Niente e nessuna voce avrebbe potuto far cambiare idea alla madre che aveva scelto chi doveva partire guardando le mani, gli occhi e la lingua.
Lei, che era la più piccola e aveva studiato l’algebra, sarebbe andata in occidente.
Probabilmente uscì di corsa quel giorno, attraversò il campo e salì sul camion con le ruote enormi sbattendo il di dietro.
La casa, se l’era messa nello zaino, sotto lo stomaco e sulle spalle.
Suo fratellino che si trascinava per terra l’avrebbe protetta nelle lunghe sere fredde e affannate.
La casa si sarebbe allungata come la sua manina, come una pellicola trasparente ,un filo lucente.
Avrebbe preso i mattoni nel suo respiro ,andando verso l’alto e poi si sarebbe sparsa nell’aria.
Per lei fu un viaggio nel futuro, un tonfo di stivali possenti nel fango.
Il suo progetto si realizzò, studiò, lavorò e pensò sempre al suo fratellino sotto la copertina con la neve alta fuori dalla piccola finestra.
I sei ragazzi partirono verso oriente .
Sicuramente presero il treno nero d’acciaio.
Erano tutti alti, forti e duri.
Spezzarono in fretta le catene e la casa prese il volo nel cielo plumbeo della loro solitudine.
Svendettero il pane, il letto e la luce della lampada all’ingresso.
Erano in sei, presto rimasero in tre.
Le piazze, le strade della città erano troppo piatte, lunghe, immobili.
Loro rincorrevano la polvere, perché, pensavano che almeno li avrebbe coperti, forse avrebbero visto i brillantini che entravano dalla finestra come a casa .
Ma in quella città senza nome tutto era troppo pulito, senza odore, senza respiro.
Il vuoto orizzontale della città si depositava nelle stanze subaffittate e saliva nello stomaco.
Un ragazzo morì di tumore, uno di cirrosi e l’ultimo finì in prigione dove almeno i muri erano alti.
Tre finirono nell’esercito e nella polizia, abitarono sempre in case squadrate, metalliche e tinte di giallo.
settembre 2017