Interventi

Quale censura

Pensò di essere pronta a scoprire le sue vie e la sua gente, ad apprendere da quella nuova cultura di cui aveva solamente letto su periodici e articoli on –line, che le permettevano di praticare la nuova lingua, appresa attraverso un colombiano vissuto per quindici anni a Roma. (Racconti Lingua madre Duemilatredici Racconti di donne straniere in Italia a cura di Daniela Finocchi, Edizioni Seb 2013,  p. 185)

Sulla censura letteraria femminile, si conosce ormai molto riguardo un triste passato in cui alle donne era preclusa la scrittura e le autrici erano costrette ad uno pseudonimo maschile. Scrittrici come Jane Austen,Virginia Woolf, Emily Dickinson, Elisabeth Barrett Browning, Mary Shelley e in Italia Matilde Serao, Ada Negri (le uniche che compaiono nelle antologie scolastiche del primo Novecento) Sibilla Aleramo, Anna Banti, Gianna Manzini, Elsa Morante, Natalia Ginsburg e Alba De Cespedes per citarne solo qualcuna, conoscevano perfettamente il cammino impervio delle donne che ambivano a diventare scrittrici, in epoche in cui alle donne era precluso qualsiasi ruolo che non fosse primariamente quello di madre e di moglie.

Negli anni 40 una delle forme più diffuse ed economicamente apprezzabile era la cosiddetta letteratura femminile “rosa”. Le storie d’amore e i loro intrecci fiabeschi terminavano sempre con un lieto fine e la struttura della trama di facile lettura veniva per l’appunto spesso abbinata alle competenze autoriali femminili. Le scrittrici potevano ottenere una certa visibilità solo se facenti parte di circoli politici e solo più avanti sono apparse alla ribalta le grandi “romanziere”.

Oggi che significato assume la censura? Possiamo parlare di un autoritarismo celato in una forma falsa di democrazia editoriale?

La forte passione femminile per la scrittura, la voglia di autonomia, l’estrema battaglia per il riconoscimento di una presunta neutralità della scrittura convergono in un percorso che tuttora non porta ad una raggiunta uguaglianza ma, semmai come ben sottolinea Eleonora Chiti Lucchesi, in una significativa differenza di un’arte.(E. Chiti Lucchesi, Scrittura femminile in Glossario Lessico della differenza a cura di Aida Ribeiro Centro Studi e documentazione pensiero femminile, Torino, 2007, pp. 228-234

C’è da chiedersi se nel nuovo millennio, nei paesi occidentali, la censura letteraria femminile abbia avuto un itinerario in discesa. Se da un lato negli ultimi decenni, molti sono stati i progressi riguardo la libertà di parola e di stampa, con un aumento esponenziale delle donne scrittrici e di coloro che hanno “conquistato” alcune posizioni strategiche in campo editoriale lottando tenacemente, molti rimangono i punti oscuri da chiarire sugli spazi occupati dalla letteratura di genere, e sui modelli argomentativi proposti in campo letterario dalle stesse autrici.

La scrittura ha rappresentato e rappresenta tuttora un veicolo sostitutivo alla parola stessa. Scrivere significa ancora testimoniare, raccontare autobiograficamente le difficoltà del proprio vissuto personale, denunciare le ingiustizie sociali, evidenziare le differenze culturali, e nel caso specifico riguardante la censura letteraria al femminile, marcare purtroppo la sostanziale differenza di genere in campo di diritti sociali.

La libertà di scrittura e di espressione non è terreno egualitario in molti paesi anche vicini al nostro. Molte sono le testimonianze tratte dai Racconti di donne straniere in Italia Lingua Madre che denunciano come le differenze culturali e politiche incidano notevolmente sullo stesso percorso professionale di donne che vivono in paesi lontani. Nelle università irachene, per citare un esempio, spesso infatti le studentesse non arrivano nemmeno a lezione o perché i mezzi di trasporto smettono di circolare, o perché preferiscono rimanere in luoghi protetti e sicuri; o perché scarseggiano i viveri o vengono a conoscenza, dai docenti della loro stessa università, dei pericoli e delle gravi limitazioni che subiscono le donne desiderose di arrivare ad una laurea. Sono queste stesse donne a tentare spesso la via dell’espatrio per coltivare un sogno professionale legato soprattutto ad una sopravvivenza culturale.

Al contempo, anche vivendo in paesi occidentali civili e democratici, scelte legate alla maternità e al desiderio di famiglia vanno a discapito della propria crescita professionale, e si assiste, spesso, ad una diffusa discriminazione e distinzione di genere, che porta all’avanzamento della carriera maschile.

