Interventi

Lo specchio del desiderio

Scritto da Ankur Betageri

ankur betageri

Ponzio Pilato: È vera la storia della tua vita?
Gesù Cristo: Cosa è la verità?
KASHMIRI 1: 18
(La Sacra Bibbia, versione di Re Ashoka)
All’inizio di quest’anno (2013), in una fredda mattina di febbraio, mentre facevo una passeggiata attorno al lago di Hauz Khas1, mi imbattei in una ragazza che piangeva seduta su una panchina in pietra. Mi chiesi chi fosse, e perché stesse piangendo così copiosamente ma, essendo un tipo timido, e non avendo il coraggio di andare da lei e parlarle, proseguii il cammino. Quando raggiunsi lo stesso posto per la seconda volta lei era ancora lì seduta e singhiozzava: questa volta decisi di andare da lei e chiedere. “Ciao, scusa… hai bisogno di aiuto?” Alzò lo sguardo, succhiò le lacrime agli angoli della bocca, si asciugò le guance, e mordendosi le labbra scosse il capo. Una ragazza timida, una specie rara: mi tornò il coraggio. Mi sedetti accanto a lei. “Però ti ho vista piangere. Cosa c’è che non va? Vuoi andare a casa? Dov’è casa tua?” Questa volta mi guardò dritto negli occhi, occhi grandi pieni di domande e dubbi. “Ah, sono Ankur Betageri, faccio lo scrittore e il fotografo”, mi presentai. “Ti prego, dimmi se posso esserti d’aiuto.” “Io…” cominciò, ma si voltò e scoppiò di nuovo in lacrime. Ah, le donne e il loro bisogno di melodramma! Pensai. Eppure rendono il mondo un posto interessante; il mondo ha bisogno delle donne, e delle loro lacrime, e di ogni altra cosa. Aspettai in silenzio che parlasse. Ma visto che non diceva nulla, chiesi “Vuoi fare due passi? Compriamo l’acqua all’angolo; magari ti fa bene.” Mi guardò, aprì la sua jhola2alquanto decorata e tirò fuori una bottiglietta d’acqua blu sussurrando “Ce l’ho l’acqua.” “Bene… bene”, dissi. “Dovresti berne un po’, ti farà bene.” Bevve qualche sorso dalla bottiglia e poi me la offrì. Fu un gesto sorprendente; mi piacque la sua gentilezza e sincerità, ma dissi “No, grazie.” Ora sembrava pronta a parlare.
Disse di chiamarsi Shazia Karzai e di venire da Kandahar, in Afghanistan. “Dài, sembri davvero indiana,” dissi. “Ma anche molto afgana.” Sorrise. Bene! Pensai. Riesco a far sorridere una donna, una che stava piangendo. Disse che era la figlia di un diplomatico afgano e, benché fosse nata a Kandahar, di aver studiato in diverse città europee e aver fatto l’università a Londra. Circa sei anni fa, mentre era all’università, lei e la sua famiglia dovevano partecipare al matrimonio di un parente stretto e quindi andò a casa. Aveva diciannove anni. Dopo appena due giorni il mondo in Afganistan si capovolse. I Talebani presero il potere, e immediatamente suo padre fu licenziato, e tutte le libertà e i privilegi di una società liberale e progressista furono tolti. Due settimane dopo il cambio di governo, due leader talebani andarono a casa sua e obbligarono suo padre a offrirla in sposa a uno dei generali talebani; suo padre e l’intera famiglia avrebbero perso la vita se non avessero acconsentito volontariamente al matrimonio. Suo padre, che l’aveva cresciuta con tanto amore e affetto, dovette offrirla, con le lacrime agli occhi, al Generale Mohammed Uzman, perché diventasse la sua terza moglie. La vita in casa del generale era un inferno; la sola visione dell’irascibile e barbuto Generale la fece svenire il giorno del nikah3. Quando andò in camera, quella notte, fu presa da un accesso di pianto così forte che svenne e dovettero chiamare un medico per rianimarla. Il medico consigliò al Generale di starle lontano per qualche giorno e lentamente conquistare il suo amore con piccoli atti di gentilezza e regali. Ma questo non sarebbe mai successo. La sola vista del Generale le procurava un attacco di panico. La paura e l’ostilità e la ripugnanza per il Generale erano talmente grandi che persino lui cominciò a perdere la pazienza. Dopo aver provato di tutto nel suo libro per tre settimane, giurò ad Allah che se lei non lo avesse accettato come suo legittimo marito, il venerdì della quarta settimana la avrebbe fatta decapitare e la avrebbe informata tramite un servo. Shazia aveva paura per la propria vita ma sapeva anche che non sarebbe mai stata capace di accettare il Generale come marito. Pregava tutti gli Dei che conosceva e piangeva e pensava per tutta la notte. C’era una sola via d’uscita. Se fosse riuscita, in qualche modo, a scappare dalla fortezza della sua casa e raggiungere l’Ambasciata Francese, poteva pianificare qualcosa con la sua amica Console Francese Madeline Malabou e trovare il modo di andarsene dal paese. Ci pensò per molto, molto tempo. Il Generale non l’avrebbe lasciata andare per nessuna ragione, e qualsiasi riferimento all’Ambasciata o all’amica lo avrebbe insospettito ancora di più. Non avrebbe dovuto nemmeno sapere che lei stava pensando una cosa simile, o avrebbe impedito ogni