Interventi

Il tema della cittadinanza

Per affrontare il tema della cittadinanza abbiamo pensato di condividere direttamente le voci delle donne straniere che ogni anno scrivono al Concorso letterario nazionale Lingua Madre. Quello che vi proponiamo è un dialogo corale, che parla di desideri, di relazione, di ascolto ma soprattutto di speranza, felicità e amore. Sono parole, queste, che le persone hanno ormai quasi paura di pronunciare, ma avremmo tutti e tutte più bisogno di far circolare amore, fiducia, felicità al posto di regole e tutele che privano invece di arricchire.
Le donne continuano a rivelarsi “l’anello forte” delle diverse culture e tra mondi lontani, esse hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale come soggetti capaci di cogliere gli elementi dinamici di altri mondi culturali e il loro forte potenziale espressivo. Nel Dossier Immigrazione (Caritas/Migrantes) sono le donne ad emergere come il motore della trasformazione: “Se nulla ha cambiato la società italiana degli ultimi trenta anni come la realtà dell’immigrazione, nulla sta cambiando l’immigrazione come la presenza femminile al suo interno”, vi si legge. Le donne innescano quelle che Cristina Borderias chiama “strategie di libertà” intraprendendo così quei percorsi che portano al cambiamento.
La Ministra Cécile Kyenge quando è intervenuta alla premiazione del Concorso Lingua Madre, lo scorso maggio al Salone del Libro di Torino, ha detto che vorrebbe che al nome del suo ministero si togliesse la “g”: Ministero dell’Interazione invece che dell’Integrazione. E ha aggiunto “. Le donne sono protagoniste di questo nuovo percorso, bisogna sostenerle, dare loro strumenti e opportunità, per uscire dall’isolamento per sentirsi soggetti del cambiamento e della vita per creare una società basata sui diritti umani, sulle persone, sui cittadini (senza nessun aggettivo) dove ognuno si senta parte del tutto. Le differenze, la nostra identità multipla, il mescolarsi con altre culture non devono farci paura ma arricchirci. Ognuno di noi (anche la sottoscritta) vive al suo interno un incontro e uno scontro di culture e solo parlando e confrontandosi, avendo l’opportunità, lo spazio di vivere tutto questo si arriva a trovare un equilibrio, che consente di parlare senza urlare e di trasmettere il nostro messaggio”.
Perché ancora nel mondo il legame fra etnia e territorio porta all’esclusione e non all’inclusione? Forse perché il potere segue modalità, nell’affrontare la vita e viverne gli eventi, che non sono quelle delle donne.
Le donne sono predisposte alla maternità, ad accogliere l’altro da sé, ad averne cura e a far sì che sviluppi la propria autonomia. Così come hanno – quale modalità propria di stare al mondo – la relazione prima della norma, la responsabilità prima della convenienza, la cura dei rapporti prima della giustizia astratta, come ci ha dimostrato Carol Gilligan1. Tutto ciò imprime alle donne un atteggiamento diverso anche nella gestione dell’impensato, del nuovo, di ciò che è straniero. Quando due donne si incontrano, ciò che appare in quel primo impatto è la comune appartenenza allo stesso sesso, prima della nazionalità, della lingua o del ceto sociale (le donne si riconoscono appartenenti a una stessa “specie”, scriveva Carla Lonzi).
