Sono nato a Zegnài, un paesino di quattro case sull’Appennino bolognese. Si chiama Zegnai da zegn, cigno in dialetto, perché sta sul fianco di una montagna accanto a un lago di origine glaciale, dove entra ed esce un torrente, e dove vive uno stormo di cigni. Il resto della montagna consiste in foreste, le quattro case di cui sopra, e un ramo della Ferrovia Porrettana (Bologna–Pistoia) che Dio sa perché ferma da noi. Tu lo prendi e ti porta a Bologna, passando per Porretta dove la linea si biforca; altrimenti scendi a Porretta e aspetti che arrivi l’altro treno, quello che finisce a Pistoia. La mia famiglia deve poco a quel trenino: da Zegnai non volevano muoversi. Io dal canto mio, quand’ero piccolo, manco sapevo che ci fosse qualcosa al mondo che non fosse Zegnai. Fuori da casa nostra c’era un giardino senza sentieri e senza un confine preciso, che si trasformava ben presto in bosco, per poi farmi scendere verso il lago. Subito di là dal lago la gravina che lo conteneva risale bruscamente fino alla vetta della montagna, dove si vedeva una lunga fila di cedri che correva da un punto all’altro del cielo. Ero convinto che quella fosse la fine del mondo. Dall’altra parte si cadeva di sotto e auguri. ‘Toscana’? Che è? Si mangia?
Poi alla fine il treno l’ho preso per andare al liceo a Bologna, dove sono rimasto per quarant’anni. Tornavo a casa, quando e se proprio dovevo, sempre in macchina, e quel trenino non l’ho più ripreso. Tanto più strano – ma strano buono – mi sembra quindi, in questo mattino di fine maggio, risalire i gradini del vagone del regionale veloce 18665 – forse lo stesso di quarant’anni fa? – alla Stazione Centrale, prendere posto accanto al finestrino, e sentire la voce sintetica che annuncia le prossime tappe, l’ultima delle quali non sa pronunciare bene – viene fuori un Ségnai, accentato male e con la zeta sbagliata. Partiamo col solito scossone e io appoggio la testa sul sedile.
Ho un fremito di malinconia alla prima fermata, Casalecchio. Bellina Casalecchio, ci ho lavorato per tanti anni, sempre in azienda. In più di un azienda, in realtà. Ci scorre il Reno in mezzo: di qua dal Reno è città, di là dal Reno è magia e pensionati in pantofole. La magia la vedo probabilmente solo io perché sono cresciuto in un paesino in campagna, e dovunque vedo alberi, giardini, campi comincio a sentire la presenza di qualcosa che non è città – la città si disgrega, perde terreno rispetto alla foresta, torna quello che era prima. La prima azienda per cui ho lavorato a Casalecchio – vendevamo laser industriali – era un casermone isolato vicino alla chiusa, si andava a prendere un panino e le patatine fritte al bar del Lido. Non mi chiedete cosa facessi per quell’azienda, che mi viene l’orticaria se ci penso. In generale facevo cose per far guadagnare loro più soldi. Poi la concorrenza è stata più cattiva di noi e siamo falliti, ma non prima che la seconda azienda per cui ho lavorato mi acchiappasse con un buon contratto, ché loro erano in crescita e gli serviva personale esperto. Detto fatto, eccomi sul loro libro paga. Eravamo vicini all’oasi felina di Via Sabotino, dove mettono i gatti randagi. Io andavo spesso a salutare la Vale, una gatta cicciona sempre col muco al naso che però prendeva le coccole senza vergogna. Perché non pensiate che porto sfiga, la seconda azienda non è fallita; ma era in cattive acque perché la gestivano da cani e i capi hanno licenziato metà dei dipendenti, me incluso. Con la terza azienda ho creduto di averla imbroccata. Ho anche adottato la Vale, ché non ce la facevo più a vederla così cicciona al gattile senza poterla coccolare ventiquattr’ore su ventiquattro. Poi c’è stato il 2008, la crisi, e anche questa piccola terza azienda ci ha salutati. C’è voluto quasi un anno per riuscire a farmi assumere di nuovo, e lì grazie al cielo sono rimasto, o forse no, grazie al cielo un marone, perché dopo tutti questi anni non ho ancora capito cosa ho fatto di rilevante. Lo dicevo al mio capo qualche mese fa:
– Carlo, io mi licenzio.
