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Vergine giurata

La memoria culturale albanese nella scrittura migrante: Vergine giurata, dal romanzo al film

La migrazione, la cultura e la storia del Paese delle aquile, rappresentano poli imprescindibili per qualsiasi disamina di un autore albanese; lo sradicamento geografico, per tutti ma in particolare per coloro che lavorano con le parole, implica vivere un’esistenza da translingue che influenza la percezione della realtà circostante.

In questo approfondimento la scelta come case study è ricaduta sul romanzo Vergine giurata dell’autrice albanese Elvira Dones. La stessa, nel 1988, decise di lasciare l’Albania che ancora viveva sotto il regime comunista: la Svizzera italiana prima e gli USA dopo saranno la sua terra d’approdo. Queste continue peregrinazioni permettono l’acquisizione della lingua del paese ospitante: Dones parla fluentemente diverse lingue e scrive principalmente in italiano. Questa rappresenta compiutamente la figura di autrice contemporanea che lavora come mediatrice tra due o più culture; nel caso specifico l’autrice si propone come espressione della letteratura albanese nata al di fuori del Paese: una letteratura nutrita da esuli e migranti.

Il romanzo

Dopo una prima produzione letteraria che ha preso, progressivamente, le distanze dal paese natio, Elvira Dones decide di rendere omaggio alle proprie origini e lo fa scegliendo un tema fortemente geolocalizzato nel Nord della nazione: la condizione delle burrneshë[1]. L’autrice entra nell’universo del fenomeno delle vergini giurate arrogandosi il difficile compito di farsi portavoce della realtà tribale delle Alpi del Nord e, al contempo, proponendosi come mediatrice nei confronti di coloro i quali ignorano le dinamiche sociali della piccola regione.

Il romanzo è apparso subito come prova letteraria pienamente compiuta, come narrazione in cui il passaggio da un romanzo prettamente locale a uno globale è percepibile e accolto dal mondo editoriale.

Vergine giurata è stato edito nel 2007 in Italia e nello stesso anno ha visto la luce nelle librerie albanesi con il titolo Hana. Solo nel 2014 il romanzo viene tradotto in inglese, grazie al lavoro di Clarissa Botsford, con il titolo Sworn Virgin; questa edizione riporta la prefazione a cura di Ismail Kadare, il cui contributo rappresenta la precisa volontà di connotare culturalmente il valore del romanzo. In merito alla genesi dello stesso, Dones chiarisce le motivazioni che hanno portato alla nascita di una narrazione che rappresenta un esempio compiuto di equilibrismo culturale e linguistico:

Era qualcosa che mi affascinava da moltissimo tempo. […] Il mio libro non vuole raccontare storie esotiche e primitive dei nostri montanari arretrati, come qualcuno potrebbe pensare, volevo semplicemente scrivere un libro sulla solitudine di queste donne, su quello che succede a loro mentre il corpo invecchia, marcisce, si annerisce, senza mai darsi a nessuno e senza mai ricevere né una carezza né un abbraccio. Per cui vorrei che venisse considerato un libro sulla solitudine.[2]

Venendo all’analisi del romanzo, è interessante sin da subito notare la scelta del titolo dell’editio princpes che ha lo scopo di focalizzare l’attenzione del lettore sulla tematica affrontata nel romanzo invece che sulla vicenda personale della protagonista[3].  Di fatto il lettore non alfabetizzato all’aspetto antropologico del Paese è chiamato a farsi carico di una prima forma di traduzione culturale: il significato e il significante non coincidono per coloro che vivono in una società differente rispetto a quella del paese balcanico.

Vergine giurata rappresenta, nella produzione letteraria di Dones, il primo romanzo scritto in italiano, prodotto editoriale che nasce da un periodo di gestazione linguistica partita dall’uso dell’albanese tradotto fino ad arrivare all’autotraduzione del romanzo Sole bruciato. Un passaggio lento, quindi, un’invasione linguistica venuta a compimento dopo fasi intermedie. Vergine giurata è la storia di una tradizione femminile albanese fortemente connotata, una vicenda che viene trasferita in Italia attraverso l’uso di una lingua non materna: la lingua dell’esilio.

