        L’estratto seguente invece è desunto dall’articolo redatto da Blackburn per The Fortnightly Review (luglio 2015) e pubblicato nella colonna Currente Calamo:

 DURING MY EARLY LIFE as a peripatetic and penniless poet, I have twice lived in London, […]. I arrived the first time at the end of the 1970s full of hope, with a proper job to go to, and even a pad to crash at […]. When I left, a couple of years later, I had lost my job, two girlfriends, and most of my sanity.
Within a mere five years I was back, this time with a new girlfriend and no job, but again with somewhere to live. I was a lot more savvy by then. We were situated south of the river, in New Cross. Not so salubrious, by any means, but as I’d ended up in Soho on the previous tour of duty, I couldn’t complain. I have to admit I grew to prefer south of the river to the north. There is a difference, though I can’t really define what it is.
When I finished the second sojourn, and headed back north, I was without the girlfriend, but with some cash in my pocket and all my sanity. And I had a rusty VW Beetle. That was definitely an improvement. I was a Poet with Wheels. As I drove away, I waved goodbye forever to London.

 Questo ritratto del poeta da giovane – itinerante e indigente agli inizi della prima avventura londinese – che si muta in Poet with Wheels dopo il secondo sojourn a Londra, e infine abbandona per sempre la città varia, multiculturale, ricca, nondimeno infida, in cui puoi perdere ragazze, lavoro, soldi e senno – è uno sketch degno della penna di un umorista. Sembra quasi di leggere la trama di uno di quei romanzi di formazione in cui l’eroe, dopo varie peripezie, apprende la difficile arte dello stare al mondo e alla fine trova il suo posto nella vita. Così, il nostro peripatetico e penny-sfornito poeta, appresa la lezione dopo la prima esperienza cittadina, riesce, nel secondo soggiorno (I was a lot more savvy by then), a tirarsi fuori dalla morsa della città invivibile senza rimetterci, stavolta. Infatti, alla fine della seconda avventura londinese, l’eroe del racconto dice, sì, addio a Londra per sempre (I waved goodbye forever to London), ma perde solo la ragazza; per il resto, se ne va con un discreto gruzzolo, l’ampollina del proprio senno intatta, e persino su quattro ruote. E questa senza dubbio è una vittoria: l’individuo sfugge alla città annientante, ai caotici ingranaggi della vita metropolitana. È il trionfo, contro l’irrazionalità imperante, di quella ragione o ragionevolezza umana che, secondo Ethan Allen, andrebbe riguardata come [the] Only Oracle of Man[3].

1.Le poesie
Scelte traduttive e altre storie

1.The Constitution of Things

It is ordained in the eternal constitution of things,
that men of intemperate minds cannot be free.
Their passions forge their fetters.

