Interventi

saggio julio – Ada Milani

Note sulla produzione in portoghese di Julio Monteiro Martins[1]

1.1

Julio Monteiro Martins, come è noto, inizia la carriera letteraria in Brasile, suo paese d’origine, appena ventenne. Siamo nella metà degli anni Settanta e, nello stesso periodo, si fanno strada nella realtà brasiliana diversi nuovi scrittori, accomunati essenzialmente da due caratteristiche: la marcata predilezione per i racconti o le short stories e la volontà di fare literatura comprometida, ossia letteratura impegnata. Fu in quel “mondo imperfetto” degli anni di piombo della dittatura militare – anni di censura e di intensa repressione politica in cui giornalisti e operai venivano uccisi dai militari, mentre il Brasile scopriva la falsità del “miracolo economico” del generale Médici e dell’economista Delfim Neto – che si iniziò a parlare del boom della letteratura brasiliana[2]. Giornali e riviste letterarie, in aperta opposizione alla dittatura militare, sorsero in tutto territorio brasiliano creando un incredibile senso di rivolta contro l’oppressione e muovendosi a favore della creatività e della diversità di stili: dall’underground hippie alla letteratura di resistenza democratica. In quell’epoca culturalmente effervescente, O Pasquim, il giornale più influente della sinistra, insieme a Opinião e Movimento, decise di dare avvio a una nuova casa editrice, la Codecri. Una delle prime mosse fatte dal direttore, Jéferson Ribeiro de Andrade, fu la pubblicazione di un’antologia di dodici racconti della novíssima literatura brasileira. Gli autori prescelti furono sei giovani che avevano già da qualche tempo attirato l’attenzione per il loro precoce talento nello scrivere racconti: oltre allo stesso Jéferson Ribeiro de Andrade, troviamo Antonio Barreto, Domingos Pellegrini, Julio César Monteiro Martins, Caio Fernando Abreu e Luiz Fernando Emediato. Erano questi i sei “Paladini dell’Ovest”[3], che intrattenevano fra loro una fitta e febbrile corrispondenza e che, nell’entusiasmo degli esordi, sognavano di lanciare un manifesto letterario, provando a ripercorrere le orme dei modernisti della Semana da Arte Moderna del 1922.

Bárbara, tuttora inedito in italiano, venne pubblicato in Brasile nel 1979, in quel preciso contesto storico, dalla citata casa editrice Codecri. Composto da diciotto segmenti autonomi, più che un romanzo può essere definito un romanzo-in-racconti, in cui le diverse parti, seppure presentando un punto di vista diverso, raccontano la vita della protagonista, dall’infanzia alla vecchiaia.

Gli anni Settanta fanno da sfondo all’intera vita di Bárbara, “come se il tempo si fosse fermato durante le lotte e gli scontri più aperti contro il regime militare, prima dell’amnistia del 1978”[4]. Uno dei motivi centrali del romanzo è dunque la violenza, in primo luogo quella di cui sarà vittima Bárbara, quando, ancora bambina, verrà abusata dallo zio, fatto che segnerà per sempre anche la sua vita sentimentale. Oltre al lato privato della violenza, vi è poi, nel romanzo, un risvolto pubblico, evidente nei frammenti che portano in scena i crimini commessi dal potere e la faccia deformata della società brasiliana: la povertà, il clima kafkiano in cui si muove la polizia, “il sangue che scorre per le strade”, l’assurdità di tenere chiuso un uomo in carcere per otto anni solo per le sue opinioni, solo perché “non gli piaceva il regime repressivo che si era instaurato che, facendo l’alto e il basso in tutto, aggirava le leggi sopprimendole per non trovarsi istituzionalmente fuori legge e con ciò essere legalmente  in regola”. La violenza dello Stato raggiungerà il culmine nel segmento intitolato “Scalinate di marmo”, come si vede nel passaggio riportato qui di seguito:

