Interventi

saggio di Arabella Bertola su Don Mee Choi

Don Mee Choi: la resistenza di una scrittura ‘errorista’

Don Mee Choi, poeta e traduttrice, lascia la Corea nel 1972, all’età di 10 anni, per trasferirsi con la famiglia ad Hong Kong. Là resta per un altro decennio, prima di andare a studiare negli Stati Uniti, dove risiede e lavora tuttora. Durante gli anni universitari inizia a scrivere. Traduttrice di alcune delle maggiori poete e femministe coreane contemporanee, solo grazie a questo lavoro riesce, come spiega lei stessa, ad iniziare un cruciale processo di indagine e rielaborazione del suo personale spaesamento sia come donna che come emigrata dalla neo-colonia[i] al centro dell’impero. All’interno della tradizione letteraria coreana, come in altre società patriarcali, le donne e la loro scrittura erano emarginate; escluse dalla sfera pubblica e relegate a quella privata. Don Mee Choi, con il suo lavoro di traduzione ne prende coscienza. Si rende inoltre conto sia delle omissioni dalla narrazione ufficiale che della resistenza alle convenzioni operata da alcune letterate femministe del suo paese. Da qui comincia un lavoro di ridefinizione, anzi di rinegoziazione, della propria identità di donna, coreana e di emigrata. Un’opera di decostruzione che, come lei stessa ha dichiarato, procede per continue lacerazioni del testo e metatesto, linguistico e storico: una ricognizione della memoria che solo attraverso il fallimento perviene a una traduzione che diventa denuncia. In questa ricognizione della vicenda neo-coloniale del suo paese e della sua condizione di soggetto subalterno, Choi indaga la narrazione ‘da lontano’ e ‘da vicino’, aprendo uno spazio poetico affollatissimo; densissimo di citazioni, ibridazioni e sovrapposizioni. La sua tecnica narrativa mista, imita il parossistico affastellarsi dell’ossessiva ipernarrazione del presente  procedendo per frammentazioni progressive. Perviene così ad una struttura stratificata, fatta di intercapedini metatestuali che sfuggono ogni definizione e decostruiscono confini, concetti e identità, traducendosi in una lingua rabbiosa e dirompente che interroga l’assordante narrazione dominante.

Tra i concetti cardine che Choi contrappone nella sua indagine ci sono, da un lato, la ‘narrazione da lontano’, quella del potere accentratore e nella lingua del dominatore, infarcita di epica; dall’altro la ‘narrazione da vicino’ o micro-cronaca, più cruda e traumatica, di fatti cruenti per solito censurati. Ma anche in questa oscena ostensione del trauma, la verità scomoda, la voce dei subalterni, oppressi e colonizzati, finisce per essere taciuta e marginalizzata attraverso la sua reificazione e la sua sadica mise en scène. Per denunciare le tecniche panoptiche del potere, la poesia di Choi adotta un caleidoscopio impazzito di inquadrature destabilizzanti e una lingua vertiginosa che sovverte la narrazione dominante o master narrative e ne fa parodia. L’intreccio tra lingua e potere viene potentemente evocato con rimandi e note, a riprova della continua riflessione di Choi sul linguaggio come strumento di controllo.

Puntualmente, Choi interroga anche la riduzione a spettacolo delle guerre attraverso una retorica che fagocita il trauma, anche linguistico, in un serie di cliché e luoghi comuni incapaci di testimoniare la verità. E in questa sete di decostruzione, Choi arriva spesso a far esplodere e deflagrare le minime strutture linguistiche per decolonizzare non solo la lingua del potere ma anche quella dell’ identità[ii]. E’ una poesia la sua che procede per slittamenti e imboscate all’unità di senso alla ricerca una ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato, forma e contenuto, anche e soprattutto attraverso la parodia e la citazione, come ad esempio nella poesia “Twin Flower, Master, Emily”. Qui Choi si mette in gioco a tutto campo, fino al limite dello spazio poetico, della prosa e della poesia, della memoria e dell’o-sceno, rivendicando il diritto ad una ‘ontologia fetale’, ad una lingua beckettianamente frammentata, per contrastare il discorso dominante. Una scrittura la sua che vuole rompere schemi e che procede per fallimenti e approssimazioni, approdando infine ad un nuovo modo di estendere il testo, anche fisicamente.

Choi tende soprattutto ad archiviare la grammatica dell’impero per fare spazio alla inevitabile frammentazione di una soggettività altra e postumana, in una  lingua che si  spoglia e si riaggrega in una sorta di ‘frammar’, termine da lei stessa coniato nella poesia “Grammar Frammar, teatro del suo conflittuale e creativo rapporto con la lingua acquisita, l’inglese, e la grammatica dell’obbedienza. La cito per intero data la sua importanza:

 

Grammar Frammar

Is it not drama? Whether manegg is a count or non-count noun is not parent to me, which is to say, I am in trance, transparent, phonically speaking. Let me put an end to grammar of obedience and colonialism with fetal ontology—that was my intention, eggbition. Event very parent. Correct me if you wish. I am kind of late sing-along. My tongue is forever attached to nipples. Incubate me, terminate me. Frammar, grammar’s fetality is a production against trauma.[iii]

 

