Una prima istanza da cui principiare è se un processo di decolonizzazione dell’istruzione oggi, nel mondo globalizzato in cui viviamo, ha una sua ragion d’essere.  Non è solo la globalizzazione che sta mutando gli elementi di fondo dell’essere uomo, del rapporto fra nazioni e/o gruppi dominati e dominanti, ma a questo fattore, in cui il consumo acquista sia la dimensione di neo elemento identificante dei singoli e dei gruppi, ma anche quello di una diversa reificazione delle persone, si deve aggiungere anche lo sviluppo a livello transnazionale dei sistemi digitali e dell’importanza dei sistemi connettivi della rete.
La formazione delle persone, dei giovani   non passa solo attraverso i sistemi scolastici ma mediante tutte le forme comunicative che la rete offre.
Il passaggio dai sistemi analogici a quelli digitali non è solo una rivoluzione tecnologica “ma una mutazione antropologica legata alla nascita di una figura complessa, cioè quella del lettore spettatore internauta, i cui consumi culturali non sono più ‘monogamici (la lettura fondata sul libro) ma di natura plurilinguista e polivalente”.[1]
Aggiungerei che non è solo un processo di consumo culturale, ma di vera e propria nuova forma di apprendimento e di formazione. Le strutture tradizionali di formazione a questo punto sembrano aver terminato il loro percorso storico. Ma, come in ogni momento di mutamento e passaggio epocale, forze tradizionali e innovative si contendono l’egemonia sui processi di dominio; anche per quanto riguarda i sistemi formativi si sta assistendo ad una lotta fra un mondo tradizionale ed uno innovativo. Spesso le forme educative della persistenza tendono ad inglobare e utilizzare i nuovi modi d’apprendimento come ulteriore strumento di controllo e dominio. Ma con Francesco Fistetti si può condividere che:
elementi di dominio, di oppressione e di assoggettamento attraversano sempre la struttura storicamente data dei rapporti comunicativi. Perciò, affinché i diritti non restino lettera morta – o per allargare la grammatica dei diritti – occorre ingaggiare delle ‘lotte per il riconoscimento’ le quali articolino il postulato morale della dignità umana nel contesto di un ordine sociale e politico segnato da rapporti di forza ben determinati”[2]
A partire da quest’ultima considerazione perché i nuovi processi formativi soppiantino i tradizionali occorrerà del tempo. La transizione può essere accelerata attraverso due modalità: una prima è quella legata agli sviluppi di lotte tendenti alla decolonizzazione[3] e una seconda alla diffusione totale delle connessioni. La mancanza di queste porta ad una nuova e più sottile e aspra forma di dominio.
Partiamo però dalla necessità nella storia attuale di attuare forme di decolonizzazione dell’istruzione-
Per poter assumere un concetto adeguato di decolonizzazione e quindi della decolonizzazione dell’istruzione occorre partire da quello di colonialismo. Esso può intendersi come “il processo di espansione, dominio ed occupazione esercitato dalle potenze europee sul resto del mondo. Un processo, alla fine del quale, l’Occidente arrivò ad esercitare il proprio controllo sulla superficie di quasi tutto il globo terrestre.”[4] Gli elementi costitutivi di una tale definizione pongono al centro due categorie: quello del tempo e dello spazio. Per quanto riguarda il tempo si afferma nella denominazione su riportata che il colonialismo è stato un processo, quindi non in un tempo determinato, ma un tempo continuo più o meno lungo. Il termine deriva al latino colonus che a sua volta risale al verbo colere cioè coltivare, pratica che presuppone una stanzialità. I coloni latini solitamente costituivano una colonia in un territorio diverso da quello romano-latino ciò al fine di stabilirne una occupazione. “La remota origine del termine ci rammenta inoltre che, in quanto pratica di dominio politico ed economico, il colonialismo affonda le proprie radici nell’antichità”, afferma ancora nello stesso testo Liliya Chorna. Nell’epoca moderna il colonialismo si può far iniziare a partire dall’occupazione del continente americano da parte di Cristoforo Colombo. Tuttavia il colonialismo è presente nelle attuali politiche imperiali e come ci insegna Edward Said “resiste dove è sempre stato in una sorta di sfera culturale generale”[5].