 Le lancette dell’orologio marciavano avanti. I manifestanti cominciarono a riunirsi, alcuni in piccoli gruppi, altri in gruppi più numerosi e in pochi minuti la grande piazza e le scalinate vennero occupate dal popolo che gridava: Amnistia! Amnistia! Abbasso la dittatura! È ora! Li– ber– tà! Li– ber– tà! […] Ronzii di motori in marcia e clacson. Arrivavano da tutte le vie e direzioni. La polizia bloccò tutte le uscite. Cingoli d’acciaio ammaccavano l’asfalto e sbarravano gli incroci. Accanto ai carri armati, centinaia di uomini armati di fucili mitragliatori, lunghi manganelli, bombe a gas e granate, dietro ai loro scudi e al luccichio dei loro caschi. Cani idrofobi travestiti da gladiatori in acrilico. I manifestanti, accerchiati, si davano il braccio e cantavano all’unisono: “Dai, andiamo via. / Che aspettare non è saggio / Chi sa decide la sua ora / Non aspetta che arrivi…” Non avrebbero indietreggiato i piedi della piazza, e avrebbero cantato gli inni della patria, per ricordare che il padrone della piazza è il popolo se la polizia non avesse cominciato ad avanzare. Due urli del comandante e i ragazzi, tracagnotti, addestrati per il sangue, si misero a correre verso la folla, menando randellate a caso, calci, pugni e pestando e correndo e camminando sopra quelli che cadevano. La folla, attonita, non sapeva da che parte fuggire e correva in cerchio, urtandosi mentre l’assedio massacrante si stringeva intorno ad essa. Dalla finestra di uno degli uffici degli edifici di fronte, qualcuno gettò un vaso di ceramica sui caschi. Immediatamente, oggetti di tutti i generi cominciarono a cadere sui soldati come una grossa pioggia estiva. Cucitrici metalliche, posacenere, cestini dei rifiuti e schedari, cassetti e portaritratti. Dal quinto piano dello stabile dell’edicola, gettarono una macchina da scrivere. Si udì la prima raffica. Il primo corpo penzolava dal parapetto.

Gli spari cominciarono a soffocare i lamenti delle persone agonizzanti. Le madri abbracciavano i loro bambini e cercavano di aprirsi un varco con il cranio a mo’ d’ariete, tentando di arrivare in vita alle colonne del Palazzo. Le scalinate di marmo si erano trasformate nell’orrendo scenario di una battaglia impari. I corpi si trascinavano con i gomiti, sui gradini senza fine, in cerca di trincee inesistenti.

 Bárbara vive la sua vita come una continua scommessa e, come l’uccello a cui, in uno dei segmenti, verranno tagliate le ali, è il simbolo di una costante ricerca della libertà, sempre tristemente frustrata. Non a caso, ad accompagnare la narrazione è significativamente l’immagine solitaria di Bárbara, in compagnia della sua chitarra. A fare da filo conduttore a tutta l’evoluzione biografica della protagonista è la musica, e in particolare una canzone del 1956, intitolata Maracangalha. Trent’anni dopo Pasárgada di Manuel Bandeira, il samba escapista di Dorival Caymmi, diviene qui simbolo della fuga dalla dura realtà e della ricerca di un luogo sognato, remoto spazio di tranquillità e pace[5].

 1.2.

Ogni uomo deve essere considerato nella sua grandezza
per il semplice fatto che sa di morire.
Ecco la differenza tra l’essere umano
e la mera biologia che lo trasporta.
Quando la coscienza della morte trascende
la perplessità iniziale e serenamente si materializza,
l’essere attinge la dimensione più degna
e maestosa che si possa concepire.
Poiché è, ancora è, ed è così vicino al non essere.
Si trasforma in vita allo stato puro.
Diventa l’essenza raggiante di se stesso.

 Julio Monteiro Martins

A última pele (L’ultima pelle), romanzo del tutto inedito sia in portoghese sia in italiano, è composto da una serie di annotazioni, di carattere intimo e autobiografico, scritte a cadenza mensile, tra il febbraio e l’ottobre del 1988. Il romanzo è, in primo luogo, la storia di un abbandono, quell’abbandono totale e irreparabile che può scaturire soltanto dalla perdita di una persona amata. La narrazione si apre con il racconto delle angosciose settimane trascorse in ospedale al capezzale della nonna in fin di vita. Le ore del giorno scorrono frenetiche tra “dottori a consulto e infermiere cibernetiche”, impegnati “a spandere intorno un burocratico ottimismo”. I personaggi che vagano per le corsie dell’ospedale sembrano invece usciti da un film di Federico Fellini, sono figure rapide e ansiose, che si trascinano dietro “la fervida sensualità di chi vive a stretto contatto con la malattia e la morte”. Al fianco di Julio, troviamo spesso il fratello Fernando e la sua fidanzata Yara, entrambi medici. Ciononostante, le ore notturne sono solitarie e profonde, e si costruiscono come un dialogo muto, in cui nonna e nipote comunicano intensamente attraverso il pensiero e lo sguardo. Al di là delle sonde che le invadono le narici, tutto ciò che rimane della sua “vecchia compagna” sono due occhi di pietra, “grandi, neri, che indagano il nulla”, due occhi insondabili attraverso i quali Julio viene guidato verso il grande apprendistato del congedo, imparando da se stesso a congedarsi dalla persona amata e, allo stesso tempo, imparando da lei, “dal suo sguardo così pieno, il congedo dal mondo”. Nello sguardo della nonna, si mescolano paura, solitudine, abbandono e nostalgia di un tempo molto lontano, nostalgia di Isaura, la madre, che l’aveva lasciata orfana all’età di sei anni, morta di febbre spagnola nel 1917, quando ne caddero vittima quasi tutte le donne incinte di Rio.

