Interventi

Scoprire l’accoglienza

Scoprire l’accoglienza[1]
Dai miti dell’economia alla cura della vita comune 

Premessa

 Nella riflessione che qui propongo vorrei entrare nella parola “accoglienza” per ascoltare gli insegnamenti che da essa vengono non solo, in generale, rispetto alla questione relativa a un modo davvero umano di vivere, ma anche riguardo alla specifica questione del ripensamento globale dell’economia. Non si vorrà negare, infatti, che già l’espressione “lavoro per la persona” condensi in sé una visione alternativa, e non solo parzialmente correttiva, del sistema vigente.

Ma perché una visione così ampia e inedita possa avere frutti concreti deve essere concettualizzata in categorie che diventino un riferimento logico e operativo nella quotidianità delle persone. La categoria dell’accoglienza è precisamente una di esse e figura a pieno titolo nel lessico di un’economia profondamente rinnovata.

In questa prospettiva bisogna avere il coraggio di riconoscere che, di conseguenza, non si evoca l’accoglienza per abbellire la logica e la prassi attuali, ma se ne ricerca il vero significato per sviluppare una cultura della trasformazione dell’economia. E’ questa l’ottica in cui mi muovo. 

  1. Una parola straniera

Ci sono parole nelle quali abitiamo e parole che restano sconosciute. Per esempio abitiamo parole come “crisi”, “competizione”, “lavoro” o spesso “disoccupazione”, “prestazione”, “sacrificio”, “riforme strutturali”. La parola “accoglienza” nel lessico dell’economia è rimasta una parola straniera, anzi nemmeno presa in considerazione. Eppure non è affatto marginale o particolare, è una parola che illumina una via nuova oltre la cosiddetta “crisi”, la quale rappresenta in realtà il fallimento e il capolinea di una civiltà che ha creduto sempre solo nel potere e nella lotta per conquistarlo, fino ad assolutizzare la forma di potere ritenuta massima, e cioè il potere del denaro.

I miti dell’economia classica della modernità hanno escluso questa parola perché gli uomini che hanno costruito la civiltà occidentale e poi il sistema economico moderno, di fronte all’alternativa se la vita sia un dono o un abbandono, hanno voluto credere a questa seconda tesi. Non avendo riconosciuto di essere accolti essi stessi, non hanno considerato l’accoglienza come necessaria per vivere insieme.

Quando parlo di “mito”, intendo un’immagine della realtà che è stata concepita e adottata nella sordità, ossia senza ascoltare né la vita né gli altri. I miti della nostra economia sono stati elaborati da soggetti che credevano nell’abbandono come condizione normale e intrascendibile dell’esistenza. E in fondo è proprio il vissuto del sentirsi abbandonati a motivare questa caduta nella sordità: se non mi percepisco in una relazione fondante con nessuno, chi e perché dovrei ascoltare ? Questo tipo di atteggiamento verso la vita si tramanda e tuttora ispira l’atteggiamento più diffuso.

In un simile terreno emotivo e culturale hanno potuto radicarsi facilmente i grandi miti collettivi che l’uomo economico globalizzato prende ancora oggi, nonostante sei lunghi anni di drammatico dissesto, come coordinate ovvie del reale. Il primo mito è quello che rispecchia la sua identità essenziale. E’ appunto il mito dell’uomo economico e della competizione. In proposito non si ascoltano le scienze umane, le quali indicano che l’essere umano vive di relazioni, di affetti, di apertura al bene e si degrada se si dedica al perenne esercizio del conflitto. Poi non si dà ascolto alla coscienza morale e all’orientamento etico implicato nella vita democratica.

Attingendo a queste fonti si capirebbe che ogni persona e la stessa relazione con gli altri costituiscono un valore incondizionato, come pure che la solidarietà di specie è una norma universale, per cui gli effetti del suo misconoscimento ricadono addosso a chi lo perpetra. Per ora si va avanti imperterriti nel normalizzare e  nel legittimare la diseguaglianza, che, per quanto sia divenuta sempre più forte, continua a essere considerata inevitabile e in fondo benefica con argomentazioni palesemente false e sfrontate del tipo: i ricchi sono necessari per aiutare i poveri, più sono ricchi – senza stare a sottilizzare su come lo diventano – e più potranno creare benessere per tutti.

C’è poi il mito della produzione concepita come un processo esclusivamente fondato su due forze, lavoro e capitale, senza considerare che in tal processo gioca un ruolo fondamentale la natura con le sue risorse. In una simile concezione manca l’ascolto delle scienze naturali, le quali insegnano a riconoscere i vincoli tipici del mondo naturale e le esigenze che essi pongono ineludibilmente all’attività economica e al consumo.