possibile tentativo di lasciare il paese. Cosa poteva fare lei? Pensò di nuovo ai diversi modi per raggiungere le mura di confine della casa senza essere notata. Non c’era soluzione, aveva quasi concluso, quando vide, fuori dalla finestra, un gigantesco bidone di latte di cammello trasportato in casa da due servi robusti. Corse fuori dalla stanza e seguì i servi, che portarono il bidone in cucina, lo svuotarono in un enorme tino d’alluminio e lo riportarono via per metterlo sul camion. Shazia era abbastanza magra ed era per lei possibile introdursi in quel bidone gigantesco. Quando i servi – uno di loro alla guida – salirono sul camion, si guardò intorno, si assicurò che nessuno stesse vedendo, e salì anche lei. Non fu difficile aprire il coperchio del bidone, e nemmeno infilarcisi. Tuttavia, non chiuse il coperchio, lo socchiuse lasciando un piccolo spazio per l’aria. Il camion lasciò l’entrata senza problemi e, dopo dieci minuti di attesa senza respiro, mentre il camion rallentava e sembrava prossimo a una sosta momentanea, aprì il coperchio e balzò fuori dal bidone. Il camion era al semaforo di Alzabeer Road, abbastanza lontano, ma non troppo, da Suboha Avenue, dove si trovava l’Ambasciata Francese. Saltò giù, si fece strada tra gli autisti stupiti al semaforo e i passanti, e corse alla fermata dell’autobus più vicina. Per fortuna aveva il burkha che le copriva il volto e, nonostante sapesse che nessuno poteva vederla, i cinque minuti di attesa alla fermata del bus quasi la uccisero, e fu solo quando salì sul bus verso Suboha Avenue che fece un sospiro di sollievo. Sul bus, mandò un messaggio a Madeline su Whatsapp, chiedendole di aspettarla al cancello in modo da poter entrare in ambasciata evitando il controllo della sicurezza e senza esibire la carta di identità. Madeline, che era al corrente delle sue sfortunate circostanze, rispose immediatamente con un OK. Sarò al cancello. Quando raggiunse l’ambasciata francese, Madeline era in piedi all’entrata, nella sua gonna azzurro cielo e la camicia a righe, con un mezzo sorriso di profonda preoccupazione sulle labbra truccate. Mise le braccia attorno alle spalle di Shazia, e la portò dentro. Il giorno seguente venne vestita come un’assistente di bordo, le fu dato un nome francese (Mathilda Meillassoux) e un passaporto francese e mandata verso Antibes con il primo volo Air France. Thierry, il fratello di Madeline, la accolse ad Antibes, e per non alimentare sospetti, prese con lei un volo per l’Italia, diretti alla cittadina di Leonessa. Una volta arrivati, Thierry chiamò Madeline e le chiese di mandare un messaggero da Mr Karzai per informarlo della fuga di Shazia dalla casa del Generale e la sua sana e salva uscita dal paese. Nascose volutamente le informazioni sulla loro attuale posizione perché non voleva correre rischi con il KHAD, l’agenzia di intelligence afgana, e i Servizi Segreti talebani, che potevano spiare. E ovviamente chiamava Shazia, Mathilda, e Mr Karzai, Mr Meillassoux. Il messaggero non riuscì a raggiungere la casa di Mr Karzai poiché gli uomini del Generale si erano già messi a controllare il posto, tuttavia riuscì a informare il cuoco di fiducia di Mr Karzai della riuscita fuga di Shazia verso l’Europa, ma apprese anche che Mr Karzai era stato torturato dagli uomini del Generale per avere informazioni su Shazia e che la sua vita era sotto minaccia. Ma né Thierry né Madeline potevano al momento fare qualcosa per Mr Karzai, e secondo Thierry non c’era motivo di informare Shazia delle tristi condizioni di Mr Karzai. Thierry sfruttò i propri contatti a Leonessa e riuscì a trovare lavoro a Shazia presso la biblioteca pubblica, poi partì per Parigi. La vita a Leonessa non era facile per Shazia, le era molto difficile comunicare con gli italiani con il suo inglese, e poiché era ufficialmente Mathilda Meillassoux e supponeva essere francese, le poche persone alla biblioteca che sapevano il francese maturarono sospetti quando seppero che non riusciva nemmeno a parlare un francese elementare. A Shazia, i sospetti e le chiacchiere davano sui nervi, e quando si imbatté in Sharko Gualazzini, un fotografo italiano che aveva mostrato interesse per lei in un bar del posto, si presentò come Preeti, una regista indiana di documentari che stava viaggiando con un falso passaporto francese per osservare e registrare in segreto l’ascesa dei culti neofascisti e neonazisti in Italia. I Carabinieri, che avevano tenuto d’occhio i suoi movimenti, avevano sospetti sulle sue attività e le avevano bloccato il conto bancario e le carte di credito, disse a Sharko. Gli disse che era sotto imminente minaccia di arresto e che era disperata all’idea di tornare in India. Aveva già inviato allo studio di Delhi le registrazioni video segreti sui culti fascisti, e doveva andare là e montarli il prima possibile. Venne a sapere che