“Al confine tra la vita e la morte le decisioni di natura medica […] cedono il passo a difficili decisioni di ordine filosofico e morale, con l’effetto che la coscienza di colui che le prende viene lacerata da sentimenti confusi e contraddittori”. Molte domande invadono “la tragedia della vita quotidiana”, domande di ordine filosofico: “cosa significa esattamente essere vivi? Si tratta della manutenzione di un corpo esausto dalle funzioni vitali […] senza avere coscienza di tali funzioni e di tutto il resto, oppure essere vivi è piuttosto la coscienza in sé, lucida e partecipe del reale, anche quando questa realtà è il terrore nella sua forma più estrema? […] Si può chiedere a una mente di decidere se vuole o no continuare ad essere una mente nel senso più pieno? Non sarebbe questo un invito all’autodissoluzione dell’essere?”. La risposta a tutte queste domande è che comunque “la vita vale la pena, al di là di qualunque circostanza”. Alla fine di tutto, chi resta troverà il modo per digerire il dolore e la perdita, “nei limiti del possibile, e nella misura in cui lo spirito sia capace di cicatrizzare. Nella misura in cui il tempo, il nostro implacabile avversario di oggi, riesca a trasformarsi in un alleato più o meno degno di fiducia”.

L’intensa e lunga agonia della nonna, “l’amica di una vita intera”, avrà fine in un sabato di carnevale, proprio come era accaduto sei anni prima con la figlia, madre di Julio e Fernando. Il carnevale allora, per molti il simbolo del Brasile, diventa “il contrasto più assoluto del dolore”, entrando da ogni spiraglio e invadendo con il suo spirito festoso ogni rifugio, senza via d’uscita: “È difficile da sopportare. Ancor di più due volte di seguito. […] All’esterno il samba e l’euforia si appropriavano di tutto. C’erano poche infermiere quel giorno, gli uffici pubblici erano chiusi, fu impresa difficile contattare un agente funerario e i becchini erano in ferie. Il carnevale li aveva convocati tutti”.

L’ultima pelle è però anche il racconto di una convivenza, vissuta come naturale passaggio del testimone, quando la nonna, a settant’anni, deciderà di prendersi cura dei nipoti assumendo il ruolo di padrona di casa lasciato vacante dalla figlia. La convivenza, tuttavia, era iniziata in realtà molto tempo prima, in quello che viene definito dall’autore il suo “primo esilio”, nei due anni vissuti in compagnia dei nonni a Resende, in una contrada “tristissima” chiamata Alegria. Durante il giorno, Julio studiava allora in un collegio militare in cui gli insegnanti erano colonnelli e dove i ragazzi erano “sottoposti alla stessa disciplina delle Forze Armate e facevano ingresso in aula marciando in fila indiana”. Una volta al mese, la madre preparava un grosso pacco e glielo spediva con la corriera delle Linee Cometa. Dentro, c’erano i libri che lei, amante della lettura, scovava nelle librerie e tra le bancarelle di libri usati, come quelli delle Edições de Ouro – casa editrice popolare aveva pubblicato in edizione tascabile, a prezzi accessibili, le grandi opere della filosofia occidentale e del teatro classico: “Ogni mese dei due anni che trascorsi a Resende, il giorno più felice per me era quello in cui aspettavo l’arrivo dei miei libri in piedi alla stazione delle corriere, presso la banchina delle Linee Cometa, sul punto di prendermi un’insolazione, mentre leggevo l’ultimo numero di O Pasquim, un giornale di satira politica all’epoca molto diffuso. […] E l’Alegria si trasformò in un luogo magico in cui io convivevo con Shakespeare ed Eschilo, Kant e Spinoza, Sofocle e Nietsche, Platone e Marx, Schopenhauer […] e Aristotele, Hegel e Hume, Jung e Montesquieu, Epitteto, Rousseau, Freud e tanti altri. Un gran carnevale”. In quelle notti, appena la nonna prendeva sonno, Julio estraeva un libro e una lampada da sotto il cuscino e, riparando la testa sotto le coperte, viaggiava lontano “nel meraviglioso mondo delle idee, in cui il Dolore non era altro che un concetto metafisico”. Anni dopo, le stesse lampade a pile, indispensabili per sfuggire al controllo delle spie, avrebbero illuminato idee e spazi ben più cospirativi, nel corso delle riunioni che avvenivano nei sottoscala del Direttivo Centrale degli Studenti e che avevano come  obiettivo la dittatura del generale Médici.