Al tempo stesso manca l’ascolto della vita, nel senso che in essa incontriamo valori radicali che però non vengono riconosciuti. Il valore delle persone e delle relazioni, il valore della natura, quello dello spazio e del tempo, il valore dell’armonia: tutti questi beni inestimabili sono ignorati o resi secondari al confronto con il valore monetario e finanziario. Di questa riduzione ci avverte già il lessico corrente, dove ogni valore è identificato in termini di “capitale” e di capacità di “capitalizzare”. A questo punto anche il lavoro viene espunto dalle forze generatrici di valore e rimane esclusivamente il capitale. Il nostro è oggi un modello di economia dove il lavoro è tendenzialmente divenuto superfluo, perché il valore si riproduce da solo nel gioco dei capitali.

Ai primi due miti, ora indicati, si aggiunge il mito della crescita e delle “riforme strutturali”, consistenti nei tagli del bilancio statale a carico di pensioni, sanità, scuola e ricerca, cultura, servizi a categorie svantaggiate, esigenze generali della vita democratica, nonché nel mantenimento di un regime fiscale privilegiato a favore delle rendite e della speculazione finanziaria, ignaro dell’elementare criterio di equità rappresentato dalla progressione proporzionale al reddito. In questo caso non si ascoltano minimamente le sofferenze delle persone, dei popoli e della natura. In una simile distretta a qualche economista, come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, è persino venuto in mente di coniare l’espressione di “austerità espansiva” per incoraggiare una politica economica orientata nel senso favorevole alla volontà dei Mercati finanziari. Tale fenomeno è l’indice di quanto la sragione si sia fatta strada tanto presso gli scribi dell’economia quanto nell’opinione pubblica attuale. Distinguere buonafede e malafede diviene davvero difficile.

Al culmine di questa globale alterazione dei significati e dei dati di realtà abbiamo infine il mito del mercato come istituzione assoluta, l’istituzione che ingloba in sé la società intera e le detta le condizioni di razionalità, di efficacia, di efficienza e addirittura di “democrazia”. Basterebbe ricordare che il Paese dove si realizzò l’esperimento-pilota di questa mercatizzazione della società, secondo la logica delle riforme strutturali, fu il Cile di Pinochet. In questo caso direi che non si ascolta la lezione della storia, nel senso che qualsiasi progetto di egemonia, ispirato al primato di una porzione della società e all’assolutizzazione di una particolare logica, è non solo foriero di oppressioni e iniquità, ma è anche invariabilmente destinato a fallire.

  1. La logica del dono

 Riaprire i giochi è possibile. Il primo passo è dissentire dalla mentalità dominante, riconoscendo le sue menzogne – ormai i cosiddetti “miti” possono essere apertamente chiamati con questo termine – e guardando alla società umana in una prospettiva profondamente nuova. Tale possibilità di rinnovamento culturale, prima ancora che economico e politico, è custodita a mio avviso nella realtà delle relazioni di dono e nella logica che le guida. E’ in questa logica che incontriamo l’accoglienza. Perciò, per chiarirne il senso e le implicazioni, è indispensabile prendere in considerazione la costellazione di significati legata al “dono” inteso non come “sacrificio” né come “regalo”, ma come nucleo dinamico di relazioni intersoggettive nelle quali gratuità, condivisione e reciprocità sono elementi costitutivi.

Riassumo questo tipo di riferimento richiamando brevemente i tratti essenziali del dono considerato secondo la pienezza dei suoi significati. Dove esso ha luogo, lì ricorrono le caratteristiche seguenti.

Anzitutto abbiamo l’apertura emotiva e affettiva all’altro, per cui, prima ancora di dargli qualcosa, io lo sento, esco dal mio universo mentale e guardo la realtà da dove e come la guarda l’altro. Ciò mi consente di vederlo veramente, di sentirne i vissuti, di riconoscerlo come persona unica, originale, infinitamente preziosa. Dare senza vedere né ascoltare sarebbe come misconoscere e persino offendere chi incontro.

Una simile apertura schiude lo spazio della prossimità, della non indifferenza, del coinvolgimento positivo nella vita di altri. Senza lo schiudersi di tale spazio relazionale, simbolico, affettivo, intenzionale il dono non esisterebbe. E’ una prossimità interpersonale: ognuno degli individui coinvolti viene riconosciuto come persona al di là dei ruoli che ha e delle funzioni che svolge.

C’è poi bisogno del fatto che la relazione di dono sia ispirata da un’intenzionalità di bene, che porta a condividere qualcosa di positivo e vede nel condividere stesso qualcosa di buono. Ciò è possibile sulla base di un radicamento nel bene stesso, considerato e vissuto come una fonte che ci precede e ci sostiene. Ricevere e donare sono possibili sempre come partecipazione a un bene più grande e antecedente. La relazione di dono non è mai soltanto a due, ma almeno a tre: i due soggetti che condividono e il bene cui attingono.

Chi partecipa a relazioni così conformate fa esperienza della libertà come gratuità. Quest’ultima non è solo uno spirito di liberalità o di generosità, ma è libertà radicale. Essa rappresenta infatti la libertà della persona umana di raccogliersi e di fare di se stessa un dono vivente per altri. E’ il culmine del cammino di umanizzazione, che consente agli individui di diventare pienamente persone.