Dones, mediante la narrazione, riporta una delle tradizioni accreditate nel Kanun[4] che tematizza l’importanza del ruolo e dell’onore ad esso collegato all’interno della società, una preminenza fortemente legata al genere. È basilare comprendere che all’interno delle società tribali come quella in oggetto, non esiste margine relativo alla scelta del singolo: l’intera comunità si regge su un insieme di norme condivise e rispettate da ciascun individuo. Nel caso specifico del romanzo, Hana, giovane ragazza rimasta orfana, è vincolata al giuramento per sfuggire ad un matrimonio combinato che permetterebbe all’anziano zio di morire avendo assolto alla sua funzione di capofamiglia: una fuga metaforica, una scelta che non ha nulla di personale e che affonda le radici nella sola possibilità che le permette di poter evitare un’unione da lei rifiutata.

La ribellione alla scelta immanente della verginità e del mutamento del ruolo ha un fine catartico che mira alla liberazione dalla situazione conflittuale: la mutazione, relativa agli atti performativi ma anche al mondo interiore della donna, per essere completa deve incidere anche sullo sguardo obliquo con il quale osserva il mondo e per il quale metterà in atto un olocausto emotivo.

Sul piano paratestuale, sin da subito emerge l’aspetto della vicenda su cui l’autrice translingue decide di focalizzare la narrazione che, procedendo tra analessi e presente narrativo, mostra l’evoluzione di Hana-divenuta Mark- e la sua rinascita a seguito della migrazione verso gli Stati Uniti.

La macrostruttura del romanzo segue l’andamento della storia attraverso la divisione in sette capitoli, volutamente frammentati da continue peregrinazioni spaziali e temporali che riflettono i movimenti interiori della giovane, divisa tra il passato albanese e il presente statunitense. Questa frammentazione crea lo spazio per una lettura che lambisce la struttura diaristica narrata, però, da una voce extradiegetica.

Attraverso l’identità di Hana viene presentato il transito tra le due culture proponendo l’analisi di una sensibilità mutilata, censurata.

Il punto di vista della protagonista è intrecciato a quello della nipote adolescente nata e vissuta in America, Jonida, facendo coincidere la sua posizione con quella del noi, del lettore straniero. Il rapporto tra le due donne, infatti, rappresenta un esempio di incomprensione culturale, un misunderstanding che può essere esteso a tutti coloro i quali, nelle pagine narrate, hanno avuto modo di incontrare Hana-Mark e di notare le sue contraddizioni.

A seguito della pubblicazione del romanzo, Elvira Dones ha scelto di non esaurire il suo apporto circa il fenomeno delle burrneshë curando un documentario, Vergini giurate, presentato al pubblico in qualità di spaccato della realtà sociale presente sulle Montagne Maledette. Il diverso medium utilizzato dall’autrice per approfondire la delicata situazione delle vergini albanesi nasce dalla necessità di dare un volto e un nome alle donne che, spesso, vengono mitizzate. L’attenzione mediatica nata a seguito del romanzo, infatti, ha generato innumerevoli letture fuorvianti circa la scelta e il ruolo delle donne che diventano uomini: attraverso il documentario, che dona ampio spazio al vissuto delle protagoniste, l’autrice ha consentito un’interpretazione meno filtrata delle ragioni e della quotidianità delle burrneshë.

Il film

In un’epoca in cui il romanzo è coinvolto nella globalizzazione e nella dilatazione dei confini del genere e del tema, accade che i contenuti veicolati debbano risultare fruibili da un pubblico notevolmente più vasto di quello del passato, un pubblico di lettori meno settoriale e più ampio.