Quell’irriducibile differenza dei sessi, come la chiama Adriana Cavarero, deve però fare i conti con le regole delle società patriarcali ed ecco che le donne straniere si trovano a vivere, a confrontarsi con un infinito “limitato”. Così si intitola il racconto di Besa Mone, autrice albanese. Nel raccontare con singolari e divertentissimi parallelismi matematici la storia della figlia che vorrebbe diventare insegnante, ma si trova a scontrarsi proprio con il limite delle leggi che rendono il potenziale infinito dell’inserimento sociale degli stranieri – appunto – “limitato”:
“E sul diario Anila annota: « Mi sembra che la legge mi sussurri nelle orecchie: Finché vuoi istruirti nella scuola italiana sei libera di farlo (per la primaria e la secondaria non serve neanche il permesso di soggiorno), istruire gli altri non te lo permetto.» Amareggiata aggiunge: «A mia madre è stato tolto il diritto di scegliere perché viveva in un sistema totalitario; a me è negato, perché vivo in un sistema democratico? Ma allora quale sarebbe il sistema dove certi diritti non vengono negati?»2
Nuove le priorità quindi da mettere in campo per un cambiamento futuro soprattutto all’interno di quelle società arcaiche dove non saranno certo le guerre degli uomini a mutare le cose. Una speranza di cui si hanno però continue conferme. Talvolta, nel ricordare la scarsa presenza in politica o le violenze contro le donne si sente commentare che “le donne sembrano assenti”, che siano soltanto vittime silenziose, ma non è così: come ieri le madri dei desaparecidos di Plaza de Mayo, oggi ci sono le donne che si oppongono alla violenza islamica. Tutto il mondo conosce la vicenda di Malala Yousafzai, attivista pakistana appena 14enne, ferita gravemente dai talebani in Pakistan per la sua battaglia a favore del diritto allo studio delle bambine. Allo stesso modo, durante le prime elezioni presidenziali in Iran fu una donna, Zahra Rahnavard, moglie del candidato moderato Mir-Hossein Mussavi, che rappresentò il vero segnale di cambiamento in questo Paese. Con uno stile totalmente inedito criticò le operazioni di polizia contro le ragazze “malvelate”, si espresse chiaramente in favore della parità dei diritti fra i sessi e di una maggiore presenza delle donne sulla scena politica e sociale e molti giovani, soprattutto donne, che si opponevano alla rielezione del presidente uscente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad non nascosero di aver votato per il candidato conservatore moderato proprio perché affascinati dalla personalità della moglie. E sono state poi le giovani studentesse, come Fatemeh Karimi, che hanno diffuso le notizie sulle repressioni seguite alle elezioni comunicando via blog o facebook, diventando le corrispondenti dei quotidiani occidentali. Malala Yousafzai, Zahra Rahnavard, Fatemeh Karimi e le altre incarnano le speranze di una popolazione femminile che rimane in gran parte nell’ombra, ma non rinuncia a desiderare. In tutto il mondo e in condizioni politico-sociali anche assai differenti fra loro. In Russia sono quasi tutte donne a comporre la rete di attivisti che hanno portato alla luce gli orrori della guerra in Cecenia. Era donna Natalia Estemirova, altra giornalista trucidata dopo la Politkovskaya, come è una donna Lidia Yusupova che difende i ceceni alla corte europea di Strasburgo. È questo l’anelito di chi cerca e, pur sapendo che non potrà mai raggiungere lo scopo, non rinuncia ad avvicinarsi, scrive Luisa Muraro. Un desiderio che non si arresta anche «nella cultura che cambia senza andare avanti, in un’economia che si espande ma non fa crescere né la gioia né il senso di sicurezza, nella vita che sembra tutta un mercato, con l’umanità stretta fra il troppo e troppo poco. Traspare l’intuizione che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare, nonostante ci capiti spesso di fare l’esperienza di una loro apparente, reciproca estraneità»3.
Luisa Muraro ricorda la storia di un antico testo persiano che narra di quando Giuseppe fu messo in vendita dai suoi fratelli, allora si presentarono molti compratori, tra cui una vecchia che stringeva alcuni gomitoli di lana ed alle esclamazioni di chi sorrideva di fronte alla sua misera offerta rispose: «Lo so che non potrò comprarlo ma mi sono messa in fila perché amici e nemici possano dire: anche lei ci ha provato». Come per la vecchia della lana, ci sono quindi tanti modi di “andare al mercato”, scrive Luisa Muraro, contro la parzialità della ragione, forti nella certezza di essere destinate a qualcosa di grande.
Alle donne, infatti, sono affidate le famiglie, anche quelle “interculturali” dove le appartenenze si rivelano in modo naturale, senza bisogno dell’approvazione del potere.