Jennifer Steil, scrittrice americana ha raccontato in un libro, La città di pan di zenzero la propria intensa esperienza estera come capo redattrice al giornale Yemen Observer. La situazione lavorativa approdando in un paese straniero, molto complesso da un punto di vista sociale, culturale e politico si scontra con la volontà di diffondere il proprio «vangelo giornalistico», all’interno di una cultura dai risvolti assolutamente differenti rispetto alla condizione giornalistica americana.

Le redazioni, apparentemente eterogenee, vedono invece primeggiare gli uomini che godono di una libertà d’azione assoluta rispetto alle redattrici; sono coloro che arrivano tardi in redazione, hanno una pausa pranzo che può durare alcune ore, masticano nello Yemen in continuazione il qat (un’erba che dà gli stessi effetti di una droga ed è legalizzata), privilegi incomprensibili che danno una resa sul piano giornalistico disastrosa: la cronaca, infatti, risulta essere assolutamente fuorviante e lontana dai reali accadimenti quotidiani. Corruzione e copiatura sono gli aspetti più devastanti del lavoro editoriale, ben raccontato dalla Steil. Non solo. Le donne vengono importunate di continuo e sono costrette, per poter vivere apparentemente in modo tranquillo, a mentire sul proprio status familiare.

Farsi accettare e far comprendere il corretto ruolo di scrittrice e di giornalista è stato un compito molto arduo per Jennifer Steil e per tante donne straniere e non alle redazioni dei quotidiani locali. Gli uomini mantengono tuttora consuetudini assurde e avviare un minimo cambiamento sulle radicate tradizioni culturali, significa imbattersi in resistenze molto forti, che appartengono ancora a specifici status in cui non sono accettati i diritti umani che stanno alla base dei principi egualitari della nostra società.

Le donne continuano ad essere ancora discriminate, occupano ruoli lavorativi secondari e purtroppo vengono spesso molestate.

E le donne straniere che scrivono in Italia? Spesso sono persone giovani che hanno lasciato il paese d’origine per ragioni diverse; molte di loro, e ce lo testimoniano i racconti di Lingua Madre, hanno iniziato un percorso di studi altrove e hanno un grande desiderio di concludere gli studi in Italia anche per cimentarsi con una scrittura che diviene veicolo fondamentale della propria appartenenza culturale e sociale. Ma la scrittura per loro è soprattutto un richiamo forte, sicuro e orgoglioso sulla propria identità di “straniere” e un mezzo di denuncia molto forte.

Esiste per loro una forma di autocensura?

Quando un’autrice riesce a parlare e a descrivere le atrocità che subiscono le donne, anche sotto forma di leggenda o di racconto verosimile, il muro dell’autocensura si sfalda lentamente e apre nuove forme di acquisizione di fiducia in sé.

Edona e Leoreta Ndoci, narrando i ricordi della loro infanzia, parlano di una donna che si sacrifica e viene “murata viva” secondo un’antica leggenda, perché il muro “si rafforzi e rimanga eretto per secoli…”; perché proprio una donna murata viva? Si tratta pur sempre di una leggenda, ma rimane il dubbio che anche in questo caso il brutale racconto voglia certamente esaltare l’eternità della forza femminile, il sacrificio quasi tribale dell’essere donna, ma sia stato raccontato alle autrici bambine per demarcare ancora una volta una differenza di genere che in questo caso va a totale svantaggio della donna. Un ricordo d’infanzia molto forte, talmente crudo e impresso nella memoria che le autrici sentono la necessità di testimoniarlo su carta.

Si può parlare di un “controllo” riguardo alle opere presentate da scrittrici straniere in Italia?

Certamente non è sufficiente lo spazio che viene riservato alla letteratura migrante in campo editoriale, anche se negli ultimi anni abbiamo assistito ad un crescente interesse e ad una viva curiosità in merito a tale produzione letteraria. Accanto allo straordinario lavoro che promuove il concorso letterario nazionale Lingua madre Racconti di donne straniere in Italia e l’interesse crescente in alcune Università e istituzioni regionali che iniziano a dare più spazio e voce alle scrittrici migranti, la sensazione forte è che ancora una volta a primeggiare nelle librerie siano i grandi nomi maschili stranieri.