– No.
– Ma sì che mi licenzio.
– Ma perché.
– Perché è una vita che non faccio una mazza e ne sono nauseato.
– Cosa vuol dire che non fai una mazza. Hai lavorato in azienda. E pure bene.
– Ma non ho costruito niente. O lasciato niente di me. Ho aiutato della gente a fare soldi. Gente che è stata poi schiacciata da altra gente che era più brava a fare soldi.
– Sei un po’ in là con gli anni per spostarti a sinistra, Fulvio.
Carlo associa i cinquant’anni alla depressione, da cui – secondo lui – si esce o spostandosi a sinistra, o comprandosi la jacuzzi. Ho impedito che la jacuzzi entrasse nella discussione dicendo:
– Macché sinistra e sinistra. È una questione più radicale.
– Cos’è, un trucco per farmi alzare lo stipendio? Stai tirando sul prezzo?
– Carlo, il solo fatto che tu possa pensare questa cosa mi conferma che devo andarmene.
– Guarda che a cinquant’anni non è facile che ti assumano di nuovo.
– E chi vuole farsi assumere?
– No?
– No. Smetto di lavorare.
– Ma ti mancano vent’anni alla pensione. Hai vinto alla lotteria?
– Carlo, mandami via.
– Se credi che ti passerò parte del TFR in nero…
– Carlo.
Con il TFR che mi ha passato – generoso, devo dire – gli ho comprato una Bugatti Royale del 1926 che mi aveva confidato di desiderare tantissimo, ma non poteva spenderci alcunché perché stava rifacendo la casa.
– Fulvio, tu sei pazzo.
– Cos’è? Ti fa schifo?
– No, è bellissima e io ti adoro, ma ci avrai speso una barca di soldi.
– Embè? Siamo amici, anche se non capisci un cazzo.
E in effetti non ha capito il punto neanche quella volta; ma se n’è fatto una ragione e mi ha lasciato andare senza rancore. Mentre rimugino il trenino lascia Casalecchio sbuffando, e si inoltra nelle giungle dell’alto Reno – che poi adesso sono parchi e campi coltivati, ma dove c’è più verde che condominio per me è già terra selvaggia. Ansimiamo dondolando come se fossimo su una monorotaia, ora a destra ora a sinistra. Un passeggero dorme, un altro si mette a posto la mascherina, una signora tiene un bimbo in grembo che si agita e le prende il naso con le manine, senza sapere bene che farci, ma intanto giochiamoci che è bello grosso.
Sasso Marconi è ancora meno città di Casalecchio. Si vede che i campi la circondano, se la vorrebbero ingoiare. Gli arbusti, i cedri, gli aceri, gli abeti entrano nei giardini, si infilano nelle finestre. Le strade sono così larghe perché aspettano prima o poi una carica di bufali, quando non ci saremo più noi. A Sasso c’era una delle mie case. Sì, è imbarazzante ma io ero un possidente. Non per colpa mia, è che mia mamma aveva un cugino ricco, uno che aveva un sacco di case di proprietà perché lucrava sugli affitti, e quando è morto l’unica erede era mamma, che siccome non ne aveva mezza le ha mollate a me. Tra IMU e tasse, è stata più la fatica che il gusto e non avete idea della gioia che ho provato, dopo vent’anni, a donarle tutte. Non volevo avere più nulla. Non sentivo più il diritto al possesso, sia giusto che ingiusto. Vero, non ho rubato nulla di ciò che avevo; ma mi scottava sulle mani come se l’avessi fatto.