In questo spaccato sociale relativo al mondo editoriale, il connubio tra testo e immagine caratterizza buona parte della produzione letteraria odierna, dando vita a romanzi crossover, trasversali e soggetti a transcodifica.

Nel caso in oggetto la scelta di transitare dalla pagina scritta al video non può passare in sordina in quanto rappresenta un processo di “ri-mediazione” che verrà ripreso ed esteso da Laura Bispuri, giovane regista italiana. Il prodotto della regista romana parte dal romanzo per approdare nel 2015, dopo un lavoro durato tre anni, al film omonimo che propone un rimaneggiamento della scansione narrativa del romanzo e della caratterizzazione di Hana-Mark.  Durante la gestazione della pellicola, Bispuri ha focalizzato la sua attenzione anche sul piano linguistico, proponendo dialoghi in italiano e in albanese -per meglio dire nel dialetto del Nord, il gheg– tradotti dagli abitanti stessi dei monti durante le sue ricerche.

Rimanendo su questo piano è necessario sottolineare che l’aspetto dell’adattamento linguistico della protagonista a seguito del momento catartico della migrazione, non è molto pregnante come nel romanzo: questo dimostra quanto la selezione degli aspetti tematici venga elaborata in base alle necessità creative e al vissuto dell’autore. Dones è una scrittrice che vive a cavallo tra due o più lingue e riporta sulla pagina scritta tale condizione esistenziale; Bispuri, invece, decide di sottolineare con maggiore forza visiva il passaggio da un modello, seppur indotto e relativo agli aspetti performativi, maschile a uno femminile.

Uno degli elementi che più marcano la distanza tra il romanzo e la sua trasposizione cinematografica è la caratterizzazione del personaggio di Hana-Mark: nel film la regista decide di presentare visivamente il giuramento che, in questo caso, viene condiviso dal clan, contrariamente a quanto attestato da alcune ricerche antropologiche. Hana, una volta comunicata la decisione allo zio, decide di fasciare il seno recandosi, in abiti maschili, presso il Consiglio degli anziani dove i capelli, ultima traccia di femminilità, vengono tagliati.

Contestualmente, in tono solenne, avverrà il giuramento che rappresenta un momento di passaggio irreversibile e sul quale farà perno l’onore della nuova vergine giurata. Secondo il punto di vista della regista era di fondamentale importanza partire da una realtà non soggetta ad una rilettura culturale, avvicinandosi ad una mimesis del reale.

Innumerevoli sono i piani di lettura del film, da uno più immediato che mostra la realtà albanese, a uno più complesso e articolato che propone una riflessione critica sulla condizione della donna nel Paese di provenienza e di arrivo a seguito della migrazione. Allo stesso modo, diverse sono le metafore su cui Bispuri decide di lavorare, una delle quali si riferisce al mondo agonistico del nuoto sincronizzato che, attraverso la figura della nipote, descrive la condizione di Hana-Mark: l’apnea, necessaria alle coreografie della ragazza, narra dell’immobilismo e della condizione di estrema difficoltà della burrnesh che, una volta arrivata a Roma, deve riacquisire la capacità di respirare senza la gabbia, l’imbrigliatura della condizione di vergine. È un’apnea metaforica quella della donna albanese, una condizione esistenziale claustrofobica e costrittiva.

È interessante notare che la riappropriazione del corpo femminile di Hana viene filtrata dalla realtà della piscina: tutto sembra ruotare intorno alle numerose scene ambientate all’interno della struttura in cui protagonisti sono i corpi in costume delle giovani atlete; il mondo dell’apnea, quello del nuoto, è il primo contatto della donna con la cultura del paese ospitante che, a differenza di quella albanese, propone corpi che esprimono in maniera diretta la loro femminilità.