“Io sono andina, di Bogotà; mio marito mediterraneo, di Tunisi e i nostri figli, collinari torinesi – scrive Dilia Marcela Ortiz Fonseca – Tre continenti sotto un solo tetto! Si può? Ma, sì: un po’ di arepa , un po’ di couscous, e tanta, tanta pasta e focaccia! Che dire della religione? Un po’ di “Avemaria”, un po’ di “Insh’allah” e tanta, tanta pazienza!”.4 Dilia spiega come non sia possibile costringere la vita dentro le leggi e di come capì ben presto che i suoi figli – nati in Italia – non sarebbero stati colombiani come lei quando il primogenito, di solo due anni e mezzo, le disse davanti ad un fumante piatto di fagioli rossi, preparati in modo tipico (con la cipolla e cotti nell’acqua in cui erano stati in ammollo): «No, mamma, io questo non lo mangio!». «Ma, hijito, tu devi mangiare i fagioli perché tutti i colombiani mangiano los fríjoles!», implorai. E lui ribadì: «No, mamma, io sono di Pecetto (il paese dove abitiamo), e questo non lo mangio!». E continua nella descrizione di questo gioioso cocktail genetico e culturale descrivendo la colazione: “scherza in italiano, spagnolo e arabo, mentre mangia con grande ghiottoneria i datteri del sud della Tunisia, una fetta di pane impregnato di olio ed un pugno di olive nere. Sì, a casa si parla spagnolo, arabo, francese e italiano! I fratellini parlano italiano fra di loro, io parlo spagnolo con i figli e francese con mio marito e lui parla ai bimbi in dialetto tunisino. In questo modo del tutto naturale, i bambini imparano da noi le nostre radici e noi impariamo da essi il loro essere italiani: perché loro si sentono italiani.”
Le donne migranti, come dimostrano le statistiche, si “appropriano” molto più degli uomini del Paese d’approdo, perché quella è la terra che ha dato loro la possibilità di vivere, di crescere i propri figli, di guardare al futuro e non pensano al ritorno nel Paese d’origine. Lo spiega efficacemente Dilia con la similitudine dell’albero: “La Colombia è una presenza interiore, come quella della mamma, come quella della cumbia, che non mi lascia, ovunque io vada. Lei è il suolo dove affondano le radici del mio albero ed è il luogo dell’eterno ritorno: ci tornerò sempre perché la mia carne è fatta della sua stessa materia ed il mio sangue dell’acqua che scorre nel suo sottosuolo. L’Italia, invece, è la terra generosa che sostiene il mio albero nel suo fruttificare.”
Nel paradosso di un mondo globalizzato, cosa rende allora così difficile l’accettazione del diverso?
Sicuramente l’ignoranza, la non conoscenza. Solo conoscendolo, anche il proprio “nemico” non fa più paura. Un’autrice del Concorso ha fatto un bellissimo esempio paragonando la paura nei confronti degli stranieri alla paura del buio dei bambini: appena si accende la luce e si vede cosa c’è all’interno di quella stanza buia, la paura scompare. Così, Claudiléia Lemes Dias, vincitrice del Primo premio della III edizione del Concorso Lingua Madre, scrive: “Chi è lo straniero? Un insieme di no: non parla la nostra lingua, non ha le nostre origini, non impartisce la nostra educazione ai figli… Solo quando togliamo tutti questi no diventa uno di noi”.
Per questo insistiamo sulla “relazione”, lo scambio, il confronto. Essere in relazione vuol dire anche conoscersi di più. Il che non significa poi necessariamente “amarsi”, ma semplicemente “conoscersi”. Conoscersi per non avere paura. E la narrazione diviene dunque occasione per ribaltare le prospettive, per affermare il proprio diritto di parola, per dare testimonianza di sé.
Rahma Nur, per esempio, prende a pretesto l’elezione di Miss Italia ai tempi di Denny Mendez per tracciare un percorso, il suo, e mettere in risalto le contraddizioni di un sistema “fermo” e sorpassato dagli eventi, dal reale. L’autrice narra come i giornali, il giorno successivo la vittoria della Mendez, si riempirono delle immagini di una giovane donna di colore. C’era chi gioiva – perché sembrava che in Italia qualcosa stesse per cambiare – e c’era chi polemizzava e percepiva questa vincita come un’ingiustizia. Finché Rahma non si scontra sull’argomento proprio con la sua più cara amica (italiana e bianca), molto critica sull’argomento: “Allora le chiesi se avessi partecipato io, con la mia lunga storia di immigrata, arrivata in Italia da piccolissima, cresciuta a spaghetti, Battisti e letteratura italiana, sarebbe stato meglio?Lei rispose che era la stessa cosa: non rappresentavo la classica bellezza italiana; anche io come Denny ero nera, ricciolina e proveniente da un altro continente! Mi offesi a morte: ma come? Ai suoi occhi non ero più italiana di Denny Mendez? Non dissi una parola, mi sentivo profondamente ferita, discriminata e disillusa. Eppure parlavamo di musica, di film, di libri e ci trovavamo così simili, così complementari. Avevamo respirato la stessa aria, ascoltato le stesse canzoni, studiato gli stessi autori e amato le stesse storie. Eravamo affini in tantissime cose. Avevamo trascorso ore e ore a parlare di tutto; anche se io provenivo da una famiglia diversa, somala, africana; anche se io mangiavo a volte cibi diversi che lei aveva imparato ad assaporare; anche se la mia famiglia aveva una religione diversa, tradizioni diverse, io e lei ci ritrovavamo in tante cose. Parlavamo anche di politica e anche lì le nostre idee combaciavano. Com’era possibile che ora, per un banale concorso di bellezza, ci fosse una differenza così abissale tra di noi?”5
Non serve cambiare la Costituzione, anzi proprio la Costituzione contiene l’art.3 che non solo stabilisce il principio di uguaglianza (senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali), ma afferma che è preciso compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici o sociali che possano limitarlo.