anche Sharko doveva andare in India e voleva che la portasse con lui, come Mrs Gualazzini. Ma Sharko pensò che questo era troppo; gli piaceva ed era intenzionato ad aiutarla ma disse che non voleva ritrovarsi nei guai sposandola. “Non ti ho mai chiesto di sposarmi,” Shazia rispose immediatamente a tono, “voglio solo viaggiare come una italiana, e far finta di essere Mrs Gualazzini mi nasconderebbe ancor di più”. Ma essere Mrs Gualazzini non era l’unico modo per essere italiana; importante era un passaporto italiano, e Thierry sarebbe stato capace di fornirgliene uno. Per il passaporto, doveva scegliere un nome, uno che fosse sia italiano che indiano, e decise di chiamarsi Preeti Leonessa: Preeti da Leonessa. Sharko parlava un buon inglese ed era partito diverse volte per l’India, così Shazia alias Mathilda alias Preeti, non aveva problemi con lui, su cui poteva contare in India. E non appena ricevette il passaporto italiano, gli rese quello francese e gli chiese di bruciarlo. E mentre il passaporto scoppiettava si accartocciava nel fuoco, scoppiò a piangere al ricordo di tutte le chiacchiere e i mormorii alle sue spalle riguardo una certa donna francese che non era capace di dire una parola in francese. “Ora sei un’italiana che non sa parlare italiano,” disse Sharko, come leggendo la sua mente. “Insegnami!” Disse lei. La sua selvaggia irruenza lo fece ridere. “Tu sei pazza, completamente pazza!”4 Disse, e l’abbracciò.
La mente di Sharko era piena di progetti persino durante il volo per l’India; aveva sempre voluto lavorare con le immagini in movimento, e ora che aveva una regista di documentari al proprio fianco, pensava di realizzare il suo progetto, un documentario per la Rai sugli omicidi d’onore di cui aveva tanto sentito parlare. Prese subito l’iPad dallo zaino e, senza nemmeno interpellare Preeti, inviò una e-mail al suo amico produttore Rai chiedendogli se potesse commissionare un documentario sugli omicidi d’onore in India che lui avrebbe girato con una giovane regista indiana di nome Preeti. Il tempo di scendere e recuperare i bagagli all’aeroporto Indira Gandhi, il produttore aveva risposto: Procedi. Buona fortuna! Voglio vedere la prima versione entro la fine del prossimo mese. Se funziona bene, avremo una nuova vita. Sharko alzò gli occhi dalla e-mail e disse a Preeti “Sai, sto per lavorare a un documentario sugli omicidi d’onore, puoi farmi da direttore della produzione?” Preeti che non aveva mai tenuto in mano una videocamera, che non aveva mai girato un singolo minuto di ripresa, rispose “Certo! Certo! Fantastico!” E fu così che Sharko e Preeti girarono in lungo e largo il nord dell’India nei due mesi successivi, da Sonepat a Gwalior, da Jammu a Jhansi, da Delhi a Aurangabad, con Preeti che maneggiava maldestramente la videocamera pur riuscendo a girare e vantarsi, con abbastanza successo, di un’inesistente carriera con le riprese. Come faceva Sharko a non rendersene conto? L’amore, dicono, è cieco, e Sharko si era innamorato di Preeti. Povero, povero Sharko, se avesse saputo! Quando finirono di girare e mandarono in fretta e furia il primo spezzone alla Rai, Sharko era così innamorato di Preeti che le chiese di sposarlo. Se la proposta del Generale l’aveva fatta cadere in incontrollabili eccessi di pianto, la proposta di Sharko, che lei non si aspettava, le fece venire mal di stomaco. “Kya? Kyaa?” Disse in hindi a Sharko. “Senti, pensi che sarò la tua direttrice della fotografia per tutta la vita? Io ho ambizioni, ambizioni politiche, e nessuno accetterebbe come politico una donna indiana sposata con uno straniero”. Sharko era confuso; non si aspettava una risposta simile. “Cosa? Perché non dovrebbero accettarlo?” A fatica riusciva a bisbigliare. “Conosci Sonia Gandhi, la moglie di Rajiv Gandhi? Sai perché non è riuscita a diventare Primo Ministro dopo la morte del marito? Perché è italiana. E gli indiani odiano gli italiani.” “Non è possibile, sei pazza!” Disse Sharko coprendosi il volto con le mani. Sì, Sharko, il famoso Sharko Gualazzini, che aveva girato il mondo ed era stato con centinaia di donne, era scoppiato a piangere, scuoteva le spalle e aveva il petto gonfio, dal gran piangere. E Preeti lo aveva ferito. Lei rise sommessamente tra sé e sé, meravigliata del suo potere. Ma gli diede un rapido colpetto sulla schiena dicendogli “Torna in te, Sharko. Ci vediamo quando stai meglio,” e se ne andò. Ma non lo avrebbe più visto. Lui fece i bagagli e partì verso Parma il giorno dopo, senza nemmeno salutare. Preeti fu lasciata sola a Delhi, ma fu fortunata nell’incontrare un Bihari di nome Poorv Rajput. Poorv Rajput era figlio di un proprietario terriero, e come tutti i figli di proprietari terrieri del Bihar pensava che ci fossero solo due modi per essere utili alla società: entrare in amministrazione o in polizia, o entrare in politica.