Lo spazio del colonialismo riguarda gran parte dei territori del globo terrestre. Quanto afferma Edward Said però ci proietta in un’altra dimensione in special modo la categoria spazio che viene in qualche modo sovvertita, perché riportare la dimensione di atteggiamento coloniale in “una sorta di sfera di culturale generale” sposta l’atteggiamento colonialista non solo in uno spazio fuori da un territorio ove esiste culturalmente ma anche all’interno dello stesso territorio. A livello euristico si può inizialmente sostenere che il colonialismo è qualsiasi occupazione culturale di una classe sociale ai danni di altra classe sfruttata. È a partire da questo presupposto che è poi possibile parlare di colonialismo nell’istruzione e necessità della decolonizzazione che non può essere intesa come fatto unidirezionale e cioè riferito solo ai popoli colonizzati, ma va riferito anche all’interno di un territorio ove si impongono strutture pedagogiche e pratiche didattiche che servono solo ad una occupazione culturale della classe o classi subalterne. Per essere più precisi la decolonizzazione dell’istruzione deve essere affrontata da tre punti di vista: a) strumenti educativi nelle Università, ma anche scuola superiore ove vige un predominio di testi e riferimenti epistemologici del nord del mondo con scarsissimi riferimenti a studi e apporti dei paesi colonizzati; b) pratiche educative alternative nei paesi ex colonie dove si trascina una forma culturale coloniale nascosta; c) pratiche educative all’interno dei paesi Nord del mondo per scardinare il possesso culturale e quindi sfruttamento delle classi sociali emarginate.
Vediamo il primo aspetto. La richiesta di una decolonizzazione dell’istruzione recentemente è partita dal movimento di studenti del Sudafrica denominato Rhodes Must Fall. Gli studenti neri chiedevano la “decolonizzazione” dell’istruzione e la fine del “razzismo istituzionale” e delle discriminazioni nei confronti di studenti e ricercatori di colore all’interno delle università. La decolonizzazione dell’istruzione sostanzialmente riguardava la lotta al razzismo istituzionale e ai processi di discriminazione di studenti e ricercatori. La fine dell’apartheid non aveva cambiato sostanzialmente molto dei processi dell’istruzione in Sudafrica.
La protesta contro forme di razzismo nelle Università si estese anche in Inghilterra. Scrisse Mariya Hussain studentessa King’s College di Londra che “Gli studenti neri e appartenenti alle minoranze etniche si trovano ad essere non rappresentati, la loro storia e le loro culture sono completamente ignorate in ambito accademico,”. Nel Regno Unito si è sviluppato a seguito della protesta degli studenti un dibattito che ha visto partecipare studiosi del calibro di Timothy Garton Ash. Un altro intellettuale che si è interessato al problema della permanenza di forme coloniali nell’istruzione dei paesi precedentemente colonizzati è stato Savo Heleta che in un articolo apparso su AOSIS nell’ottobre del 2016 analizza a fondo la persistenza in Sudafrica di forme coloniali. Egli afferma che “Mentre l’accordo del 1994 ha portato un cambiamento politico, non si è fatto molto per affrontare la povertà e la disuguaglianza, che sono un’esperienza vissuta fin troppo comune dalla maggioranza nera.”[6] Aggiunge ancora lo studioso nello stesso breve saggio che per questo fatto “Pertanto, gli attivisti studenteschi parlano della opportunità di sconvolgere la “bianchezza” nella società, nell’economia e nelle università […] Il sistema di istruzione superiore sudafricano “rimane ancora oggi un avamposto coloniale”, riproducendo “identità egemoniche invece di eliminarle”.
La consapevolezza che la colonizzazione non ha comportato solo un dominio sui processi produttivi e sulla rapina delle risorse dei paesi colonizzati ci viene anche da un altro grande pensatore ed educatore e cioè Paolo Freire. Negli anni in cui il pedagogista brasiliano scriveva, altri pensatori analizzavano gli aspetti più deleteri del colonialismo. Così ad esempio Albert Memmi o Franz Fenon. Scrive Memmi in un suo testo che il colonialismo “si struttura in un “insieme di comportamenti, di riflessi espressi ed esercitati sin dalla prima infanzia, fissati e valorizzati nell’educazione, […] è così spontaneamente incorporato nell’azione, nelle parole anche le più banali”.[7] In questo quadro si può riconoscere il ruolo decisivo dell’educazione e delle istituzioni a essa deputate nella propagazione di questo sistema ideologico. Esso è così pervasivo che i colonizzati stessi vi aderiscono, vivendo un dualismo esistenziale, che viene analizzato attentamente da Freire: “Le maniere di essere e di comportarsi degli oppressi […] riflettono […] la struttura di dominio. Una di queste […] è il dualismo esistenziale degli oppressi, che “ospitando” l’oppressore la cui “ombra” introiettano, sono allo stesso tempo se stessi e l’altro”[8].