Nelle relazioni di dono è quindi implicata una natura simbolica. In essa opera la forza rivelativa di un senso che viene manifestato indirettamente negli atti e in ciò che si condivide, nei modi del dare e del ricevere. Ogni dono è un messaggio che esprime, anzitutto, il “valore di legame”, ossia l’importanza della relazione interpersonale e, dal punto di vista del donatore, dice quanto vale per lui o per lei la persona del donatario. C’è dunque una condivisione di valore, che si realizza nel riconoscimento dell’altro, del donatario, come valore vivente, ma anche di ognuno con questo stesso rango. Poi sono qui riconosciuti il valore della “cosa” donata e il valore della relazione in quanto tale.

Non si condivide solo ciò che si ha o che si sa, ma sempre anche, seppure in minima parte, ciò che si è. Pertanto in relazioni del genere si attua la condivisione di quello che si è; gli eventi e gli apprendimenti che vi hanno luogo sono d’altro canto interiorizzati e vanno ad arricchire l’universo intrapersonale di ciascuno.

In questo tipo di relazioni è anche richiesta una fedeltà: chi dona, chi si lega ad altri, chi sceglie di condividere qualcosa di buono, non può farlo in via provvisoria, per revocare in un altro momento questa scelta. In linea di principio vale qui la temporalità del per-sempre, di una scelta positiva irreversibile. Infatti nella comunione espressa nella relazione di dono accade una sorta di esperienza dell’infinito etico e affettivo, incarnato da ognuno e dal bene che lega le persone.

Per tutte queste caratteristiche, questa forma di relazionalità possiede una sua generatività. Sorgono da essa nuova realtà e legami inediti; può persino, come nel caso specifico del perdono, resuscitare relazioni interrotte o finite.

L’accoglienza è evidentemente inclusa nella costellazione del dono perché per un verso l’altro viene riconosciuto, accettato, ospitato, mentre, per altro verso, si apre uno spazio di ospitalità reciproca, cosicché nessuno è solo accogliente e nessuno è solo accolto. Per comprendere tale dinamismo occorre precisare il senso della reciprocità. Quella “cattiva” in realtà è una reciprocità mancata, una simmetria speculare di comportamenti negativi. Il nucleo più proprio della reciprocità rimane la buona reciprocità. Essa è irriducibilmente diversa dalla simmetria, dove vige l’obbligo di eguaglianza speculare tra i partners, dalla simultaneità di due o più soggetti che fanno l’uno verso l’altro la medesima cosa nello stesso tempo, dalla complementarità, per cui ciascuno svolge una parte in una sorta di divisione dei compiti, dallo scambio commerciale, nel quale ogni soggetto cerca un vantaggio sull’altro (lo sconto se compra, il profitto se vende).

La buona reciprocità ha luogo soltanto nella tendenziale pienezza della relazione, dove ogni soggetto è presenza viva e preziosa per l’altro e condivide liberamente, in modi e misure imprevedibili, ciò che è, ciò che sente, ciò che sa, ciò che ha. La pienezza di questo tipo di relazione consiste nel fatto che si attua come libera condivisione d’essere tra persone e va al di là delle logiche, sempre riduttive, della simmetria, della simultaneità, della complementarità e dello scambio commerciale, tutte figure per le quali ciascuno svolge una funzione o un ruolo senza essere riconosciuto nella sua interezza di persona.

Che proprio lo scambio commerciale sia stato preso a modello della reciprocità indica quanto grande sia l’equivoco che poi porta a sostenere che non esiste il dono o non esiste la gratuità del dono. Le figure o le posizioni della simmetria, della simultaneità, della complementarità e dello scambio commerciale vogliono rendere calcolabile l’incalcolabile o anche, si potrebbe dire, congelare la trascendenza di ogni persona. L’identificazione tra reciprocità e scambio spezza il legame tra gratuità e reciprocità – impossibile la prima, ubiqua l’altra -, ignora l’incontro tra esseri che sono trascendenza, vede solo lo scambio mercantile facendo dileguare il dono dalla realtà sociale.

Se si segue questa concezione, si sottrae alla reciprocità la radice vitale della gratuità, mentre questa è travisata come se fosse un agire o un dare assurdo, per niente. Si supera questa distorsione interpretativa non appena si smette di intendere la reciprocità esclusivamente come scambio. Nell’idea di scambio tutto è polarizzato sull’oggetto del dare e del ricevere, e i soggetti restano impensati, neutri, come se non potessero trasformarsi in se stessi e coinvolgersi nella relazione per quello che sono, non solo per ciò che danno o ricevono. Ma in ogni relazione di buona reciprocità, sia pure in misura variabile, ciascuno viene modificato, arricchito dall’incontro con l’altro e dalla condivisione.

Se possiamo pensare all’essere umano come a una nascita permanente e se questo divenire se stessi fino in fondo può eventualmente accadere grazie all’incontro e alla libera condivisione positiva con gli altri, allora la reciprocità essenziale non consiste tanto nello scambio di oggetti, quanto nella tessitura di relazioni e identità arricchite. La tessitura è un generarsi insieme, un’interazione maieutica vicendevole. Tenendo conto di queste osservazioni, si può ritenere che l’accoglienza sia non tanto l’azione di qualcuno verso qualcun altro, quanto la qualità stessa della buona relazione interpersonale. Una famiglia o un’impresa, una nazione o la società stessa, private della qualità dell’accoglienza, si disumanizzano e divengono fonte di sofferenza per chi si trova a vivere entro questi luoghi inospitali.