Poorv era troppo pigro per studiare per gli esami della UPSC5; nonostante avesse fatto l’università a Delhi, nel cuore era un ragazzo di paese e passava il tempo a leggere le jeevnis, biografie, di famosi politici del Bihar. Ma era anche troppo pigro per inseguire una carriera in politica, e aveva deciso che sarebbe diventato quello che nel Bihar si chiama ‘creatore di re’. Ma chi avrebbe reso re? Nei tre anni di permanenza a Delhi non aveva trovato nessuno meritevole di impartire la sicura strategia per guadagnare potere che aveva imparato studiando le vite politiche di centinaia di leaders del Bihar. La gente si dileguava quando apriva bocca per parlare di politica, e nessuno nella sua famiglia, nemmeno il fratello, che considerava la sua parola quella definitiva di Dio, pensava che le sue idee politiche fossero pratiche. Così, quando Poorv incontrò la Preeti dall’aspetto perso che aveva, per capriccio, iniziato un corso dì italiano alla JNU6, sentì che aveva ricevuto la chiamata. Preeti era una sorta di tabula rasa, una lavagna pulita; un’indiana, una Dilliwali, che a malapena sapeva parlare hindi; una persona persa e confusa ma anche incredibilmente testarda e ambiziosa. Ma com’era possibile che non sapesse parlare hindi ma parlasse inglese come una madrelingua? Sono un’indiana d’Australia, spiegò Preeti, siamo arrivati in India solo un anno fa, dopo l’improvvisa scomparsa di mio padre. Ah, questo spiega tutto, pensò Poorv. E se non potrò essere il creatore di un re, sarò il creatore di una regina, una vocazione tanto più onorevole e meritoria: l’ascesa della donna indiana con un’attenta e sistematica elevazione di una donna verso i gradi più alti del potere. Al solo pensiero, gli occhi di Poorv si illuminavano. Finalmente Preeti aveva trovato un mentore disinteressato in India, e ora poteva sbarazzarsi di quello stupido fotografo italiano. Tre settimane dopo la decisione di liberarsi di Sharko, Sharko le aveva proposto di sposarlo e il giorno del rifiuto era partito per Parma.