Alla Costituzione fa riferimento anche la giovanissima Laila Mourabi quando racconta, in un breve ma assai efficace racconto, della sua esperienza di italiana non riconosciuta, di una tredicenne nata e vissuta a Poggibonsi le cui uniche differenze da chi le sta intorno sono di essere di origine marocchina e di portare il velo. Ma è davvero questa la differenza? Si chiede. Se sei di un’altra religione non sei italiana? “Ma non è così – scrive – nella Costituzione siamo tutti uguali di fronte alla legge, senza guardare la differenza di sesso, religione o origini. Continua però a darmi fastidio il fatto che se io porto il velo e ho la pelle scura vuol dire che non sono italiana…”6 E si stupisce che la gente si chieda come mai lei, le sue sorelle e sua madre parlino così bene l’italiano! E le viene naturale aiutare la nuova compagna del Senegal che non pronuncia bene le parole! E conclude:
“Via via, crescendo, ho capito che il mondo è pieno di sorprese e anche se tutti abbiamo culture, tradizioni o religioni diverse, siamo uguali, e l’armonia che ci dovrebbe essere sono certa che si creerà da sola. Non servono i genitori che consolano i propri figli perché quel giorno un loro coetaneo li ha offesi, perché più avanti quel bambino capirà che se va in un altro paese la gente lo guarderà come uno straniero…Per capire le cose bisogna provarle con i propri sentimenti e con le proprie sensazioni!(…) Io sono un’adolescente, e forse vedo delle cose che non ci sono… Però eccomi qui, in terza media, a scrivere un tema! Non è una cosa meravigliosa? L’italiano è la mia lingua madre, amo l’Italia come amo l’italiano, e sono certa che questo nessuno lo può cambiare!”
La stessa conclusione cui arriva Rhama Nur appropriandosi di un’Italia che le spetta, che si è conquistata giorno dopo giorno con le difficoltà che ha dovuto affrontare fin dall’età di cinque anni, con le file davanti alla Questura di Roma per rinnovare il permesso di soggiorno e per poter continuare a frequentare la scuola dove studiava i classici latini, lo Stil Novo, le regioni, i fiumi italiani e le Guerre d’Indipendenza. “L’Italia ero anche io quando, dopo tanti anni di permessi di soggiorno rinnovati ero riuscita ad ottenere la cittadinanza. Per anni mi ero sentita né carne né pesce, né somala né italiana. Ero straniera nella mia stessa terra; se volevo andare a fare un corso all’estero non potevo perché non mi rilasciavano il visto; se pensavo di cercarmi un lavoro, desistevo subito: chi mai avrebbe assunto una straniera e per di più disabile? L’Italia ero anche io e forse anche di più quando arrivò il momento del giuramento e l’ufficiale comunale mi fece alzare la mano destra, sentii il cuore accelerare il battito e la gola seccarsi – «Ripeta dopo di me», disse il messo comunale, ed io con voce tremante recitai dopo di lui: «Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi, riconoscendo la pari dignità sociale di tutte le persone». Parole bellissime che ripetei lentamente, assaporandone il significato, pensando agli articoli della Costituzione Italiana da cui erano stati presi e che avevo studiato a scuola nelle lezioni di educazione civica; che menti illuminate avevano redatto una sessantina di anni prima, quando l’Italia si stava riprendendo dalla disperazione, dalla devastazione della Seconda guerra mondiale; quando quelle stesse menti di giovani uomini avevano lottato per la libertà di pensiero ed espressione, per l’uguaglianza tra gli uomini e le donne. Forse quelle stesse parole che avevo appena detto, dovrebbero essere recitate da tutti gli italiani che nascono e crescono in questa meravigliosa terra e non si rendono conto della ricchezza e della profondità che si cela dietro quel trascurato libro che raccoglie gli articoli della Costituzione. Io sono l’Italia, quella di oggi, moderna, multiculturale e multietnica, ricca di sfumature e diversità, “bianca, nera, rossa, gialla perché, Lui ci vede uguali davanti a sé” come recita una canzone che cantavo da bambina. L’Italia sono anche io e non importa il colore della mia pelle o le mie origini; non importa se non rappresento il classico canone di bellezza italiana perché ci sono altri canoni che rappresento: quelli culturali, quelli di pensiero, quelli di educazione e di vita trascorsa: ho tutti i diritti di essere Miss ITALIA, perché è l’Italia di oggi che rappresento! L’Italia sono anche io e siete tutti voi, italiani da generazioni o da prime, seconde, terze generazioni”.