Il secondo aspetto da considerare riguarda la modalità pedagogica-didattica con cui i paesi ex colonie rispondono al tentativo di liberarsi da una istruzione ancora pervasa di forme coloniali. Ritengo infatti che se non si affronta così l’istanza decoloniale dell’istruzione si fa ben poca strada liberatoria: le modalità didattiche sono determinanti alla perpetuazione di processi anche neocoloniali. Esse si supportano mediante l’imitazione della organizzazione didattiche e didascaliche dei processi educativi che avvengono nei paesi ex colonie. Esempio significativo di una modalità liberatoria e non imitativa ci viene offerta dagli studi e lavori del pedagogista brasiliano Paolo Freire che lavorò negli anni ’60 del secolo scorso ai fini della alfabetizzazione delle comunità rurali. Una prima citazione del suo testo piò orientarci in questo processo di individuazione dell’importanza dei metodi didattici didascalici ai fini del discorso che stiamo conducendo. Egli afferma che “mai abbiamo ammesso che la democratizzazione della cultura consistesse nella sua volgarizzazione” e aggiunge ancor più significativamente “né che fosse possibile dare già pronto al popolo quello che noi avevamo elaborato nelle biblioteche, come precetti da eseguire”[9].
Il pedagogista brasiliano si rende conto che ai fini di una alfabetizzazione che sia democratizzante, cioè che instilli la coscienza della partecipazione democratica, liberandosi dall’influenza coloniale[10], era del tutto inutile ricalcare orme didattiche già elaborate e perseguite fino a quel momento. Egli si rendeva conto che i processi educativi proposti e sviluppati fino a quel momento erano imitativi di forme scolastiche che derivavano dalla colonizzazione. Paulo Freire arriva alla proposta dei tre momenti essenziali per sviluppare il suo metodo che chiamerà della coscientizzazione: “a) l’uso di un metodo attivo, dialogico, critico e criticizzante; b) la modificazione del contenuto programmatico della educazione; c) l’uso di tecniche come la riduzione e la codificazione”[11].
Potrebbe sorgere immediatamente l’obbiezione che un conto è l’alfabetizzazione della persone un altro è un processo formativo a gradi più elevati di istruzione. Se si vanno ad analizzare i tre aspetti proposti da Freire si può osservare come essi siano in netto contrasto con quanto solitamente avviene nelle strutture educative proposte dalla forma scolastica occidentale e purtroppo ancora oggi imitata nelle ex colonie, ma come vedremo non solo.