Il testo, tratto dalla sezione ‘’Diario di una traduttrice’’,  è  una traduzione omofonica della poesia  ‘Manteg’, scritta sia in creolo che in francese dal poeta – filosofo martinicano Monchoachi. La tecnica adottata dall’autrice è dunque quella di aggiungere a un testo già ibrido un ulteriore livello di straniamento e approssimazione, rifiutando soluzioni di facile comprensione e optando per una lingua allusiva e irriverente. Anche nella pratica traduttiva dunque, Choi  è consapevole di quanto sia vitale aprire piuttosto che chiudere il senso. Moltiplicare piuttosto che semplificare e universalizzare. Soprattutto cercare di non colonizzare o normalizzare il testo ma, al contrario,  mettersi in relazione con esso. Il tema della ‘traduzione’ è  d’altronde centrale in tutta la produzione di Choi. Traduzione come unica via per cercare un’appartenenza e, allo stesso tempo, per esprimere il profondo senso di spaesamento di chi non ne ha una. Traduzione come tradimento e negazione, dunque, ma anche traduzione come unico spazio per resistere al trauma del dominio. E proprio per questo motivo nella scrittura di Choi emerge una sempre più stringente necessità di  trovare una lingua che crei uno spazio inclinato ed erratico dove la soggettività possa abitare e disabitare,  divenire altro e dichiararsi ‘fallimentare’. Una lingua che non adotti il punto di vista del soggetto solipsistico, del pronome grammaticale eretto,[iv]autosufficiente e solitario. Una lingua che si metta in ascolto. Come si è visto anche nel breve esempio riportato, Choi  rifiuta la  logica dell’invisibilità e neutralità sia del traduttore che dell’io narrante, ma rivendica invece un territorio nuovo, fetale, indistinto, abitato da un’alterità che però sappia contenere i silenzi e le abiezioni di una soggettività, quella femminile e coloniale, che è sempre stata teorizzata in contrapposizione al regime dell’Uno, il soggetto universale neutro e asessuato, che poi  è il regno della tecnologia e della tecnocrazia, dell’individuo astratto. Su questa idea di traduzione come atto sovversivo, si vedano anche le teorie di Maria Tymoczko, la quale ha addirittura definito la traduzione e la letteratura postcoloniale come “sovversive”, in quanto spesso utilizzate per sovvertire le norme del sistema letterario d’appartenenza[v].  La scrittura di Choi contiene perciò, come tutte le ‘letterature minoritarie’, una forte consapevolezza politica, consapevolezza che è ben presente sia nelle sue traduzioni che nella sua poesia.  Ne consegue  una tensione continua dovuta alla complessa condizione di esule che guarda alla madre patria con occhi disincantati.  Una condizione che  Kristeva descrive come segue:  “The time of abjection is double: a time of oblivion and thunder, of veiled infinity and the moment when revelation bursts forth.” [vi] L’abiezione dunque come occasione di rifondazione del linguaggio omologante e normativo attraverso il suo rifiuto. Come annota sempre Kristeva: «Contrary to hysteria, which brings about, ignores, or seduces the symbolic but does not produce it, the subject of abjection is eminently productive of culture. Its symptom is the rejection and reconstruction of languages ».[vii]

            Per Choi, dunque, ogni atto linguistico è un tentativo di tradurre la realtà vissuta e questo significa dare voce alla sua condizione di marginalità, spaesamento e subalternità. A tal proposito, in una recente intervista, ha dichiarato che per lei “la  traduzione è una forma di esilio e impero” . E questa consapevolezza emerge ancora più chiaramente quando, dopo molti anni di lontananza, torna in Corea, e capisce quanto le sia difficile riuscire a ‘tradurre’ nella sua scrittura ciò che ha visto e le testimonianze di oppressione e violenza che ha raccolto. E da qui prende corpo soprattutto la sua perenne condizione di eccentricità sia rispetto alla lingua di origine che a quella di adozione. Di questa condizione ibrida e liminare però Choi si avvale per far emergere, sia nelle traduzioni che nella sua produzione poetica, tutto ciò che eccede e sovverte, in  una lingua profondamente irriverente che gioca a scardinare significanti e i significati anche con una buona dose di ironia, e sempre attenta a smascherare la retorica dell’oppressore e dell’oppresso. In questa ottica, grazie alla profonda  riflessione sull’atto della scrittura e della traduzione in particolare, la poetica di Don Mee Choi si inserisce a buon diritto nel flusso dell’ipertesto postmoderno. Una poetica la sua dove significati, identità e lingua sono continuamente posti in discussione attraverso una scrittura sperimentale e frammentata che diventa, in ultima analisi, quasi un elogio dell’approssimazione e dell’errore quale unica via per sottrarsi al discorso dominante. In un’epoca di accettazione e condiscendenza globalizzate, Choi decide dunque  di  testimoniare la propria dissonanza scegliendo, per citare un suo neologismo,  di diventare una poeta ‘errorista’.

[i] “La presenza di circa cento basi ed installazioni militari americane in Corea del Sud,  su un territorio che è solo un quarto della California, fa di questo paese una realtà neocoloniale, in altri termini, un paese culturalmente e politicamente subordinato agli Stati Uniti”.  Don Mee Choi, Introduction, in Kim Hyesoon, Mommy Must Be a Fountain of Feathers , tr. di Don Mee Choi, Action Books, 2008, p. 9  (traduzione mia)
[ii]  Si vedano i rimandi a Deleuze e Guattari nella poesia “Diary of Return” (Diario del ritorno).
[iii]  Don Mee Choi, The Morning News Is Exciting, Action Books, 2010.
[iv]  Cfr. Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine,Cortina, 2013.
[v] Maria Tymoczko, Post-colonial writing and literary translation, in S. Bassnett and H. Trivedi eds, Post–Colonial Translation, London and New York: Routledge, 1999.
[vi] Julia Kristeva, Powers of Horror: An essay on Abjection, Columbia University Press, 1982, p.9
[vii] Julia Kristeva, p. 46

L'autore

Arabella Bertola