Anzitutto c’era la mia casa a Bologna, quella su cui ancora io e mia moglie stavamo pagando il mutuo. A sorpresa ho finito di pagare l’ultima rata da solo, e subito sono volato dal notaio a donare la mia parte – divisa in tre – a mia moglie Camilla e ai nostri due figli. È una casa che abbiamo amato e non volevo darla al primo che passava. A Sasso Marconi avevo due appartamenti. Uno l’ho dato ad un centro sociale che insegna l’italiano ai migranti, l’altro – siccome era molto vasto – ho pensato bene di donarlo a una fondazione che organizza mostre fotografiche, e aveva bisogno di uno spazio meno angusto del sotterraneo di Via Saragozza dove stavano finora. E via così, finché non ho donato tutto l’immobile che avevo. Poi si è trattato delle mie cose. Tutti i miei libri, quelli che i miei familiari non leggerebbero mai perché abbiamo gusti diversi, li ho venduti al Libraccio in Via Oberdan; tutti i miei vestiti a mio figlio Giacomo, o alla Caritas; il resto degli oggetti che mi appartengono sono anche dei miei familiari, e preferivo non disporne senza consultarli. Li ho lasciati alla loro discrezione. Poi è venuto il turno dei liquidi. Grazie al cielo, a forza di pagare i notai (costano, le donazioni) e smettere di prendere affitti, non c’era rimasto tantissimo e ho potuto senza rimorsi darne tre quarti a mia moglie, che poi penserà a metterli a frutto per i ragazzi. Poi ho chiuso il conto e prelevato l’ultimo quarto in banconote, incerto sul da farsi. Alla fine ci ho comprato il biglietto di treno Bologna-Zegnai, gli abiti che indosso ora – cioè il mio saio di cotone – il coltellino svizzero e il piumone di lana, più qualche cosina che mi aspetta a destinazione; il resto l’ho dato a un amico di mia figlia Sara, che frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e sta cercando di produrre il suo primo film col crowdfunding. Siccome ce l’ho per casa da quando ha sei anni e so che è bravo, mi coccolo nell’idea che con quei soldini farà grandi cose.
Devo dire che la tentazione di scendere a Porretta è molto forte. Non è tanto per le terme, è che Porretta è un luogo mistico. Qui è davvero come essere circondati dal mondo antico, il mondo senza gli uomini. C’è il fiume, incastrato tra le montagne, e poche case mangiate dal verde, e i lampioni sul lungofiume che di notte paiono un sentiero nel cielo, trapunto di stelle. Qui andiamo sempre in vacanza io e Camilla, qui ci siamo pure conosciuti, qui abbiamo concepito Sara – insomma ci sono anche dei bei ricordi. Ma ho dato via tutto quello che avevo perché non reggevo più il superfluo che stroppiava la mia vita, e nulla di quello che Porretta offre mi attrae ora, se non vagabondare. O i ricordi, che però posso godermi ovunque, non solo a Porretta. Poi se con gli anni diventassi nostalgico mi ci riporterà mia moglie Camilla in macchina, se ne avrà voglia. E se tornerà a parlarmi ancora. All’ultimo colloquio credo di aver fatto brutta figura.
– Posso chiederti una cosa, Fulvio?
– Dimmi, Camilla.
– Tu sei sicuro di non essere matto?
– Mi hai fatto fare tutti i test del caso.
– Ok. Giusto per chiedere. Altra domanda: questo tuo delirio di mezza età è in realtà un modo per chiedermi il divorzio con un complicato sistema di specchi e leve?
– Tu vuoi divorziare, Camilla?
– No. E pensavo che nemmeno tu volessi.
– Ma infatti nemmeno io.
– Ok, ma a me sembra di vedere Freud lì nell’angolo che se la ride, ti indica e dice che sei un caso classico di isteria.
– Ah sì?
