Come affronti i momenti difficili che attraversa il tuo paese, quando sei lontano, è una domanda che mi si chiede spesso, ultimamente. Vengono fatte particolarmente dalle persone che sanno cosa significa essere lontani da casa e, sempre da quelle che sanno il significato del caos.
Come ormai si sa da un po’, in Turchia, nel mio paese bello e solo (come lo chiamava il regista turco, Nuri Bilge Ceylan, durante la premiazione del Festival di Cannes 2008 che con il suo film ‘Le tre scimmie’ vinse il terzo premio) il caos accompagna le vite quotidiane. Le elezioni, le promesse fatte che sembravano più minacce che promesse, la coalizione, la non coalizione, le guerre alle porte, i corpi dei rifugiati sulle spiagge, le donne che vengono ammazzate, i giornalisti che si trovano in carcere, ect… Quanto si può allungare questo elenco solo Dio sa, sinceramente, e io devo testimoniare tutto questo delirio da lontano. La domanda è : Come lo affronti tutto? Questa sarebbe una delle domande a cui non è così facile dare una risposta netta e ben definita poiché la sua risposta conterebbe delle contraddizioni che ci fanno confondere le idee, proprio come la Turchia stessa. Comunque, nonostante la difficoltà, proverei a rispondere così; nell’essere lontana da casa, mentre tutti i miei cari subiscono ogni momento della giornata il linguaggio violento della politica maschilista che regna il paese o il peso dell’impossibilità -finta, creata ma concreta- di convivenza mi sento sia abbastanza colpevole ma contemporaneamente mi ritengo anche abbastanza fortunata, non per il fatto di non subire il caos, anzi per il fatto di subirla in una maniera più oggettiva possibile. Per avere il lusso di vedere le cose con una distanza critica la quale mi aiuta ad analizzare i fatti accaduti con uno sguardo meno parziale possibile diversamente da chi, nonostante tutta la sua buona volontà, non riesce a fare altro che dire sì o no. La mia lontananza mi dà uno spazio che si apre ai ‘forse’, minimizzando i miei muri costruiti dalle semplici dicotomie. Quindi, a mio parere, la distanza di per sé, nel costruire il rapporto con il mondo circondato può avere degli effetti negativi e positivi.
Forse proprio come nella storia di Barış (in turco ‘pace’) e İnci, i due protagonisti del libro –e del film tratto dall’omonimo romanzo- ‘Non sparate agli aquiloni’ di Feride Cicekoglu (traduz. Semsa Gezgin, Casa Editrice Scritturapura, 2011). Un bellissimo rapporto tra un bambino di quattro anni che cresce in carcere poiché il figlio di una detenuta e İnci, una prigioniera politica. E’ bellissimo il rapporto perché è estremamente umano, perché è costruito con delle domande infantili, cioè profonde. E’ un rapporto che dà la forza di andare avanti, proprio come si avrebbe bisogno in Turchia, nel mio paese bello e solo.
Oltre le sbarre del carcere, cioè nel cielo, Barış un giorno vede un aquilone spensierato e rimane colpito dalla libertà di esso. Ne vorrebbe far volare anche lui uno –o forse sarebbe lui a desiderare a volare?- ma per ora deve accontentarsi dell’aquilone disegnato da İnci con un gesso nel cortile del carcere. Chiede;
-Perché questo non vola, İnci?
– Un giorno volerà di sicuro.
Credo sia la risposta di İnci a tenere il mondo ancora in piedi nonostante tutte le disgrazie. La distanza, o forse l’ostacolo tra l’io e la cosa desiderata c’è, ma l’aquilone un giorno volerà di sicuro. Lo vorranno sparare o addirittura cancellare il disegno fatto col gesso ma tutto ciò non interessa a Barış, tanto lui ha già avuto la sua risposta; l’aquilone un giorno volerà di sicuro.
Forse niente è così complicato, è che forse abbiamo bisogno di tanti bambini come Barış e di tante donne come İnci (che in turco significa ‘perla’). Che parlino il turco, l’arabo o il cinese non importa. Perché la voglia di aquilone, nonostante tutte le armi che vogliono spararlo, si esprime nello stesso modo in tutte le lingue ed è l’unica per l’umano, come la voglia di volare, nonostante – e grazie a- tutte le distanze che ci separano dalla possibilità di essa.