L’organizzazione didattica ancora oggi vigente nel mondo occidentale deriva sostanzialmente dall’impostazione data dalla Ratio studiorum e codificata nelle scuole gesuite a partire dalla seconda metà del 1500 . Riporto brevemente una disposizione della Ratio al fine di una constatazione del perdurare di queste regole nella struttura delle scuole occidentali. Si legge nelle Regole generali per i professori delle superiori: “Non si metta a spiegare nessun libro o autore al di fuori dei programmi e non sperimenti nessun nuovo metodo didattico o nuove impostazioni delle dispute [12]. Scrive Everett Reimer che “ Almeno in parte, lo sviluppo successivo della scuola è dovuto ai brillanti successi iniziali dei gesuiti; creata per una élite religiosa, l’istruzione gesuitica fu presto estesa all’élite laica del mondo europeo.”[13] Anche la riforma di Comenio in fondo non risponde che allo stesso schema, che anzi il pedagogista slovacco propone una organizzazione didattica prestabilita. Sarà necessario “strutturare la didattica delle discipline da insegnare nelle scuole secondo regole metodologiche, in modo che sia difficile deviare dal fine prefissato”[14] La storia della pedagogia occidentale ha visto anche voci in contrasto, si pensi a Pestalozzi, Piaget, Dewey, tanto per citarne alcuni, ma è sempre da tener presente che siamo di fronte a posizioni che provengono dalla classe sociale dominante, cioè dalla borghesia. Questa organizza il sapere a proprio uso e beneficio o permette deviazioni di pensiero riassorbiti all’interno del sistema dominante. È da considerarsi pertanto l’ipotesi che una decolonizzazione dell’istruzione non riguarda solo i paesi colonizzati, ma attiene ad ogni paese, nazione in cui vi sono classi dominanti e classi dominate. Ciò è tanto più necessario considerare per il semplice fatto che ormai in ogni nazione sempre più esistono gruppi appartenenti a paesi una volta colonizzati. La logica dell’organizzazione scolastica nei paesi Nord del mondo risponde anche a perpetuare in queste nazioni una sorta di colonizzazione nei confronti dei migranti. Significativo è quanto afferma a proposito Antonio Negri nel suo testo Impero:
La gerarchia tra le razze si determina solo a posteriori come effetto delle loro culture e cioè sulla base delle loro performance. Secondo il razzismo imperiale, allora, la supremazia e la subordinazione razziale non sono una questione teorica, ma si ricavano dalla libera concorrenza, da una specie di mercato meritocratico della cultura[15]
Persone che una volta erano vessati da forme di razzismo conclamato, ora sono emarginati sulla base di prestazioni culturali. Ma questa forma di colonizzazione avviene anche per i gruppi che economicamente faticano a sopravvivere a causa del basso reddito. La classi sociali di un tempo relativamente lontano che suddivideva la società in tre segmenti principali, alta borghesia, piccola borghesia e proletariato, ormai sono state soppiantate da distribuzioni in più classi sociali in cui dominano come elementi strutturali la situazione economica e il grado di istruzione. Paolo Sylos Labini nel saggio pubblicato nel 1974[16] individua tre classi sociali con sottogruppi arrivando ad un totale di sette classi sociali. Antonio Cobalti e Antonio Schizzerotto nel 1994[17] ne propongono quattro fondamentali con sottogruppi arrivando ad un totale di sei. Ai fini della nostra analisi è poco significativo approfondire la distribuzione in classi di questi studiosi quanto piuttosto considerare la relazione che esiste fra grado di istruzione, direi più marcatamente, successo scolastico e classe sociale d’appartenenza. I dati statistici sull’istruzione in Italia ( osserviamo il caso italiano, ma raginamenti simili è possibile farlo all’interno di ogni nazione del Nord del mondo) del 2017 rivelano che: se il genitore è laureato, l’incidenza dell’abbandono scolastico tra i figli risulta residuale (1,6%). Quando il titolo massimo dei genitori è il diploma la quota sale al 5%; raggiunge il 23,9% quando hanno al massimo la licenza media. Ciò implica di fatto una trasmissione generazionale del titolo di studio e, di conseguenza, dei livelli di povertà. Nonostante i mutamenti sociali avvenuti e in corso è da chiedersi quanto il sistema educativo scolastico non sia il responsabile di tale condizione. Mi spiego non è tanto il titolo di studio del genitore a determinare il grado di istruzione di un individuo quanto piuttosto l’organizzazione scolastica che non permette a studenti appartenenti a questa classe sociale di poter avere un successo scolastico. È come se la scuola contribuisse al perpetuarsi di questa condizione, salvo rare eccezioni. Se questa analisi è corretta, come penso che sia, allora noi possiamo parlare di vera colonizzazione che attraverso i processi educativi si opera nei confronti degli ultimi gradi delle classi sociali, una volta classe dei lavoratori, ora operaia urbana e operaia agricola.