La citazione parziale del titolo di un’opera di Ethan Allen (che chiude la sezione precedente) e l’esergo tratto da una lettera di Edmund Burke[4] (con cui si apre questo paragrafo) offrono l’esca per svolgere alcune riflessioni su una delle poesie proposte, quella che ha lo stesso titolo della silloge poetica in cui è inclusa, la prima di Blackburn, The Constitution of Things (1984).
Iniziamo dalla parola constitution /kɒnstıˈtjuːʃn/sovente usata, in inglese e in italiano, in contesti politici (costituzione = carta costituzionale). Constitution deriva dal verbo constitute il cui senso primo è ‘formare, costruire’, dunque denota ‘struttura’ in senso lato. In altri termini, la parola può riferirsi all’ organizzazione, composizione, costituzione (anche fisica: he has a strong c.), alla formazione di un organismo o ente (the c. of a committee) come pure alla condizione (stato) di entità concrete o astratte (the c. of nature). Non stupisce pertanto che il lemma sia ben attestato in Burke (scritti politici[5]), in Darwin (naturalista[6]) e che si trovino sue occorrenze nell’opera di Ethan Allen, Oracles of Reason (1784).
In traduzione si è reso con la parola costituzione che ha in sé tutti i possibili sensi: formazione dovuta a legge costitutiva innata, struttura istituita in base a norme imposte dall’uomo, stato di cose prodottosi per caso, per volere divino, per causa naturale, per disegno intenzionale. Una traduzione libera o che intenda suggerire un’interpretazione, opterebbe forse per la formula Stato delle Cose (sc. naturali): stato fisico che potrebbe (might) essere alterato, se non addirittura sovvertito. L’io poetico infatti postula il proprio transito attraverso muri, immagina che la sua mano possa trapassare il piano di un tavolo: cose impossibili per un corpo, a meno che l’ente non sia immateriale o che l’oggetto da attraversare perda la sua consistenza e diventi, da solido che era, liquido o aeriforme. Le leggi della fisica sono di norma rigorose: solo in contesti immaginari è possibile violarle. Infatti, ciò che si postula in The Constitution of Things o meglio, ciò che l’io poetico immagina, è una virtuale violazione delle leggi di natura, una sospensione della realtà ordinaria che apre eventualità extra-ordinarie. In gioco, va da sé, è il rapporto fisico-metafisico, materiale-immateriale, possibile-impossibile. Vengono in mente le parole di Noah Porter[7]:

Science has penetrated the constitution of nature, and unrolled the mysterious pages of its history, and started again many, as yet, unanswered questions in respect to the mutual relations of matter and spirit, of nature and of God.

         La scienza, che ha indagato le forme della natura e spiegato i misteri di ciò che esiste nel tempo, torna a confrontarsi con le molte, irrisolte domande che l’uomo da sempre si è posto, e ancora si pone: il rapporto fra materia ed energia, fra apparenza ed essenza, enti ed Ente, fisico e spirituale, Natura e Dio. Quesiti che restano ancora insoluti, domande a cui la scienza crede di poter trovare la risposta che liquidi – una volta per tutte – le ‘illusioni metafisiche’ da cui il genere umano è irretito.
La scienza, certo, è riuscita a spiegare molti perché: delle cose, dell’uomo, della natura, del cosmo, del caos. Ma, a ben guardare, si tratta di come, non di perché. Se poi quelli a cui la scienza ha risposto sono perché, essi restano dei perché relativi: sono cause minime che rivelano la propria inconsistenza al deflagrare dell’immancabile eccezione all’ipotesi di regola appena formulata. La scienza, in realtà, ha risposto solo ad alcuni quesiti sul come delle cose esistenti, non ha risolto l’enigma del senso dell’esistenza. Non ha dato, la scienza, risposta al Perché – ragione ultima e causa prima – di tutti i come e perché peculiari, né ha reso conto della, spesso inavvertita, provvidenziale casualità – i nessi, che sempre ci sfuggono, fra gli eventi – o di quei rari, inopinati guizzi d’intuizione in cui si percepisce, dietro lo schermo delle apparenze sensibili, la misteriosa complessità di un disegno globale.
Così, una volta di più, l’intuizione eidetica sembra profilarsi come la dote umana cui l’uomo può affidarsi per dare vita a ogni universo possibile: Imagination, the Only Oracle of Man.
Tornano di nuovo a mente le parole di Noah Porter:

Remember that what you believe will depend very much on what you are

 “Ricordati che ciò che credi dipende in gran parte da ciò che sei”. In altri termini, se sei materia, credi nella materia; se sei energia, credi nell’energia, né altro da ciò che sei puoi concepire. Nulla vieta, del resto, la coesistenza dei due poli, e che insieme ad essi sussistano tutti gli infiniti gradi e combinazioni che – dal loro intrecciarsi, confrontarsi, sfidarsi, combinarsi – procedono. La vita altro non è che un gioco di elementi e destini incrociati, un precario equilibrio di energia e sostanza.
Ma ci sia lecito interpolare l’assunto di Porter e, invertendone i termini, deviare la traiettoria dal pensiero (believe) alla facoltà fantastica (immaginazione creatrice) dell’uomo per riformulare la frase in questi termini: “Remember that what you are will depend very much on what you believe, and that what you believe depends absolutely on what you are able to imagine. We are, in fact, what we dare to dream. We are our dreams. We are nothing but the most daring visions of our imagination”.
E se siamo fatti della sostanza dei nostri sogni e più ardite immaginazioni, allora forse è vero: «we may all be ghosts». Così, forse un giorno potrà accadere che la mela non cadrà, ma resterà sospesa nell’aria, sotto una mano fantasmatica, a penzolare nel vuoto, perché qualcosa che non riusciamo a vedere la trattiene. O forse perché la legge di gravità non esisterà più e la costuituzione delle cose sarà regolata da altre leggi e deriverà da principi stabiliti da cause ulteriori: energie immateriali o, luzianamente, fondamenti invisibili[8].

  1. Water
If there is magic on this planet,
it is contained in water[9]

       La poesia Water parla dell’acqua – mare, fiumi – quale agente di mutamento. Talete sosteneva che l’acqua è l’elemento da cui tutto ha origine e determina, per la sua scorrevolezza, adattabilità, mutevolezza, i cambiamenti di tutte le cose. Piante e animali si nutrono di acqua; finché gli esseri, animali e vegetali, sono vivi, hanno linfa ed umori; quando muoiono, si disidratano e avvizziscono. Tuttavia, non è solo la funzione nutritiva a fare dell’acqua un agente di vita, morte, mutazione.

Quid magis est saxo durum? quid mollius unda?
Dura tamen molli saxa cavantur aqua.[10]
Gutta cavat laidem, non vi, sed saepe cadendo[11]

L’acqua muta le cose perché la sua azione – senza sosta, iterata, tenace – lascia un segno in ciò su cui agisce. L’acqua modifica le cose in due modi: lentamente, erodendole, aprendosi una strada al loro interno; in modo improvviso e impetuoso: travolgendo, abbattendo, trascinando via. Si pensi ai fiumi in piena, alle piogge battenti, al mare in tempesta.
Il mare, la sua infinita opera salina, è protagonista di questa poesia. Con le sue acque sgretola rocce, divora la terraferma, leviga ciottoli e pezzi di vetro, fa e disfa i monti nel segreto dei suoi fondali, concorre al formarsi delle nubi che recano pioggia. Nubi: masse di vapore acqueo, monito di necessaria metamorfosi, quasi omen di mondante, palingenetico diluvio. Nel mare che tutto ricicla, trasforma e rigenera, i fiumi vanno a riversare le loro acque sulle cui onde vorticano spunzoni di roccia strappata ai monti.
I versi evocano con nitidezza le immagini, avvalendosi di figure foniche e retoriche, di ritmi veloci e lenti, franti o strategicamente protratti. Per questo Water è una poesia solo in apparenza facile, che in realtà pone di fronte alla scelta fra più soluzioni traduttive, ognuna delle quali rende una sfumatura, ma ne perde un’altra. Soffermiamoci su alcune scelte e sugli spostamenti testuali che un’opzione, invece di un’altra, comporta. Un testo, infatti, è una scacchiera: muovendo un pezzo si modifica l’assetto del gioco.
Partiamo da brick: mattone, blocco. La scelta di tradurre ‘cocci’ (come quella di ‘schegge’ che traduce fragments) è dovuta all’intenzione di privilegiare il ritmo, ovvero le posizioni degli accenti tonici e, laddove possibile, le figure di suono.

to pebbles and brick and fragments of glass
a ciottol[i]  e    cocc[i]  e   schegge      di vetro
2°                   5°                 7°                 10°
2°                   5°                 7°                 10°