– Sì. I risvegli spirituali mi hanno sempre convinto poco. Sono una donna priva di fantasia. Che tu abbia deciso un bel momento di non voler più fare parte dell’ingranaggio umano, che volessi smetterla di consumare più del necessario, ritrovare la pace col mondo – tutto questo a me sembra un modo terribilmente complicato per non ammettere che stai di merda, magari sei pure depresso perché hai cinquantaquattro anni – fun fact: anch’io, succede a tutti – solo che anziché andare in terapia, hai deciso di farti santone e vivere nei boschi.
– Non ‘nei boschi’ e basta. Nel bosco di Zegnai, al confine del mondo. Non posso uscire dal mondo, vorrebbe dire ammazzarsi e non ne ho voglia. Ma siccome il mondo non mi piace più, mi sto semplicemente ritirando ai suoi confini.
– Che mi significa questa mossa?
– Ti dice che non c’entro più con tutto l’ambaradan, fate pure voi e buona fortuna.
– Cos’ha che non va l’ambaradan?
– È profondamente sbagliato e da solo non lo riesco a cambiare.
– Fulvio, se è la politica che ti manca…
– Non è per me. Preferisco una soluzione personale, diciamo.
– Tu hai presente che qui a Bologna avresti una casa, una famiglia e una compagna, a dar senso alla tua esistenza?
– Ma mica vi ho buttati via. Ci siete ancora e vi voglio bene. Tutto quello che potevo darvi ve l’ho dato. Potete venirmi a trovare quando volete. I ragazzi sono grandi, non gli devo più rimboccare le coperte. E tu hai diritto ad avere un uomo migliore al tuo fianco.
Camilla sospira:
– Ma mi andavi benissimo tu, Fulvio. Giuro che non ti capisco. E mi preoccupo, anche. Hai vissuto cinquant’anni e passa in letti puliti, case calde e docce bollenti – hai mangiato cibo cotto e latte pastorizzato. Non hai il fisico per fare il barbone. Pensa a tutte le malattie che ti prenderai. Agli incidenti, al primo inverno, alla fame e alla sete.
– Puoi portarmi del cibo, se vuoi. Ma non credo sarà necessario.
Alla fine l’ho convinta a lasciarmi andare senza fare chiasso. Camilla si sottovaluta sempre. Dice di essere priva di fantasia quando è semplicemente una persona concreta, e al mondo ci vogliono anche quelle – sono loro che, con l’aiuto dei sognatori, il mondo lo cambiano. A parte il fatto che prima ha dimostrato un’ottima capacità di sintesi quando ha descritto quello che sto cercando di fare – solo, non lo ha compreso fino in fondo; ma io non sono né concreto né un sognatore, sono solo uno che si è arreso e vuol fare pace, e questo è difficile da comprendere quando non ce l’hai dentro tu.
Il trenino barcolla, ringhia, pare che abbia l’enfisema, e curva in una valletta. Ci entrano i rampicanti dai finestrini. Da una lampada rotta sulla parete cola dell’acqua. Il fianco della montagna di Zegnai ascende con dolcezza, e il trenino lo affronta come se niente fosse. Sono rimasto l’unico a bordo. Il sole di maggio è alto nel cielo e mi acceca se guardo fuori. La vocina sintetica annuncia Ségnai, termine corsa del treno, e finalmente, col mio piumone in spalla, il saio indosso e i piedi nudi, scendo dal vagone e mi guardo intorno sulla pensilina. Poi mi incammino verso il lago, attraversando la città.