A Preeti il futuro sembrava luminoso e sconfinato. Poorv era il ragazzo che aveva cercato da una vita: un uomo senza alcun intento egoistico, un uomo pronto a investire in lei tutti i sogni e le energie, senza alcuno scopo egoistico. Preeti aveva trovato la sua metà, ed era anche pronta a sposarsi, ma non appena pensò che tutto andasse come voleva lei, sperimentò il dolore. Poorv, che stava frequentando l’ultimo anno di Master, ricevette dei voti veramente bassi in un paio di materie, e dopo essere stato rimproverato al telefono dal padre irascibile, partì all’improvviso per il Bihar senza avvertire Preeti. L’uomo che parlava con lei giorno e notte, l’uomo che aveva giurato di stare con lei tutta la vita, l’uomo che sognava per lei – e con lei – grandi cose tanto da farle tremare le ginocchia, l’aveva lasciata in modo freddo, senza nemmeno una telefonata. Provò a chiamarlo ma il telefono era spento, probabilmente aveva cambiato numero.

Chiamò i suoi amici, ma nessuno riuscì a fornirle i suoi contatti o il luogo in cui si trovava. Sapeva solo che era in un distretto di Bihar chiamato Arrah, perché la sua casa era lì, e sentì un profondo strazio nello stomaco all’idea di non avere speranze.
Non importava quanto stupido e volubile fosse Poorv, per la prima volta i suoi sogni avevano fatto apparire vero il suo destino; si sentiva a casa in questo destino, in questo sogno di futuro. Decise di diventare ufficialmente indiana e chiamò Thierry per ordinare un passaporto indiano. Thierry, da parte sua, voleva solo che l’amica di infanzia sua e di sua sorella fosse felice, ed era pronto a fare qualsiasi cosa in suo potere per renderla felice. In una settimana, il suo passaporto indiano fu pronto, e le fu chiesto di ritirarlo presso un ufficiale dell’Ambasciata Francese di Delhi. Thierry assunse anche un esperto per mettere insieme tutti i documenti e le carte per procurarle un’autentica identità indiana. Questa era la sua nuova biografia: Preeti è nata a Sydney, Australia, da madre Rajasthani e padre dell’Uttar Pradesh. Suo padre morì quando era abbastanza piccola e lei emigrò verso Delhi, India, con la famiglia all’età di dodici anni. Fece scuole medie e liceo in diverse città dell’Europa e l’università a Londra, dove studiò botanica. Tornò in India e si specializzò in italiano, insegnandolo per mantenersi.
Per star dietro a tutto, Preeti seguì una routine rigorosa e una dieta. Si svegliava ogni mattina alle 5.45, di dava una rinfrescata, beveva una tazza di latte con un paio di mandorle e noci, e alle andava in palestra a Connaught Place e si sarebbe allenata fino alle 10. Poi andava al lavoro all’università, dove insegnava italiano, (se aveva lezione quel giorno), altrimenti andava in biblioteca a studiare per il suo PhD poiché, sì, si era anche iscritta come aspirante dottoranda presso un’università italiana. Come una devota donna indiana, rispettava il vrata e digiunava il lunedì. Inoltre, incontrava regolarmente funzionari del partito del Congresso e sgomitava per l’iscrizione alla AICC7 che l’avrebbe, in un prossimo futuro, aiutata a garantirsi una tessera per presentarsi alle elezioni. Stava seguendo le istruzioni di Poorv per il Tee ma all’improvviso, una mattina, appena sveglia, non riusciva a capire più chi fosse; non sapeva più o non riusciva a ricordare chi fosse veramente. Era esausta e le sembrava di non avere forze per andare avanti. ‘Chi sono io? Chi diavolo sono e perché sto facendo tutto questo?’ Si chiedeva in piedi davanti allo specchio. Il riflesso non le rispondeva e lei non sapeva che fare. Uscì di casa, mise in moto la macchina ed era arrivata fino a un lago, nel paese di Hauz Khas, solo per recuperare la tranquillità d’animo che sembrava averla abbandonata. Come si trovò lì, una nebbiosa mattina di febbraio, fu di nuovo presa da quell’inconsolabile eccesso di pianto e fu così quando la vidi.
“Ufff!” emisi un gran sospiro, “Che storia, Shazia – o dovrei chiamarti Preeti? Comunque, che vita incredibile e pazza hai vissuto! Vite, dovrei dire! E comunque, come faccio a sapere se quello che hai detto è vero?” Le chiesi. “Non puoi saperlo,” rispose semplicemente. “Perché nemmeno io so quale sia la verità. Ci sono tante definizioni di verità; la mia semplice definizione è: la verità è ciò che voglio. Per molto tempo sapevo, o almeno pensavo di sapere, cosa volevo. Ora non lo so più. Così, non so dirti niente di certo, so solo che tutto è incerto, ed è l’unica verità che so.”
“L’unica verità che sai è che tutto è incerto? Come sarebbe? Di sicuro, tra tutte queste identità c’è un’identità che ti porti dalla nascita. Sai sicuramente dove sei nata, chi sono i tuoi genitori – ovvio che ti è stata data una identità, ed è separata da tutte quelle che hai adottato?”
“Ogni identità è un’identità adottata, e no, nessuna identità viene data. Ciò che è dato è falso, o perlomeno svanisce, appassisce o muore. Ci rinnoviamo ogni giorno, e mentre diveniamo questo qualcosa di nuovo, adottiamo identità diverse; ogni identità è diventare qualcos’altro, diventare nuovi, che è il nostro destino da essere umani.”
“Chi sei ora?”
“Non lo so?”
“Perché?”
“Perché non so cosa voglio.”
“Come ti dovrei chiamare?”
“Come vuoi.”
“Dovrei chiamarti Preeti?”
“Per me va bene.”
“Ok, allora, Preeti, dove andiamo?”
“Non lo so. Dimmelo tu.”
“Vuoi fare colazione?”
“Ok.”
“Andiamo al Saravana Bhavan, in Connaught Place?”
“Non è troppo lontano?”
“Ma mi va una buona colazione sud indiana, e non mi fido dei ristoranti qui attorno.”
“Ok.”
“Ok, andiamo, allora. Possiamo usare la tua macchina? Non ho voglia di guidare, tornerò a prendere la mia più tardi.”
“Va bene.”