Un’analisi più completa è possibile farla a partire dalla percentuale dei laureati nella popolazione italiana e dalla difficoltà di spostare questa percentuale che nel censimento del 71 era dell’1,81 per cento. Dopo 50 anni nel 2019 si è appena al 13,5%.[18] È evidente che la classe superiore tende a porre filtri affinché il suo predominio che è sempre economico non si sposti significativamente. Lo strumento perché questo avvenga è la scuola per negare un successo scolastico agli appartenenti a classi sociali inferiori. Siamo di fronte ad un vero colonialismo che mediante la scuola mantiene la supremazia economica e perpetua l’ingiustizia sociale. Il dato più grave è che chi non riesce a scuola attribuisce a se stesso la causa della sconfitta e non a condizioni di organizzazione educativa e metodologica. Tutta la ricerca pedagogica degli anni ’70 era incentrata sulla necessità di eliminare gli ostacoli che impedivano il successo scolastico alle classi subalterne. Sul piano del pensiero ideologico era l’effetto della contestazione giovanile della fine degli anni ’60 che aveva posto in crisi govertni e istituzioni educative a tutti i livelli.Poi la ricerca si è spostata su altre dimensioni e strategie (programmazione, unità didattiche, valutazione, ecc) tralasciando l’aspetto egualitario che in effetti era sembrato insormontabile rimuovere. Everett Reimer scriveva che :
“La scuola celebra i rituali che armonizzano i miti e la realtà di un organismo sociale che soltanto finge di essere per tutti. La scuola prepara individui per ruoli specializzati in istituzioni specializzate, selezionandoli e plasmandoli in termini sia di abilità che di valori. Per mezzo della sua struttura gerarchica, essa abitua gli individui ad accettare una singola gerarchia integrata di potere e privilegio. La scuola qualifica gli individui per la partecipazione ad alcune istituzioni e condanna chi non soddisfa i suoi dettami a non svolgere nelle altre istituzioni ruoli importanti o, comunque, ambiti.”[19]
Ad un’analisi più radicale non si potrebbe ipotizzare che la scuola da Istituzione ordinaria declini verso forme di istituzione totale? In un seminario organizzato dalla casa editrice Sensibili alle foglie si conviene che: in questa ‘istituzione ordinaria’ [la scuola] opera un dispositivo relazionale tipico delle istituzioni totali.
In una ricerca sull’abbandono scolastico che insieme a Nicola Valentino ho condotto nel 1998/99 all’IPIA di Bagnoli la risposta più frequente che gli studenti hanno dato a domande sul loro vissuto scolastico può essere sintetizzata così: «Mi sento un carcerato». In quella scuola la percentuale di abbandoni raggiungeva l’80%, vale a dire che su cento iscritti al primo anno non più di venti arrivavano al diploma. In quella ricerca, durata circa un anno, ci fu presto chiaro che gli studenti avevano una percezione lucidissima della crisi di senso di quella scuola (nata in un contesto di forte industrializzazione ma ora collocata in un’area meridionale sacrificata e deindustrializzata) e della sua funzione di “vuoto contenitore”. Era chiaro a tutti, dal Preside ai bidelli, che lì non ci si andava per apprendere qualcosa di traducibile, dopo i cinque anni, in lavoro. Ci si andava per un’altra ragione: perché “costretti” dall’obbligo scolastico e dalle pressioni genitoriali. Non a caso dunque, forme di relazione, gradi e articolazioni del controllo presentavano analogie evidenti con i dispositivi all’opera nelle istituzioni totali. Gli allievi erano scoraggiati e impossibilitati a mettere in atto un qualsivoglia processo istituente. I loro controllori si consideravano a tutti gli effetti “guardiani dell’istituito”. L’unica risorsa che restava agli allievi più vivaci e intraprendenti era l’evasione: “l’abbandono scolastico”.[20]
La scuola, così come è organizzata è una forma di colonizzazione di popoli, ma anche di gruppi sociali, nei quali essa agisce per perpetuare le forme di dominio o sottomissione atte al riconoscimento della propria inferiorità culturale e quindi all’accettazione della propria condizione di vita al limite del servile. Ci sono ipotesi pedagogiche, pratiche didattiche, iniziative politiche capaci di operare una vera decolonizzazione? Se non si trovassero vuol dire un’accettazione dello status quo e quindi di un grado di ingiustizia permanente ed intollerabile. Un sistema malato produce i propri anticorpi che portano alla speranza se non di guarigione di una diminuzione delle forme di malattia e della sua tollerabilità. La stessa cosa avviene in un corpo sociale che genera posizioni, idee, teorie adatte ad un