  1. La via dell’accoglienza

Mentre la logica dell’accumulazione, della competizione e della crescita quantitativa o monetaria ci confonde, sviandoci fino a farci adottare una concezione sbagliata della realtà intera, oltre che dell’economia e della società, la via dell’accoglienza ci restituisce anzitutto la cognizione del valore. Si tratta di avere memoria di chi e di che cosa valgano davvero nella vita. Infatti l’accoglienza è risposta al valore: si accoglie qualcuno che è prezioso. Accogliere significa onorare il valore di una relazione. Il che presuppone, allora, una cognizione lucida della realtà del valore in quanto tale.

Ma nella visuale instaurata dal capitalismo come cultura globale il riferimento al valore risulta chiaramente deformato. Fintantoché restiamo in tale ottica conosciamo solo il valore d’uso (qualcosa vale perché mi serve a un certo scopo), il valore di scambio (che è il valore monetario, “incarnato” dal denaro stesso), il valore aggiunto (che riguarda il margine ulteriore di valore monetario che otteniamo introducendo nella produzione o in una transazione qualche elemento di pregio particolare agli occhi del mercato) e, naturalmente, il capitale (che è il valore del valore, la misura assoluta, il soggetto stesso dell’economia). Giungere al valore, appropriandosene e custodendolo per sé, significa capitalizzare.

In un’ottica del genere non vengono neppure presi in considerazione i valori viventi, i valori di legame, i valori morali e i valori reciproci. I primi sono incarnati dalle persone, dalle creature del mondo, dalla natura stessa e, per i credenti, da Dio. I secondi coincidono con il valore e il significato delle relazioni essenziali della vita: con gli altri, con se stessi, con la natura, con Dio (o con la verità, il bene, il senso). I valori morali, dal canto loro, hanno significato indicativo e normativo in rapporto alle due classi di valore ora indicate.

Parlo inoltre di “valori reciproci” per indicare come ogni valore effettivo (i valori viventi e di legame) non sia mai isolabile, assolutizzabile, a sé stante. Isolare un valore significa tramutarlo in un idolo irreale e oppressivo. Ogni valore reale, invece, rimanda agli altri della stessa profondità. Il valore di Dio rimanda a quello del creato, il valore di una persona rimanda a quello delle altre e della comunità umana, il valore del bene rimanda all’umanità e all’armonia del mondo. E’ come dire che ogni autentico valore non è per se stesso, ma si volge verso altri valori, tende a un mondo di valori interconnessi. Al contrario, la nostra è la società dell’alienazione del valore perché non solo mette al primo posto il denaro, ma nel contempo lo pone come valore a sé stante, lo isola in una supremazia surreale.

L’accoglienza è la dinamica per cui ci si prende cura dei valori reali attraverso l’ospitalità, l’accettazione, l’amicizia, la solidarietà. In essa dimora una grande saggezza, quella che porta a vedere come esistere sia abitare il mondo, dunque coabitarlo senza distruggerlo e senza distruggerci. La via dell’accoglienza implica un uso diverso dello spazio, certo, ma anzitutto un modo diverso di essere. Penso al modo d’essere di chi non prevarica, non si mette al centro lasciando gli altri ai margini, non si dispiace della presenza di interlocutori e di compagni, non considera il fatto di condividere come se fosse una perdita.

Tutto ciò non ha nulla del sentimentalismo. L’accoglienza ha una logica, che è poi la logica della vita. La riceviamo e, per riceverla compiutamente, dobbiamo – ma con libertà – ricomunicare creativamente e originalmente quanto abbiamo ricevuto. In questo senso andrebbe riletta la constatazione di Marcel Mauss secondo cui bisogna donare “liberamente e per obbligo”: per obbligo, nel senso che sottrarsi alle correnti della condivisione equivarrebbe a chiudersi in una capsula di isolamento insostenibile, in una postura asociale; liberamente, nel senso che la partecipazione alla condivisione non può essere coattiva, anzi deve esprimere l’unicità e l’originalità della persona.

L’accoglienza ha una sua logica: essa costituisce la risposta più congruente all’incontro con i valori viventi. María Zambrano ha osservato, con il suo tipico e sorprendente acume, che il dono è la riposta a una domanda non formulata: tale indicazione evidenzia che esso esprime la cura per qualcuno di cui sentiamo il valore, i bisogni, le aspirazioni, senza bisogno che l’altro chieda. Donare è anzitutto sentire, prima che dare e ricevere. Per questa ragione il paradigma dell’accoglienza è estraneo

al modello dello scambio ed esige piuttosto il pieno dispiegamento della disposizione della cura. Soprattutto dev’essere chiaro che quella di cui sto parlando non è una logica di assistenza, di pietà, di particolare benevolenza: è la logica di un’esistenza propriamente umana e degna.