        ‘Cocci’ (invece di ‘mattoni, terraglie’) consente di mantenere l’accento di 5°; ‘schegge’ (al posto di ‘frammenti’) fa salvo l’accento di 7° se si effettua sinalefe fra la –i finale di ‘cocci’ e la ‘e’ congiunzione. Inoltre, ‘schegge’ consente di riprodurre l’identità grafica della vocale tonica (a-a: e-e); in italiano determina anche identità di timbro vocalico (é: é –schegge: vetro), mentre in inglese le ‘a’, graficamente uguali, rispondono a suoni diversi (/æ/ – /ɑː/).
‘Ciottoli’ e ‘cocci’: c’è identità grafica e di timbro delle vocali toniche, non presente in inglese, (pebbles-brick), ma i due termini producono una sequenza allitterante in ‘c’ palatale (cio-[…]- cci), mentre la c velare sorda in co- richiama il suono finale di brick, laddove l’inglese allittera invece l’occlusiva  bilabiale sonora [- bbles br-] e ha un’occlusiva bilabiale sorda pe-.
Soluzione alternativa: “a sass [i] e matton[i] e frammenti di vetro” con lieve alterazione ritmica nella penultima parola della sequenza, che reca accento di 8° non di 7°, ma con mantenimento della veste grafica (fragment – frammento).
 Bit a bit: ‘pezzo a pezzo, brano a brano’ mantiene l’allitterazione in bilabiale (sorda o sonora). Si può creare un’allitterazione semanticamente pregnante e visualmente più icastica con un accostamento lessicale connotato rispetto al generico ‘pezzo a pezzo’ (bit a bit): ‘scaglia a scaglia, scheggia dopo scheggia’ (di roccia).
 La stanno trascinando a mare: si conserva la forma progressiva in quanto la lunghezza del verso rende visivamente l’azione della corrente che trasporta i blocchi di roccia al mare per un lungo tragitto.
Le notazioni precedenti danno forse un’idea delle scelte che si presentano nel tradurre un testo, specie poetico, e delle relazioni che intercorrono fra i pezzi-parole della scacchiera-testo, quasi che le parole fossero elementi di una reazione che, amalgamati in modi diversi, danno vita a differenti alchimie testuali. Ma è noto: fra alchimia e magia il passo è breve. Più breve ancora è, in molte culture, la distanza fra magia e poesia: che il poeta sia un Magician e la poesia sortilegio verbale – formula – era per gli antichi una verità che i moderni hanno fatto decadere a topos[12]. Nondimeno, se c’è magia a questo mondo, è nelle parole, specie quelle della poesia che è come l’acqua di cui Octavio Paz diceva: el agua habla sin cesar y nunca se repite[13]. Anche la poesia parla senza sosta, né mai si ripete. Usa parole che tutti usiamo, ma ogni volta quelle parole comuni, filtrate dalla sensibilità del poeta, acquistano sensi nuovi, arrivano a farsi musica. Il messaggio o l’immagine che quella melodia, come le onde di un fiume, immette nella sinfonia del mondo, non è mai un già detto o già visto. La parola poetica non è mai la stessa, perché ogni poeta usa il linguaggio in modo personale. La poesia usa parole di cui tutti si avvalgono, ma non si ripete mai e sempre si rinnova, perché, come l’acqua, la poesia muta ciò che esiste, e narra, facendoci vedere e sentire, ciò che accade nell’inquieto mare della vita.