Fiducia, convivenza, condivisione sono pratiche silenziose che si possono imparare e mettere in atto facilmente, valori che si possono trasmettere agli altri senza implicazioni moralistico-religiose, ma grazie a tutte quelle attività della “differenza” rivolte alla realizzazione concreta delle cose. Ne sono un esempio le tante mediatrici culturali o le tante concrete esperienze messe in atto sul territorio, come quella delle “Madri di Quartiere” presenti in San Salvario, a Torino grazie alla onlus Il Mondo di Joele: mamme originarie di diversi Paesi, che abitano uno dei più popolosi e multietnici quartieri della città, che si sono unite per aiutare persone in difficoltà fornendo informazioni sui servizi utili del territorio. Ed ecco che il mercato diventa occasione di incontro e può servire a costruire relazioni, che il cortile torna ad essere vissuto come spazio condiviso (vi siete mai accorti che ormai da decenni non ci sono più bambini che giocano nei cortili di città?) pieno di colori, odori, sensazioni, dove le musiche sudamericane si fondono ai profumi delle spezie africane, tra l’ondeggiare al vento di panni indiani dalle tinte accese. Allo stesso modo, i parchi e gli spazi verdi cittadini possono accogliere in un abbraccio silenzioso: splendide opportunità per organizzare feste e pic-nic, per fare sport o semplicemente prendere il sole.
L’attenzione ai particolari fa sentire meno soli. I giochi dei bambini sono simili in tutto il mondo così come le raccomandazioni delle mamme, così come i fiori, i dolci e il pane e farsi avvolgere da queste sensazioni e da questi profumi può essere liberatorio e può farti sentire a casa ovunque tu sia, come sottolinea Saaida, Madre di Quartiere marocchina.
Fiducia, convivenza, condivisione” di ciò che è di tutti, perché si sia davvero partecipi del mondo – e non puro assistenzialismo (gabbia che ammutolisce e imprigiona soggettività in ruoli di vittime da difendere) o gerarchizzazione e verticalizzazione di poteri, ma cura e responsabilità di ciò che è “comune”. Riattivare e rimettere in circolo esperienze, conoscenze, forme di interazione e socializzazione collettive, significa fare – come suggerisce Pinuccia Corrias – «azione politica che può contribuire a “non bruciarci il futuro” e, ancora prima, a non bruciarci il presente, che è poi il solo tempo dell’essere. Ed è la politica dell’essere e non quella dell’avere che mette al mondo il mondo, impedendo, per quanto ci è possibile, che le relazioni con la natura, con gli altri, con noi stessi si trasformino in spazzatura invece che in ricchezza per tutti».
Anche Irina Turcanu si confronta con l’immagine di sé in relazione all’altro da sé, raccontando – attraverso l’espediente di un numero magico, il 12 – un percorso personale di ricerca e ricomposizione interiore, che diviene consapevolezza: “Dodici. Numero pari che si mantiene allo stesso modo anche se moltiplichi le sue cifre. Ma se lo dividi, diventa mezzo. Ed è lì, nel mezzo, che si ritrova e capisce perché quel doganiere l’aveva fatta scendere quel giorno dal pullmino, per porle mille domande. Era ancora lei, ma solo metà. E lui l’aveva sospettato. Si reputa, però, fortunata perché lo stesso quoziente, se il percorso è contrario, diventa di nuovo due. Pari, come si sente lei oggi, nei confronti della vita. Ha perso un uno sulla strada, quello con il quale aveva formato un due prima di trasformarsi in tre. Ma ha ritrovato l’unico uno senza il quale si è sentita metà, una sera, in una dogana, di dodici anni prima. Quell’uno va a scuola ora. Ed è brava»7.