Così siamo andati con calma verso la sua macchina. Quando ha cominciato a guidare, guardavo i suoi occhi nel retrovisore. Occhi che dicono siano lo specchio dell’anima. Sembravano impassibili, anche un po’stanchi. Si accorse che la guardavo e sorrise. Ricambiai il sorriso. Mentre ci avvicinavamo allo Zoo nei pressi di Pragati Maidan, notai un burkha sul sedile posteriore e all’improvviso ebbi un’illuminazione. Avevo con me la mia nuova Leica. “Posso farti io le foto? Non ho mai incontrato una ragazza afgana prima d’ora.”
“Ah, quindi sei sicuro che sia afgana?” Chiese.
“No, sembri anche indiana,” dissi. Sorrise.
“Allora… posso farti qualche scatto?”
“Certo,” rispose.
“Non qui in macchina,” dissi. “Voglio che la posteggi da qualche parte. Ti voglio fotografare all’aperto. C’è una buona luce.”
“Sei davvero un fotografo?”
“Certo, perché dovrei mentirti su qualcosa di simile?”
“Nessuno dice bugie. Uno diventa solo qualcun altro. È così che va.”
“Capisco,” dissi. “Sì, puoi fermarti qui. Mi piacerebbe scattare su questo ponte pedonale.”
“Ok,” rispose, e parcheggiò la macchina davanti al National Sports Club.
“Voglio che tu indossi quello, dissi indicando il burkha.”
“Va bene,” replicò, e seduta in macchina, lo indossò sopra il vestito. Camminammo e salimmo il ponte, che era stato costruito anche per essere una sorta di ritrovo per godere di una bella vista dell’area di Pragati Maidan, aveva tre o quattro panchine d’acciaio. Le chiesi di sedersi su una panchina e cominciai a scattare. Poi la feci stare in piedi con, alle spalle, Mathura Road e feci altre foto. Era una modella molto brava e cortese, consapevole dell’attimo, pronta a rispondere alle istruzioni e a conoscenza del valore delle più sottili pose ed espressioni.
Tra uno scatto e l’altro chiesi, “Fare foto non è una battaglia contro l’incertezza della vita – un tentativo di conservare il suo essere effimero scolpendolo nella permanenza di una immagine? Non pensi che le nostre foto sigillino in un certo qual modo la nostra identità, in un modo che neppure noi possiamo negare?”
“Non penso,” rispose. “La nostra identità non è una carta di identità; la carta di identità e la foto che ci ritrae invecchiano e diventano obsolete; noi no, ci rinnoviamo ogni giorno. Una carta di identità ideale dovrebbe forse avere un piccolo specchio al posto della fotografia, in modo da catturare l’essenza della nostra identità che muta ogni attimo, ma poi uno specchio quanta identità riuscirebbe a carpire?” disse, e si fece pensierosa.
“Hmmm. Resta lì,” dissi, e scattai una foto.
Dopo aver fatto altre foto vicino a Dargah Matka Pir, andammo al Saravana Bhavan. Sei sicuramente la persona più misteriosa che abbia mai incontrato, dissi dividendo la masala dosa8 al ristorante. Mi piacerebbe farti altre foto – questa volta senza burkha. Sorrise e basta, come lusingata. Così, dopo colazione, ci fermammo al DDA Park sulla Siri Fort Road, e le feci qualche bella foto nel parco, che pareva una foresta umida. E di tutte le foto che scattai quel giorno, una (che non posso riprodurre qui per motivi di privacy) con lei che indossava uno hijab e guardava in alto sognante, seduta su una panchina di metallo di stile coloniale sotto una bougainvillea, circondata da fiori rosa, è rimasta con me, come la sua identità più intima e innocente. Chissà – potrebbe essere una poetessa dalle diverse vite!