Scriveva Gëzim Hajdari: “È duro il destino dei poeti, ieri per la dittatura eravamo pericolosi, oggi per la libertà siamo inutili.”. Bellissimo l’esempio invece di Maria Candelaria Romero che giunta in Italia negli anni ’90, ha potuto realizzare un suo grande sogno portando in teatro molte sue poesie tratte per l’appunto da un volume intitolato, Poesie di fine mundo. (C. Romero, Poesie di fine mundo (1988 – 2009) Varese Lieto Colle, 2012)

È lei stessa ad essere orgogliosa di non aver subito nessuna forma di censura e lo testimoniano le sue poesie, fortemente volute e tragicamente forti. Ne citiamo alcune:

Ho creduto
che sognare fosse già vita
oggi mi trovo assassinata dal bianco delle lenzuola

Giovedì 27 gennaio 2006

Le Madri di Plaza de Mayo hanno smesso di marciare
Il nemico non è più al potere
Si volta pagina
Possiamo allontanarci dai cannoni
Scambiare altri sguardi senza polvere da sparo negli occhi.
Ma chi si ricorda com’era prima?
Come ci si stringe senza lo scoppio?
Come ci si bacia senza sirene?
Dove si va senza dover ricorrere al riparo?
Come ti amerò ora che non muoio?

Versi densi di significati tragici, dove il sogno è accostato alla morte, in cui il chiarore del giorno e il bianco delle lenzuola contrastano con una morte crudele (l’assassinio) che chiude per sempre l’aspirazione ad una vita libera. Poche righe iniziali che connotano l’intera raccolta.

Qui non c’è censura. Nella Piazza principale di Buenos Aires non si marcia più contro la tirannia. Ma la lotta non è terminata. Si deve lottare ancora per scacciare i ricordi dei tanti crimini commessi contro l’umanità, sotto tanti sguardi innocenti. Si può ricominciare a vivere? Gli interrogativi rimangono aperti. Come si può riamare senza la paura di un ritorno all’odio e all’incubo di una “guerra politica”?

Tante le riflessioni senza censura che propone Maria Romero: è lei a parlare di Immigrate senza voto, di prostituzione (un buco nel cuore, uno sputo sulla Morte) delle Morti bianche in Oriente, di una poesia che non si posa mai, di morti bianche nell’ospedale ferroviario di San Miguel de Tucuman .

Oggi parlare di censura implica “un’improbabile rivendicazione del tasso di verità connesso alla parola degli scrittori”; ciò comporta una riflessione sulla motivazione che spinge ogni autrice al racconto presumibilmente veritiero riguardo gli specifici avvenimenti tragici e il legame con gli aspetti editoriali e commerciali. L’autocensura esiste nel momento in cui le autrici accettano mediazioni troppo imposte dalle dinamiche editoriali, ma anche quando scelgono di percorrere con la scrittura un filone argomentativo sondato e di sicuro effetto tra i lettori. Ciò è più pericoloso della censura esterna. L’autocensura conduce in questo caso ad uno scritto letterario non veritiero, alla manipolazione della verità interiore.

Ciò non avviene con la letteratura migrante. I tanti racconti di donne straniere in Italia raccolti nei volumi Lingua Madre ci dimostrano infatti che non si assiste alla repressione della coscienza di queste straordinarie donne, che esprimono invece le proprie idee, il vissuto personale, i forti desideri, le storie umane, il ruolo della donna, la progettualità, le esperienze di vita, le speranze future, il bisogno di acquisizione di identità, l’apprendimento di una lingua nuova, tante verità finalmente rivelate proprio grazie alla scrittura. Il loro viaggio è iniziato e il loro cammino non è concluso…

L’essere donna non le avrebbe mai impedito di diventare ciò che lei avrebbe voluto e che la sua opinione avrebbe avuto lo stesso valore di chiunque altro; le avrebbe fatto da guida aiutandola a rialzarsi dopo ogni caduta; a reagire ai pregiudizi, a non portare rancore e perdonare i pregiudizi; a non rinnegare il proprio passato dimenticando le proprie origini, ma anzi le avrebbe insegnato ad andarne fiera, facendosi conoscere e facendo accettare la propria cultura a chiunque l’avesse guardata in modo diverso perché straniera, dimostrandosi così superiore; ma soprattutto le avrebbe insegnato a non avere più paura. (Lingua Madre Duemilatredici Racconti di donne straniere in Italia a cura di Daniela Finocchi. Edizioni Seb, 2013, p. 183.

 

 

L'autore

Mariangela Lando

Nata a Bassano del Grappa, vive a Padova dal 2001. Ha conseguito una laurea triennale con una tesi sul “Tema d’infanzia nella narrativa di Luigi Meneghello” e una tesi specialistica con “La narrativa autobiografica di Alfredo Panzini”.
Attualmente svolge un dottorato di ricerca in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie presso l’ Università di Padova riguardo “Le storie e i manuali letterari per l’insegnamento 1870-1923: censimento e studio critico”. Altri interessi sono rappresentati dallo studio della forma antologica tra Ottocento e Novecento – Il racconto della letteratura: periodizzazione- interpretazione- modelli di riferimento- Studi di genere e scrittura femminile Novecento – Didattica dell’insegnamento attuale. Collabora al Concorso letterario nazionale Lingua Madre.