  1. Light and Rain: la formula dell’arcobaleno. 

         When light and rain meet, they make the rainbow …  Una poesia deve, più di ogni altra forma di scrittura, creare immagini e, per immagini, liberare altre immagini: tante quanti sono gli occhi che la leggono, dunque virtualmente infinite, come infiniti sono, nello spazio e nel tempo, i potenziali lettori di un testo.
Il titolo di questa poesia ci dona due immagini: luce e pioggia. Ognuno può immaginarsi luce e pioggia in base alla propria esperienza. Queste due immagini ne liberano altre. L’immagine che la mia mente ha liberato da luce e pioggia, si è formata in inglese: una frase semplice che in italiano suonerebbe così: “Quando luce e sole si incontrano, fanno l’arcobaleno”. Ovvero, luce e pioggia uniti creano una grande meraviglia; infatti, se l’acqua, quella per noi invisibile, condensata negli strati alti dell’atmosfera, e il sole, quello velato dalle cortine di vapore, si incontrano, dal loro incontro deriva un fragile arcobaleno, e la bellezza vive il suo istante.
Nell’immagine liberata dall’accostamento delle due parole ci sono in potenza tutti gli arcobaleni della vita: il nesso Light & Rain intende far vedere al lettore il connubio magico da cui si sprigiona, e attualizza, il miracolo cromatico che tanto ci affascina.
Gli arcobaleni di Blackburn si formano da una luce che scende dall’alto a unirsi con una pioggia già fatta pozzanghera, che si alza in spruzzi nella scia delle vetture in transito. In quelle gocce d’acqua piovana miste a fango, negli schizzi che si sollevano dietro le auto, sciftano arcobaleni non pienamente formati. Ma questi arcobaleni informi, che ogni viaggiatore si lascia alle spalle in uno strascico di gocciole e schizzi, sono annuncio dei colori che scintillano oltre, nella pioggia sottile, creando due brevi ponti d’iride sull’autostrada.
Il vento è battente, il contesto è quello di un viaggio in difficili condizioni atmosferiche – l’autista parla di alluvioni a ovest: punto cardinale dove si dirige o da cui si allontana? – ma l’auto con i viaggiatori a bordo procede. Davanti a loro, gli archi invalicabili derivati dall’incontro dei due elementi. Alle loro spalle, gli spruzzi imperlati di barlumi d’iridi incompiute: presagio di bellezza per gli uomini che seguono. Quasi segnali finiti d’infinito, indizi imperfetti d’una perfezione a venire, gli spettri cromatici effimeri e parziali alludono o meglio preludono ai due archi, completi e tersi, spiegati sull’autostrada. Anche questi sono però transitori: esistono finché la pioggia è inondata dalla luce che scende a fasci dal cielo. Ci sono se ci sono luce e pioggia a creare il prodigio. E il viaggio prosegue, inseguendo un miraggio d’iride, unica manifestazione, per l’uomo, di un assoluto che – nei colori della vita, generati dall’ intrecciarsi di luce e pioggia, colori inafferrabili ed eterei – si fa intuibile a chi viaggia sulle vie del mondo, fra vento, pioggia, alluvioni, e qualche inopinato squarcio di sole, sempre in balia dei capricci di un tempo variabile: il tempo dell’Esistente che, nel male d’esistere, sogna il proprio Essere e l’Ente.  L’uomo può solo leggere i segni in cui si imbatte durante il viaggio: non per prevedere il futuro, ma per crearlo conformemente alle proprie potenzialità mentali e spirituali. Perché l’uomo è ciò che riesce a creare con il potere della propria immaginazione e dei propri sentimenti: Remember that what you ara will depend very much on what you feel, and imagine; that is, on your visions and most daring dreams. In fact, you are your dreams.