Il messaggio su cui Bispuri vuole lavorare è quello che si riferisce al cliché della bellezza femminile del mondo globalizzato, un’avvenenza esposta alla necessaria perfezione del corpo; nel nuoto sincronizzato, una delle poche discipline sportive prettamente femminili, la donna è costretta ad una costante espressione sorridente che ha lo scopo di celare lo sforzo fisico della disciplina. Una metafora interessante che è possibile equiparare per estensione alla più generale condizione femminile: le donne, infatti, ricoprono ruoli lavorativi che per trattamento salariale e condizioni di impiego spesso non risultano paritetici rispetto a quelli maschili; inoltre la donna che lavora fuori casa ha anche il compito di accudire la famiglia, prospettando così un impegno di molto maggiore rispetto a quello maschile.

La donna occidentale, qui rappresentata attraverso la metafora del nuoto sincronizzato, presenta un corpo castrato alla stessa stressa stregua di quello delle burrneshë albanesi, ma la limitazione avviene per colpa di una sovraesposizione dello stesso. La consuetudine delle società globalizzate, infatti, presuppone una bellezza standard a cui aspirare, una forma fisica codificata che non lascia spazio a corpi al di fuori del canone; allo stesso modo la fisicità delle vergini albanesi è castrata nell’aspetto femminile che viene rinnegato e cancellato.

Alla stregua di Dones, anche Bispuri propone un lavoro di grande mediazione culturale che comunica allo spettatore, secondo un primo livello di lettura, informazioni sulla realtà dell’Albania del Nord: l’immediatezza delle immagini riesce a lavorare sul gap culturale dello spettatore non albanese. Per questo motivo le scene non presenti nel romanzo ma inserite nel lavoro della regista risultano interessanti e fondamentali affinché la cultura delle Alpi prenda forma nel pubblico. In tal senso la già citata scena del giuramento di Hana o il passaggio filmico relativo al funerale dello zio, rappresentano vere e proprie spie di una realtà sconosciuta che viene proposta affrancandosi da letture che tendono alla mitizzazione.

Vergine giurata, prima con il romanzo e poi con il film, ha dimostrato di essere una scommessa editoriale che si affranca dalla specificità dei lettori di nicchia della letteratura migrante, presentandosi al grande pubblico in veste di opera dalla notevole portata culturale.

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[1] Il termine deriva dall’albanese burr, uomo, che viene declinato al femminile. Le giovani che diventavano burrneshë assumevano caratteristiche fisiche e atteggiamenti propri del genere opposto, una completa privazione del femminile che, però, non intacca il sesso anatomico.
[2] ELVIRA DONES, intervista a cura di Marjola Rukaj – Elvira, scrittrice internazionale: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Elvira-scrittrice-transnazionale-43786
[3] La trama del romanzo si basa sulla vicenda personale di Hana, giovane ragazza che frequenta l’Università di Tirana e che spende la propria vita nella lettura e nello studio. L’improvvisa malattia dello zio e la morte dell’amata zia la costringerà a lasciare la capitale e a trasferirsi nella Kulla che diventerà, dopo il giuramento, la sua prigione. Dopo quindici lunghi anni di abbrutimento e solitudine Hana emigrerà negli Stati Uniti per riscrivere la sua esistenza.
[4] Il codice consuetudinario di Lek Lekë Dukagjini, che rappresenta uno dei Codici presenti in Albania.

L'autore

Viviana Minori

Viviana Minori nasce a Colleferro (Roma) il 18 dicembre 1987. Nel luglio del 2017 si laurea in Italianistica presso l’Università di Roma Tre con una tesi dal titolo La memoria culturale albanese nelle scritture migranti: il caso di Elvira Dones. Ha collaborato dal 2009 al 2016 al progetto SAI per il quale ha pubblicato due saggi, frutto di ricerche storiche e d’archivio. Da anni cura laboratori di scrittura creativa nelle scuole. Nel 2017 ha collaborato alla ricerca, prevista nel progetto Educare con efficacia, presso l’asilo nido del suo paese di residenza, Paliano, approfondendo la tematica della realtà immersiva come valido supporto per la didattica innovativa. Si interessa di insegnamento della lingua italiana come L2.

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