La convivenza segna anche la scoperta dei poteri della nonna, così familiari ma allo stesso tempo fantastici, come la sua mano, rimedio infallibile contro il mal di testa, o il suo “intuito” fuori dal comune, che le permetteva di sapere quando le persone a cui era legata vivevano un momento difficile. Il suo misticismo, la sua intimità col destino, le sue premonizioni straordinarie erano già state fonte d’ispirazione per il personaggio di Jandíra, concepito per il romanzo O espaço imaginário: “un omaggio felicemente arrivato in tempo”.

La cicatrizzazione interiore della ferita lasciata dalla scomparsa della nonna corre attraverso una successione di alti e bassi: “Una delle forme in cui si manifestavano i bassi era una strana sensazione di scollamento dalla realtà. Camminavo per le strade, osservavo le persone, mi mettevo in fila, restavo imbottigliato nel traffico, e sembrava che niente di tutto ciò avesse a che fare con me. Non vivevo effettivamente quelle realtà. Solo il mio corpo era presente, nel mezzo di quella fantasmagoria variopinta e rumorosa”. Ma la morte – che lascia dietro di sé una sensazione di vedovanza – è accompagnata anche dalla necessità di ricostruire tutto a partire dalle macerie, “a partire dal nulla, a  partire da un punto che non ha partenza”. Malgrado spesso si fatichi a trovare un senso, o anche solo il desiderio, è necessario “agire per la forza della meccanica della sopravvivenza. […] avanzare nella realtà a tentoni. Avanzare alla cieca all’interno del banco di nebbia. Come una locomotiva che rompendo i freni non si alza in volo”. Il recupero avviene dunque gradualmente, in varie fasi, prima attraverso la ricerca di una nuova domestica, fatto che gli aprirà lo sguardo sulla terribile recessione che il paese stava attraversando e sulla conseguente disoccupazione. Successivamente, ci sarà l’incontro con Louise, fotografa francese arrivata a Rio de Janeiro per fotografare il lato “autentico” del Brasile, ricerca fondata, come spesso accade, su quelle idee prestabilite e difficili da scardinare che ruotano attorno alle favelas e ai terreiros del candomblé. Da questo incontro nasceranno una storia d’amore e una complicità molto specifica, fondate sull’impulso istintivo a ricostruirsi a partire dai propri cocci, dopo la sofferenza per la morte delle persone amate, ma anche sulla “curiosità permanente, la sete di conoscere tutto e la voglia di comprendere la logica di un mondo che con il suo peso aveva schiacciato le […] emozioni, e davanti al quale siamo sempre tanto vulnerabili”. Infine, sarà la volta del riavvicinamento con il padre, il quale se ne era andato di casa diversi anni prima. L’incontro, motivato da un “astratto concetto di paternità”, sarà purtroppo destinato a fallire, poiché a incontrarsi saranno due uomini “sintonizzati su due canali diversi”, “due uomini, estranei e un tantino costretti [che] cercavano di conversare intorno a fatti e persone che ormai non importavano più”.