Esistono dei luoghi specifici nei quali è decisiva l’adozione della logica dell’accoglienza ? Credo che questi “luoghi” debbano essere individuati in quelle che sono le relazioni salienti della condizione umana. Si tratta delle forme di relazione che sono come la trama e l’ordito della nostra socialità. Esse ruotano attorno a una differenza rilevante. Mi sto riferendo alla differenza tra i generi, alla differenza tra le generazioni, alla differenza tra le culture e – su un altro piano, visto che si tratta in questo caso dell’unica forma di differenza intrinsecamente negativa e inaccettabile –  alla differenza tra i tutelati e i senza tutela.

Ognuna di queste differenze tende facilmente a diventare motivo di discriminazione e di oppressione. Al contrario, se esse sono assunte nell’ottica dell’accoglienza, diventano occasione di intensificazione dell’esistenza e di umanizzazione. La relazione tra donna e uomo è un fattore insostituibile di arricchimento umano, di alfabetizzazione affettiva, di sviluppo dell’armonia e di generatività. E’ anzitutto grazie a questa relazione che gli esseri umani sperimentano la creatività, la cura, il senso della differenza positiva, la pluralità dei modi di stare al mondo, la forza stessa dell’amore. L’amore in particolare rimane l’elemento vitale, l’energia e la modalità fondamentale che ci restituisce a noi stessi e custodisce l’essenza dell’umano, molto più di altre facoltà più celebrate tradizionalmente in Occidente, quali quelle della ragione, del linguaggio, della socialità e del confronto consapevole con la morte.

La relazione tra le generazioni, legate direttamente alla generatività della relazione tra i generi, è a sua volta fonte di sviluppo dell’umanità di ognuno, implica la continuità nella cura della vita e il dialogo tra persone che si trovano nelle diverse stagioni dell’esistenza. Da parte sua la relazione tra le culture, come pure quella tra nativi e stranieri, consente di affinare il senso dell’ospitalità e di giungere alla scoperta di una pluralità di interpretazioni della stessa condizione umana che ampliano la nostra libertà.

Resta ancora da considerare la differenza tra i tutelati e i senza tutela, tra coloro che hanno poteri, possessi e garanzie e coloro che sono poveri, nei molteplici significati del termine. Questa differenza non ha risvolti positivi, esprime una situazione illegittima di squilibrio che va rimossa. Proprio l’atteggiamento verso tale differenza indica la qualità umana, etica e civile di una relazione. Se ci si muove secondo la logica dell’accoglienza, che a questo punto non è un gesto di liberalità ma un impegno di giustizia verso la comune e indissolubile dignità umana, la differenza negativa, motivo di discriminazione, dev’essere eliminata. Con lo stesso criterio dovremo operare anche nelle altre forme di relazione: tutto ciò che può insinuare la discriminazione e la divisione va rifiutato.

Un impegno simile è oggi quanto mai urgente. Basta pensare alle categorie e alle storie di tutti coloro che restano fuori dal banchetto dell’economia costituita. Chi sono costoro ?  Sono gran parte dell’umanità: i precarizzati, gli esuberi, i poveri, fino a comprendere intere popolazioni in molti continenti; le nuove generazioni; le donne, in larga parte; i vecchi, trattati come un peso e non come un tesoro di esperienza e di memoria.

La risposta giusta, congruente e necessaria di fronte a questa situazione non è il solo volontariato, è l’adozione della giustizia come metodo della politica. Perché l’economia stessa – in  quanto economia della gestione delle differenze e non solo genericamente della vita materiale – è politicamente costruita. E l’agire politico non è mai neutrale, di mera amministrazione, di convergenza tecnica tramite “larghe intese”. Queste espressioni nascondono una particolare politica, fatta valere a difesa dell’assetto dominante e non per eliminare l’iniquità. L’agire politico ha due sole possibilità: o continuare a essere l’esercizio della guerra con altri mezzi e della prevaricazione, o scegliere di svilupparsi come attuazione della giustizia che si deve alla dignità umana, ai diritti di tutti, attraverso la realizzazione dei doveri corrispondenti.

In sintesi, non c’è accoglienza senza giustizia. E, poiché la logica del dono, dell’accoglienza, della giustizia secondo la dignità e il bene comune racchiude in sé la più pura lucidità della coscienza umana, si può anche dire che non c’è accoglienza senza intelligenza. Si può credere che ci sia intelligenza e talento nel trovare vie preferenziali, innovative, più efficaci dentro questo sistema. E’ l’opzione abitualmente chiamata “innovazione” nel lessico aziendale e delle organizzazioni complesse. Ma l’innovazione, in effetti, è vecchia e sterile, nel senso che serve a perpetuare, in forme rinnovate e razionalizzate, un sistema ingiusto, non naturale e non necessario. La vera intelligenza non sta nell’adattarsi a questo sistema, sta nel cambiarlo.