E’ questa l’importanza di un’ereditarietà trasmessa di donna in donna, di madre in figlia. Raccontare per testimoniare, per re-esistere. C’è un sottile filo che congiunge le storie lontane, taciute e spesso sconosciute delle donne straniere, o meglio di origine straniera, e italiane che arrivano ogni anno al Concorso Lingua Madre. Un filo che va a ricomporre la relazione genealogica, che tematizza il nodo dell’autorità femminile, quello dell’ordine simbolico della madre, quello della lingua materna. Sono tante, sono donne in viaggio, anche quando stanno ferme. Dirette nei loro altrove del corpo e dell’anima, trovano nel racconto di sé una chiave preziosa che sembrava loro smarrita, la chiave per aprirsi alle loro nuove case, in città e paesi prima solo immaginati. È un dialogo corale che non si arresta, stravolge le certezze in un racconto unico fatto di parentesi chiuse e vite mandate a capo. Spesso felicemente. I racconti parlano la lingua universale del cambiamento. Testimoniano, con la gioia che la vita naturalmente conferisce alla narrazione, che costruire è sempre possibile. Che il terreno, anche se sconosciuto, può essere addomesticato e rifiorire, portando con sé la meraviglia di profumi sempre diversi.
Le difficoltà delle donne (siano straniere o italiane) sono condivise. Lungi dall’essere universale e neutro, come vorrebbe la filosofia classica, il soggetto del discorso – l’Uomo, intendendo anche la donna – rispecchia solo il punto di vista patriarcale. Ma i soggetti sono due, poiché l’umanità è costituita da uomini e donne: si nasce maschi o si nasce femmine. Il riconoscimento della differenza sessuale, come differenza non solo biologica, ma sociale, storica e simbolica, fa emergere quella metà dell’umanità che non ha statuto di soggetto. La presenza della donna nella storia è segnata dalla sua omologazione al maschile, dal suo essere definita e pensata da una cultura che lei non ha contribuito a creare. Ciò che la donna sa di se stessa le proviene dall’immagine che il maschio ha creato di lei. Quale sia la sua autentica identità è la sfida che il femminismo ha posto alla cultura occidentale. Come scrive Aida Ribero “Sul piano storico, l’urgenza di legittimare un’identità femminile forte, lontana da una descrizione che aveva il segno dell’oppressione e della debolezza, portò a negare la validità della politica dell’eguaglianza, quindi dell’emancipazione, che era stata la via maestra percorsa dal pensiero borghese-liberale e da quello di impronta marxista. Con l’emancipazione viene mantenuto inalterato il parametro maschile, con cui viene ad essere misurato il grado di emancipazione della donna. Con la liberazione la donna si sottrae all’identità stabilita dalla cultura patriarcale, per rivendicare una soggettività in positivo. Mentre con la politica dell’emancipazione la donna è oggettivamente inscritta nel disvalore, con il femminismo è inscritta nel valore”8. E questa è la strada da percorrere.
1 Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità,Feltrinelli, Milano 1987, 2° ed. 1991
2 Besa Mone, L’infinito limitato in Lingua Madre Duemilaotto, Seb27, Torino 2008, p.156
3 Luisa Muraro, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio,Mondadori , Milano 2009.
4 Dilia Marcela Ortiz Fonseca, Terra di geni e di giramondo in Lingua Madre Duemilaundici – Racconti di donne straniere in Italia (Ed.Seb27)
5 Rahma Nur, Volevo essere Miss Italia in Lingua Madre Duemiladodici – Racconti di donne straniere in Italia (Ed.Seb27)
6 Laila Mourabi, Le donne italiane raccontano in Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne straniere in Italia (Ed.Seb27)
7 Irina Turcanu, Dodici in Lingua Madre Duemilatredici – Racconti di donne straniere in Italia (Ed.Seb27)
8 Aida Ribero (a cura di), Procreare la vita, filosofare la morte-Maternità e femminismo, Il Poligrafo, Padova 2011

L'autore

El Ghibli

El Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. E' il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa.

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