possibile superamento delle forme di colonizzazione culturali che favoriscono il mantenimento dello status quo e quindi dell’ingiustizia. Una prima indicazione di carattere pedagogica didattica ci viene dallo stesso Paolo Freire quando parla del dialogo come forma didattica attiva, ma un dialogo orizzontale, di simpatia fra due poli che cercano entrambi insieme qualcosa. Opposto al dialogo “simpatia” vi è “l’antidialogo che stabilisce un rapporto verticale di A suB, è l’opposto della comunicazione: è senza amore, è acritico, e non suscita criticità,”[21] . Una seconda indicazione ci viene dalla filosofia della conoscenza di Emmanuel Kant il quale afferma che conoscere per l’uomo è come costruire a partire dalle categorie a priori che egli possiede. La conoscenza non un ripetere ma un costruire, un fabbricare. Queste indicazioni poi furono riprese da Piaget, che afferma:
Lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di saper ripetere o conservare verità bell’e fatte, perché una verità che viene ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e conquistare da se stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo, e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede.[22]
Con l’applicazione di questi spunti didattici è possibile avviare ad una pedagogia che chiamerei post kantiana, mentre ancora oggi la didattica opera attraverso un processo solo ripetitivo di apprendimenti memorizzati. Un insegnamento basato sull’attività che porti gli allievi a sviluppare le loro potenzialità piuttosto che a mortificarle. Dice ancora Piaget:
Il fatto è che niente è più difficile, per l’adulto, del saper fare appello all’attività reale e spontanea del bambino o dell’adolescente: soltanto questa attività, orientata e sempre stimolata dall’insegante, ma lasciata tuttavia libera nelle sue prove, i suoi tentativi e anche i suoi errori, può condurre all’autonomia intellettuale.[23]
Il pedagogista Francesco De Bartolomeis negli anni ’70 propose il sistema dei laboratori come strumento didattico di formazione delle nuove generazioni di giovani. È un’utopia? Il filosofo Herbert Marcuse scriveva un testo intitolato La fine dell’utopia[24], in cui esortava sosteneva che la presa di coscienza dei giovani di allora avrebbe potuto comportare realizzazioni sociali ritenute fino a quel momento solo delle utopie. E’ pur vero che ogni innovazione delle forme didattiche passano attraverso i docenti che devono schierarsi o per una didattica che emancipi e renda i loro allievi cittadini responsabili della necessità di garantire a tutti lo sviluppo delle loro personalità al di là delle condizioni economiche di partenza, oppure gli insegnanti saranno i sacerdoti della perpetuazione dell’ingiustizia e di tutte le forme coloniali attuali e future. C’è una necessità urgente di rimettere al centro degli interessi umani e sociali il problema della giustizia, attraverso cui passano tutti gli altri problemi, anche quelli ecologici. Ultimamente è uscito un libro del giornalista Federico Rampini che tende superare la concezione della colonizzazione politica di sopraffazione, ma a dare invece all’occidente e ai paesi colonizzatori la convinzione di essere stati portatori di vero progresso e civilizzazione. Il suo testo porta il titolo Grazie, Occidente!, proprio ad affermare che se non ci fosse stata la colonizzazione quei popoli “colonizzati” non godrebbero dei benefici che le potenze coloniali hanno loro portato. A proposito dell’istruzione, della scuola, così si esprime: “L’alfabetizzazione diffusa, la scuola pubblica sono tutte conquiste occidentali esportate nel resto del mondo grazie ad una organizzazione economica (il capitalismo) che ha moltiplicato la ricchezza disponibile.”[25] Il giornalista non si pone neppure il problema dell’uso che le potenze occidentali, ma anche le oligarchie interne ad ogni Stato colonizzato, fanno di questa organizzazione scolastica.
Egli non si pone neppure la domanda se i paesi colonizzati non avrebbero potuto fare un loro percorso di sviluppo indipendentemente dai paesi colonizzatori. Ci si pone la domanda se riconoscere la necessità di una decolonizzazione a tutti i livelli dalle forme di pensiero ai processi istruttivi sia una forma di misconoscimento del valore e della grandezza del pensiero e del progresso economico e tecnologico dei Padesi del Nord. Ritengo che la decolonizzazione sia un dovere come essere umano ai fini di cominciare a considerare l’altro[26], gli altri popoli, le altre nazioni, le altre culture alla pari della nostra perché le forme di vita sono diverse ma tutte della stessa importanza.