  1. Dall’innovazione alla trasformazione

 Per passare dall’iperadattamento al sistema vigente, il quale non ammette alcuno spazio per l’accoglienza, alla sua trasformazione è senz’altro necessaria una conversione del cuore e dell’anima delle persone. Poiché ognuno di noi è al bivio tra il sentirsi nell’abbandono o, invece, il riconoscere che la vita è un dono, per quanto misteriosa ne sia l’origine, l’impegno creativo che ha efficacia trasformatrice potrà essere sprigionato solo da chi entra nel secondo orizzonte di senso.

Chi di fatto si muove nel desolante clima emotivo dell’abbandono tende a costruire un sapere e un modo d’agire – economia compresa – che puntano al potere inteso come dominio e alla libertà come esercizio d’arbitrio, come libertà dall’altro, che è poi il contrario dell’accoglienza. Chi si riconosce nella dinamica del dono si rende invece disponibile ad ascoltare, a incontrare, a cooperare, relativizzando i momenti e gli atteggiamenti del conflitto. Quest’ultima prospettiva comporta per l’economia anzitutto una svolta epistemologica. La conoscenza economica nasce allora dall’ascolto delle scienze umane, delle scienze naturali, della sapienza e della sofferenza dei popoli. Un’economia di questo tipo, così scientifica da essere divenuta sapiente, ascolta le persone e vede la vita della natura. Essa sarebbe non solo capace di maturare un orientamento etico, ma anche radicata in un’etica che nasce dall’ascolto. E così, ascoltando, imparerebbe a vedere: un’economia simile infatti vedrebbe le persone, il bene comune, le relazioni, le vie della cooperazione, le soluzioni operative. Vedrebbe che crescere è crescere in umanità, crescere è far crescere l’armonia nella vita comune dell’umanità e del mondo. Si illuminerebbe finalmente l’autentica natura dell’economia in quanto arte della liberazione: dalla miseria, dalla paura, dalla precarietà, dall’ingiustizia.

A seguire la logica primitiva dell’egoismo sono buoni tutti; ma creare giustizia e benessere condiviso è l’arte di chi vive poeticamente, di chi porta nel mondo la luce dell’intelligenza e della coscienza umana. Questo non conduce propriamente e direttamente a quella che talvolta viene chiamata un’ “economia del dono”. A mio avviso non c’è un’economia del dono e non ha senso cercare una coincidenza tra le due logiche, o la sostituzione dell’una all’altra. Tra i due termini può esistere una tensione, intesa nei termini di una nuova traduzione e di una compatibilità reciproca.

La grande inversione di tendenza sta nella traduzione della logica del dono e delle sue indicazioni di valore, prima tra tutti quella della dignità umana, nei processi economici e nella peculiarità delle loro implicazioni organizzative e funzionali. La compatibilità reciproca è quella per cui, da un lato, tale traduzione diviene davvero rilevante, non episodica o marginale, e, dall’altro, l’economia può realmente avere la sua funzionalità e dare risposta a bisogni e aspirazioni, senza cadere nelle rovinose disfunzioni tipiche dell’esperienza storica del socialismo reale.

Lo scarto di fondo tra logica del dono e sfera economica sta nel fatto che la prima riguarda il riconoscimento e l’esperienza di valori incalcolabili, quali le persone e il loro bene, il bene comune, i sentimenti, gli affetti, le relazioni, i beni spirituali, morali, artistici, mentre la seconda ha sempre a che fare con valori, beni, interessi e prestazioni calcolabili. Per cogliere la differenza basta chiedersi: quanto vale una sinfonia di Mozart o un quadro di Rembrandt, una meditazione di Gandhi o, per esempio, la libertà di un bambino dalle pretese degli adulti ? La credenza secondo cui per tutto c’è un prezzo è profondamente falsa.

Le dinamiche di autentica condivisione impediscono che l’elemento mediatore – la donazione o la cosa donata – si assolutizzi. Il dono, la donazione e lo spirito di gratuità non sono mai per se stessi, sono strutturalmente, fisiologicamente, per altri. Sono per le persone, per il loro incontro, per il loro bene, per il loro futuro.

La logica del dono implica l’intenzionalità del servizio. Guarda all’altro da sé, ai valori viventi, al “tu”, alla qualità delle relazioni e della convivenza. Ogni altro elemento mediatore – che sia il sacro, la razionalità devota alla logica formale e al calcolo, l’ideologia, il potere o appunto il denaro – finisce per intronizzarsi quale soggetto della storia e subordinare a sé i soggetti umani e la natura. La dinamica del dono schiude uno spazio di comunione dove emerge la dignità in quanto legame interumano originario e indissolubile.

Non si tratta di esortare l’economia a cambiare logica attraverso proteste verbali e ammonimenti. Sarebbe vano. Perché l’economia ha orecchi ma non sente, ha occhi ma non vede. Si tratta di utilizzare tre leve.