Traduzione Erika Orlandini
1 Zona verde all’interno della città di Delhi [N. d. T.] 2 Tipica borsa indiana [N. d. T.] 3 Matrimonio islamico [N. d. T.].
4 in italiano nel testo [N. d. T.] 5 Union Public Service Commission [N. d. T.] 6 Jawaharlal Nehru University, università pubblica di Nuova Delhi [N. d. T.] 7All India Congress Committee [N. d. T.] 8 Tipico piatto sud-indiano (N. d. T.).

L'autore

Ankur Betageri

Ankur Betageri (1983) è un poeta, scrittore, fotografo, traduttore, e attivista artistico indiano. Indicato come uno dei dieci migliori scrittori nazionali dall’Indian Express, ha rappresentato l’India, come poeta, alla terza edizione degli International Delphic Games di Jeju, Corea del Sud (2009), e al Lit Up Writers Festival di Singapore (2010). È considerato uno tra i più versatili poeti di lingua inglese e kannada e un apprezzato autore di racconti, caratterizzati sia da un estremo realismo che da metafore surreali e capaci di mostrare sia gli aspetti rurali che quelli urbani della società indiana. È, inoltre, fondatore della piattaforma Hulchul, conosciuta per la valorizzazione delle installazioni artistiche e della poesia performativa.
Ha tradotto opere di P. Lankesh, Edgar Allan Poe, Fernando Pessoa, Marin Sorescu, Arthur Rimbaud, Pablo Neruda, Pier Paolo Pasolini.
È autore di The Sea of Silence (2000), Hidida Usiru (2004), Idara Hesaru (2006), Haladi Pustaka (2009), Bhog and Other Stories (2010), Malavika mattu Itara Kathegalu (2011), Basant Badal Deta Hai Muhavr (2011), The Bliss and Madness of Being Human(2013).

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