[1] Francesco Fistetti, La svolta culturale dell’Occidente, Morlacchi editore, 2024, pag. 131
[2] Ibidem, pag. 126
[3] Come illustrerò più avanti tutti i sistemi scolastici sono strutturati come forme di colonizzazione di menti e persone.
[4] Liliya Chorna, Il passato è presente: il colonialismo e le sue ferite aperte, Melting Pot Europa, 6 febbraio 2021
[5] Edward Said, Cultura e imperialismo, Gambetti editrice, Roma, 1998
[6] Savi Heleta, Decolonisation of higher education: Dismantling epistemic violence and Eurocentrism in South Africa, in AOSIS, 25 ottobre 2016
[7] Memmi, A., Ritratto del colonizzato e del colonizzatore. Napoli: Liguori, 1979, pag. 67
[8] Freire, P., La pedagogia degli oppressi. Milano: Mondadori, 1971, pag. 69-70
[9] Paolo Freire, L’educazione come pratica della libertà,  Arnoldo Monddori 1973, pag. 126
[10] Gli studiosi hanno affermato che esiste una sostanziale differenza fra colonialismo e colonialità. Scrive Luca Fabris in una recente tesi per il dottorato di ricerca nell’Università di Padova  dal titolo Ricezione del pensiero decoloniale in Italia: strumenti educativi per decostruire il sapere eurocentrico che: “quello di colonialità è un concetto differente dal colonialismo. Quest’ultimo si riferisce ad una struttura di dominazione/sfruttamento in cui il controllo dell’autorità politica, delle risorse di produzione e del lavoro che una popolazione determinata esercita su un’altra di identità differente le cui sedi centrali si trovano, in più, in un’altra giurisdizione territoriale. Ma non sempre, né necessariamente, implica relazioni razziste di potere. Il colonialismo è ovviamente più antico, dal momento che la colonialidad ha dimostrato di essere, negli ultimi 500 anni, più profonda e duratura. Senza dubbio fu però generata all’interno di questo e, inoltre, senza questo non avrebbe potuto essere imposta nell’intersoggettività del mondo in maniera tanto radicata e prolungata”10. La colonialità è dunque strettamente vincolata al colonialismo, nel senso che deriva da questo, ma mentre il colonialismo è stato sconfitto, le relazioni sociali, le classificazioni razziali e sessuali, le dinamiche economiche di sfruttamento, la centralizzazione dell’Occidente come locus autorizzato, epistemologicamente e teoricamente, nella produzione ed enunciazione della conoscenza11, non sono state estirpate e continuano a riprodursi nell’attualità., pag 6
[11] Ibidem, pag 132
[12] Ratio studiorum, Regole generali per tutti i professori dei corsi superiori, art. 4
[13] Everett Reimer, La scuola è morta, Armando, 1973, pag. 82
[14] IPU, Modulo 1 Pedagogia e scienze dell’educazione, pag. 25
[15] Michael Hardt  Antonio Negri, Impero, Rizzoli, 2002, pag, 183
[16] Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, 1974
[17] Antonio Cobalti Antonio Schizzerotto, La mobilità sociali in Italia, il Mulino 1994
[18] Dati ISTAT
[19] Everett Reimer, La scuola è morta, Armando, 1973, pag. 89
[20] Dal seminario “Reclusione e risorse” organizzato dalla cooperativa Sensibili alle foglie” alla fine degli anni ’90, sintesi stesa Renato Curcio
[21] Paulo Freire, l’educazione come pratica della libertà, Arnaldo Mondadori, 1973, pag. 133
[22] Jean Piaget, Dal bambino all’adolescente, La Nuova Italia, 1974, pag.348
[23] Jean Piaget, Dal bambino all’adolescente, La Nuova Italia, 1974, pag. 348
[24] Herbert Marcuse, La fine dell’utopia, Bari, Laterza, 1968§
[25] Federico Rampini, Grazie, Occodente!,  Mondadori, 2024, pag, 36
§[26] Il filosofo Byung-Chul Han nel suo testo L’espulsione dell’Altro, sottolinea il fatto che “La presenza dell’altro è dimensione costitutiva per la costruzione di un sé stabile”
Taddeo Raffele
agosto 2025

 
			 
							 
							 
							 
							