Anzitutto evidenzio la possibilità antropologica per cui, grazie al persistere di mondi vitali dove gratuità e condivisione sono alimentate, ci sono le condizioni per il formarsi di persone il cui modo d’essere rimanga irriducibile allo status spettrale dell’homo oeconomicus. Persone capaci di opporre resistenza alle tendenze che puntano a trasformare la società in un mercato onnicomprensivo. Più le persone possono crescere mantenendo la loro complessità, la loro libertà e anche la loro capacità di ricevere, di dare e di darsi attraverso dinamiche di buona reciprocità e maggiormente i rapporti socio-economici possono mantenere una qualità di tessitura più elevata di quella dell’intreccio di individualismo e massificazione.

Le esperienze e le relazioni di dono aprono e dilatano gli spazi dell’esistenza comunitaria, la sola che riesca a fornire un antidoto a questo intreccio perverso. La diffusione e il rafforzamento di motivazioni per cui le persone possano agire come soggetti economici anche secondo criteri diversi dalla mera ricerca dell’utile privato boicottano la macchina del capitalismo puro, ne indeboliscono la forza culturale, danno efficacia al riconoscimento del valore di persone, comunità, relazioni e beni immateriali superando la loro riduzione a valore d’uso o, soprattutto, a valore di scambio.

Inoltre, a dispetto delle scontate dicotomie tra giustizia e amore, tra reciprocità e gratuità, è opportuno arrivare a comprendere che proprio la logica del dono riesce a illuminare il valore del diritto in quanto diritto umano conferendo a esso il respiro del riferimento all’incondizionato. Infatti il dono indica e fa sperimentare il valore incalcolabile e incondizionato della persona e della relazione interpersonale. In tal modo emerge e matura la coscienza della realtà della dignità in quanto inviolabile e superiore a qualsiasi criterio organizzativo o funzionale o a qualunque impulso di autoaffermazione da parte di qualcuno a scapito degli altri.

Un livello cruciale della mediazione tra la logica del dono e l’economia è di ordine giuridico fondamentale, si potrebbe anche dire di ordine giuridico-costituzionale. Nelle dinamiche delle relazioni di dono, nelle quali vale l’unicità libera di ognuno dei soggetti coinvolti, si riconosce la dignità umana come propria di ognuno e anche come data nel legame interumano, ossia come comunità i cui confini coincidono con l’umanità intera. L’esperienza del dono dà sostanza antropologica, psicologica e affettiva all’imperativo etico di “trattare l’umanità, sai nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

La logica del dono apre alla giustizia come orizzonte di tendenziale adeguamento da parte di ogni sfera della vita sociale, compresa la sfera economica. La giustizia può darsi senza tradirsi o pervertirsi solo se vive in un movimento di radicalizzazione, di inveramento, di attuazione massima. Qualsiasi riduzione della giustizia diventa un’ingiustizia. La giustizia è l’apertura massima nella condivisione e nel riconoscimento interumano. Perciò la giustizia distributiva, quella retributiva e persino quella penale non possono, come attestano dal XX secolo le costituzioni democratiche del secondo dopoguerra, disattendere il riferimento alla giustizia restitutiva, quella che valuta e opera comunque secondo la dignità incondizionata delle persone, non solo secondo il merito e la colpa. Una simile giustizia calcola il dovuto, ma per farlo deve andare al di là di ogni calcolo, deve divenire in un certo senso giustizia dell’amore, quella riassumibile, per dirla con María Zambrano, come la capacità di trattare tutti, chiunque, meglio di quanto si meritano.

Da ultimo sottolineo la ragione politica della rilevanza sociale ed economica della logica del dono. Se le istituzioni civili e l’agire politico possono svilupparsi entro l’orizzonte culturale  della logica del dono e ricevere energia da un consenso qualitativo, critico, allora essi possono svolgere la loro funzione di mediazione della vita sociale mettendo un limite al mercato e stabilendo un controllo democratico sugli effettivi o presunti automatismi dell’economia.

La mediazione politica, spesso saturata e snaturata dalla ricerca del potere per il potere, oggi surdeterminata dall’economia, può così riprendere respiro e orientamento. Ciò significa che diventa capace di svolgere un’autentica funzione di mediazione tra istanze, bisogni, interessi, progetti, forze, culture restando uno strumento al servizio dei cittadini e del bene comune. La ragione di questo benefico effetto sulla politica sta nel fatto che esiste una sola forza, nella natura e nella cultura (ma più propriamente direi: nella nostra singolare condizione creaturale), che, essendo mediatrice, resta effettivamente mediatrice senza assolutizzarsi e pretendere, con un movimento di usurpazione, di diventare invece fine e soggetto della storia. Questa forza non è il sapere, non è il potere, non è la burocrazia, non è di sicuro il denaro. Questa forza è l’amore. Purché sia un amore generoso, fedele, nonviolento.