Più che un libro sulle persone – scrive Julio Monteiro Martins – questo è un libro sul tempo. La filosofia e la scienza moderna hanno relativizzato, quasi demolito, l’antica idea di tempo, trasformandolo in pura finzione: “Ogni essere umano ricrea la finzione del tempo e riscrive i parametri attraverso i quali attribuisce senso alla sua vita. L’uomo non è solo l’unico animale che sa di dover morire, ma anche l’unico che costruisce il tempo nella sua coscienza attraverso una romanzesca trilogia: il passato, il presente e il futuro”. Il tempo di questo romanzo non è il tempo cronologico, ma è il tempo dell’inconscio, perché è attraverso di esso che si compie la lunga digestione della morte delle persone a noi care. Il tempo dell’inconscio segue regole proprie e digerisce gli eventi traumatici della realtà attraverso trasformazioni simboliche, che non eliminano i traumi dalla memoria, ma, alterando l’essenza simbolica dei loro significati, sopprimono il carattere doloroso del ricordo: “Sogno dopo sogno, catarsi dopo catarsi, il trauma viene diluito e comincia a scorrere nelle nostre vene. […] La morte totale di un altro, la morte fisica di qualcuno con cui condividiamo una profonda identità, è la nostra morte parziale. Un pezzo di quel che siamo se ne va con lui. Il resto viene trasformato e modella un nuovo essere, non so se più forte o più debole, ad ogni modo diverso”.

Per questo, L’ultima pelle, è anche il racconto di una nuova nascita, della costruzione di una nuova immagine di noi stessi, necessaria a inaugurare, come una nuova pelle o piumaggio, un ulteriore ciclo della nostra “provvisoria pienezza”:

 So anche che le persone, tutte le persone, costruiscono durante la loro vita almeno un grande personaggio: se stessi, la propria immagine di sé. A ciascun ciclo naturale dell’esistenza, questo personaggio perde sostanza, sbiadisce, si emargina, diventa incomprensibile e inverosimile. È ora di mutare pelle, di riscrivere interiormente il personaggio, distaccandosi dolorosamente dalla pelle ormai secca e morta che per tanto tempo lo ha rivestito. Rimane sul terreno una spoglia invisibile, un piumaggio etereo, percepibile forse appena nello scintillio degli occhi, nella rinnovata destrezza dei gesti. Così come nei rettili e negli uccelli, certi colpi inaspettati, certe ferite, certe angosce, possono anticipare la muta a un momento imprevisto. Il nostro canto tace, le nostre piume cadono, e noi tremiamo di freddo sul trespolo più remoto della voliera. Ma a un certo punto il ciclo si completa, inaspettatamente come era cominciato. Il personaggio è già un altro, integrato nel mondo che lo circonda e dal mondo sempre più celebrato. […] Quelle rimaste sul terreno, piume, pelle, identità, non sono spoglie o reminiscenze, sono parti perdute della materia che ci costituisce, fossili della nostra essenza, sono ego sottratti, che in un giorno qualsiasi del futuro ci osserveranno quando resteremo con un’unica piuma, con un’ultima pelle, con un ultimo canto monocorde, con il personaggio definitivo. Abbiamo bisogno di cominciare ad amarlo da molto presto, già prima della prima muta.

* Ada Milani  si è laureata in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi dal titolo “Imperialismo, cultura e liberazione nazionale: l’attualità del pensiero anticolonialista di Amílcar Cabral”. Attualmente è iscritta al secondo anno del Dottorato in Letterature Moderne e Comparate presso l’Università di Genova con un progetto di ricerca sulla narrativa africana di lingua portoghese fra anni Trenta e anni Settanta.

[1] Si è scelto di inserire le citazioni dei testi in italiano tenendo come riferimento le traduzioni di Mirella Abriani (Bárbara) e Antonello Piana (A última pele).
[2] Cfr. Luiz Fernando Emediato, Meu caso de amor com Caio Fernando Abreu, http://www.geracaobooks.com.br/literatura/cartas_caio/caso_caio.php.
[3] La definizione è di Emediato che dedica ai sei “paladinos do Oeste” il suo secondo libro di racconti, Os Lábios Úmidos de Marilyn Monroe.
[4] Rosanna Morace, Un mare così ampio. I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, LibertàEdizioni, 2011, p. 44.
[5] “Eu vou prá Maracangalha/Eu vou!/Eu vou de liforme branco/Eu vou!/Eu vou de chapeu de palha/Eu vou!/Eu vou convidar Anália/Eu vou!/Se Anália não quiser ir/Eu vou só!”.

L'autore

Ada Milani