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[1] Il titolo del breve intervento riprende un verso di una poesia di Blackburn, The Immensity (2012), apparsa la prima volta in The Echo Room. Non è possibile, qui, trattare il tema dell’immensità, né parlare della ‘poesia dell’istante’ – il ragazzo, colto dall’occhio del poeta sul ciglio dell’immensità, nell’attimo in cui sembra abbandonarsi alla corrente del fiume, fa pensare all’Esterina di Montale – né approfondire altri aspetti dell’opera poetica di Blackburn, come la figura del boy che ritorna nella raccolta The Ascending Boy e richiederebbe un discorso a parte. Tuttavia, va almeno rilevata l’ascendenza leopardiana di The Immensity, non fosse altro perché è il poeta stesso a segnalarla: “It just occurred to me – my poem The Immensity was inspired by Leopardi’s poem L’Infinito – so there’s something of an Italian connection here!” [dall’email di M. Blackburn del 13 /10/2015] [2] http://fortnightlyreview.co.uk/2015/07/leaving-london/
[3] E. ALLEN ((Litchfield, 1738 – Burlington, 1789): autore del libro Reason, the Only Oracle of Man, Or A Compendious System of Natural Religion (1784), New-York, G.W. & A.J. Matsell, 1836; Boston, J.P. Mendum, Cornhill, 1854.
[4] E. BURKE (1729-1797), A Letter From Mr. Burke To A Member Of The National Assembly, 1791< https://archive.org/details/letterfrommrburk00burkiala>
[5] Constitution è attestato (esergo a parte) 240 volte nelle due principali opere di Burke di cui 109 occorrenze in Thoughts on the Present Discontents, 131 in Reflections on the Revolution in France
[6] In Darwin il termine ricorre 75 volte. Le occorrenze sono così distribuite: The Voyage of the Beagle: 5; The Descent of Man: 34; The Origin of Species: 36.
[7] N. PORTER (1811-1892) presidente dello Yale College (1871-1886). Opere: The Human Intellect, e Introduction upon Psychology and the Human Soul (1868); Elements of Intellectual Science (1871); Elements of Moral Science (1885). Le citazioni da Porter provengono dal Dictionary of Burning Words of Brilliant Writers (1895) di Josiah Hotchkiss Gilbert.
[8] NB: Michael Blackburn si dichiara atheist (pagina FB).  Questa lettura delle poesie risente del punto di vista di chi legge, traduce e interpreta i testi in base a ciò che immagina, e crede: che dietro ogni realtà visibile esistano cause invisibili o Grandi Trasparenti.
[9] L. EISELEY (1907-1977). Antropologo, naturalista. La citazione è tratta dal libro: The Immense Journey. Eiseley è stato un uomo di scienza, ma ha scritto della natura con lo stile e gli occhi di un poeta.
[10] Cosa è più duro del sasso, cosa più molle dell’acqua? Pure i duri sassi sono scavati dalla molle acqua (Ars Am.: I, vv. 473-474)
[11] La goccia scava la pietra, non con la sua forza, ma con il costante cadere. Il proverbio gutta cavat lapidem ricorre in Lucrezio, De Rer.Nat, I. 314, IV. 1281; Ovidio, Ex Ponto IV. 10, 5; Sen., Nat. Quaest. IV.3; G. Bruno, Candelaio, a. III, sc.6
[12]A. SEPPILLI, Poesia e Magia, Torino, 1971. La poesia non era considerata dagli antichi uno svago, né il suo fine era il piacere estetico. La poesia era parola agita, in genere connessa a un rituale magico.
[13] Refranes.

L'autore

Angela D'Ambra

Angela D’Ambra vive in Toscana fra Lucca, Siena e Firenze dove si è laureata in Lingue e Letterature Straniere (Università di Firenze) nel 2008.
Dal 2010 traduce a livello amatoriale poesia postcoloniale in lingua inglese.
Traduzioni apparse su rivista: su El Ghibli ha pubblicato (dal 2010 a oggi) poesie di Desi di Nardo, Rudyard Fearon, Francis Webb, Gary Geddes, Glen Sorestad, David MacLean, Bruce Hunter, Patrick White, R. K. Singh, Bruce Bond, Kim Clark, Penn Kemp, Bruce Meyer. Su Caffè Michelangelo (2011): Desi di Nardo; su Sagarana (2014): Glen Sorestad, Alfred Corn, Bruce Bond, Laurence Hutchman (dal francese). Su Nazione Indiana: Gary Geddes (aprile 2014), Glen Sorestad (gennaio 2015).
Esperienze di insegnamento della lingua italiana e Humanities: Istituto il David, Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira (Firenze); Harding University (Firenze)
Passioni: gatti, libri, Mozart, cinema e viaggi.