Ma questo tipo di amore, nel migliore dei casi, ha luogo tra due persone, o comunque in piccoli nuclei. Come può esistere, non dico un amore politico, che è sempre esistito con esiti ambigui e spesso violenti, come nel nazionalismo e nel fanatismo ideologico, ma un amore politico nonviolento ? A me sembra che proprio la logica del dono, nelle sue stratificazioni specifiche di ordine antropologico, spirituale, culturale, etico, giuridico e politico, possa tradurre l’amore politico nonviolento e aprire a esso vie concrete di esperienza storica collettiva. Una politica asservita non solo non può cambiare l’economia, ma perde già la sua autonomia mediatrice. Invece una politica di servizio, ispirata dalla svolta culturale della logica del dono, darebbe futuro a ciò che chiamiamo democrazia e sarebbe uno strumento indispensabile per riorientare il sistema economico nella direzione di un’economia di servizio. Questo è l’orizzonte non dell’innovazione, delle “riforme” o della “rivoluzione”, ma della trasformazione dell’economia attuale.

Conclusione

Perché si abbia uno svolgimento reale della logica dell’accoglienza e della sua forza trasformatrice occorre da parte nostra un recupero di soggettività, finora ceduta agli automatismi del mercato-guerra e ai computers, quando non direttamente all’avidità delle oligarchie mondiali. Le grandi direzioni della trasformazione sono a mio parere riconoscibili in questi diversi tipi di orizzonte:

  1. l’orizzonte universale: un quadro giuridico internazionale che scelga la democrazia e proceda alla riforma del mercato, una nuova Bretton Woods,
  2. l’orizzonte continentale: un’Europa che ritrovi la fedeltà alla democrazia e al modello sociale europeo;
  3. l’orizzonte nazionale: un progetto politico secondo equità, crescita della giustizia e rigore democratico (non liberista) nella gestione del bilancio statale;
  4. l’orizzonte quotidiano, prossimo: l’azione corale di famiglie, imprese, scuole, università, sindacati, associazioni, movimenti, fondazioni come “Lavoro per la Persona”: tutti soggetti che possono introdurre e tradurre la logica dell’accoglienza nella prassi quotidiana. Man mano che fanno questo tali soggettività si incontrano, generano una cultura diversa, pongono i semi di una politica nuova, oggi inimmaginabile.

Se ognuno dei soggetti citati si mette nella logica dell’accoglienza, può trovare vie di efficacia sconosciute a chi resta nel vecchio modello della competizione liberista. L’intelligenza del progetto Lavoro per la persona sta nella capacità di vedere. Vedere nell’economia l’arte della liberazione e costruire strade per attuare questa intuizione avuta ascoltando noi stessi, gli altri, la realtà. C’è qui la consapevolezza del fatto che i piccoli cambiamenti sono l’elemento propulsivo e generativo del grande cambiamento epocale. Quanto ho detto può essere recepito in due modi: chi è spinto ad adattarsi e magari ha trovato forme gratificanti di collaborazione con questo sistema giudicherà questa riflessione fuori dalla realtà. La parola “accoglienza” sarà per lui una specie di slogan pubblicitario. Ma chi è almeno rimasto curioso, chi ha il desiderio di una vita vera e vuole contribuire a un’economia non dell’abbrutimento globale ma della dignità, pensando al nesso tra economia e accoglienza, potrà riconoscere la saggezza che c’è in questo invito di Dietrich Bonhoeffer, scritto poco prima di essere giustiziato: “lasciati alle spalle la paura e guarda il nuovo inizio che ti è dato”.

L’economia assoluta del capitalismo globale è un’economia a tutti i costi, che implica immensi danni umani, etici, sociali, naturali. La sua presa nella coscienza collettiva poggia sull’antica, duplice superstizione per cui si è portati a credere che ci siano automatismi salvifici e che i mezzi distruttivi siano i più creativi. Ancora una volta, in radice, c’è una malattia spirituale, una malattia mortale, come diceva Kierkegaard: credere che la morte sia il fine della vita e che dunque un meccanismo mortificante possa garantire, almeno ad alcuni, privilegi e sopravvivenza, almeno per un po’. Quando prendono per vero un incubo, gli uomini lo realizzano. Occorre svegliarsi imparando a sperare, orientandosi all’unità della speranza umana, che è speranza di liberazione dal male, dalla sofferenza che esso produce, dalla morte. Se non spera, l’essere umano non vede. La logica del dono, dell’accoglienza e della giustizia secondo la dignità ci restituisce una visione vera delle cose, una visione nuova e antichissima che potrebbe indicare le vie per realizzare le conseguenze economiche e politiche della speranza.

[1] Questo saggio è apparso nel volume di AA.VV., Territori, città, imprese: smart o accoglienti?, a cura di G. Gabrielli e A. Granelli, Milano, Franco Angeli, 2014, pp.17-33.

 

L'autore

Roberto Mancini

Roberto Mancini (Macerata 1958), docente di filosofia teoretica all’Università di Macerata, è autore di numerosi saggi su tematiche fondamentali dell’esistenza umana quali l’ascolto, la pace, il bene e la libertà. Tra le sue ultime opere segnaliamo: “La scelta di accogliere” (ed. Qiqajon 2016), “La rivolta delle risorse umane. Appunti di viaggio verso un’altra società” (ed. Pazzini 2016), “Il senso della misericordia” (ed. Romena 2016). “Orizzonti comuni. L’invenzione collettiva del paesaggio” (ed. Aska 2016). Sito: http://www.manciniroberto.it/