Se uno vivesse qui senza internet, senza giornali né telegiornali e senza parlare con nessuno, potrebbe davvero far finta che il mondo stia tutto qua, e che noi umani non abbiamo in fondo fatto chissà che cosa in questi ultimi ventimila anni. Ci sono quattro case, un fornaio, uno spaccio, orti, mucche che ti guardano perplesse. L’ufficio postale è un monolocale aperto due ore a settimana. Da qui non si vedono le guerre, quelle tra nazione e nazione e quella dei ricchi ai poveri; non si vede l’accelerazione dei nostri ultimi duecento anni, il libero mercato e l’Europa che depreda il mondo; la distribuzione ineguale dei beni e dei servizi qui non esiste; e a parte l’estate molto calda e l’inverno più mite, non si vedono nemmeno gli orrori del clima che abbiamo irrimediabilmente alterato. Da qui, al confine del mondo che hanno costruito gli esseri umani, uno può illudersi che tutte queste zozzerie non ci siano mai state. Io ho vissuto nel mondo per cinquant’anni, e non mi è piaciuto; mi sono riconosciuto impotente a cambiarne le logiche, sia da solo che in un gruppo organizzato. Quindi ho pensato a fare la mia pace separata.
Supero la mia vecchia casa – ci vive una famigliola con un neonato – poi mi inoltro nel giardino che è un bosco, digradando con orribile dolcezza nella gravina che ospita il lago glaciale. Ho in tasca la chiave di un capanno di due metri quadri in una radura fitta di menta selvatica, circondata da abeti bianchi; lì accanto, ho sistemato in questi mesi un piccolo orto. Niente di che, pomodori, lattuga, cavolfiore, qualche patata. L’acqua la prenderò dal lago, posso fare il fuoco con la legna e bollirla. Nel capanno non c’è niente, solo il pavimento dove butto il piumone di lana, nel quale dormirò. Se mi venisse voglia di fare due chiacchiere, conosco bene la gente che abita qui intorno – non mi negheranno un quarto d’ora di conversazione, o del prosciutto se gli avanza.
La giornata si fa ventosa. Mi rendo conto finalmente dei richiami degli uccelli sui rami intorno, e del chioccolio del torrente. Mi faccio largo nel sottobosco, confidando nei calli che mi sono fatto venire ai piedi, e che ora sento come due suole di cuoio insensibili, finché non arrivo al lago proprio là dove s’immette nel torrente e scende a valle. Mi siedo sulla spiaggia erbosa.
Il filare di cedri sulla vetta è ancora lì, in alto nel cielo. Là c’è il confine del mondo; di là dalla montagna si cade di sotto, non c’è più niente. Finalmente sono a margine di tutto il resto, senza consumare nulla se non il necessario, senza partecipare alla giostra senza senso che ho abbandonato. Incrocio le braccia e chino la testa sul petto, rimuginando. Questi sono anni critici – magari qualcuno farà questa benedetta rivoluzione e ci sarà un mondo nuovo. Se succede nei prossimi quarant’anni, forse riuscirò a vederlo persino io, e tornerò a piedi a Bologna, per morire in un mondo di cui finalmente non mi angoscio a far parte. Ma è più probabile che un bel giorno qualcuno mi troverà morto di vecchiaia, avvolto nel mio piumone di lana. E allora seppellirà me e tutte le mie cose qui, in riva al lago, per ridare davvero tutto al mondo senza uomini.
Come se mi sentissero pensare, cominciano a farsi accanto a me i cigni. Non sono tutti della stessa specie – ci sono i cigni classici, quelli tutti bianchi, ma ce ne sono anche di neri, o con solo il collo nero e il becco rosso, con una specie di grosso bitorzolo sopra. Scorrono nell’acqua a malapena increspando le onde, ne escono, torcono il collo e mi guardano. Conoscendoli, non muovo un muscolo e non provo a toccarli. Non sono cani, d’altronde. Quando hanno capito che non faccio niente, tornano a setacciare la riva e le acque basse per alghe, larve o semi. A poca distanza da me, tra i giunchi, mi pare di vedere qualche mamma cigno sul suo nido, e in effetti questa è la stagione della cova. Penso ai cignini che sballonzolano di qua e di là, coperti di piume grasse e ruvide, e ai loro twit twit. Vederli crescere, e vedere le loro mamme rifare le uova l’anno prossimo, sarà la mia serie di Netflix permanente. E io che temevo di annoiarmi.