Narrativa transnazionale

Maledetti lombardi

Maledetti lombardi? O forse è il purgatorio della menzogna? Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l’essere una straniera — in Italia. È difficile dover lottare per sopravvivere ogni santo giorno, anche essendo una modella richiesta. Il mondo della moda non è “male parte” per una straniera, ma certo non è neanche il più onesto. E così, comincia la mia giornata. Che direste, se una mattina, uscendo di casa, trovaste nel cestino della vostra bicicletta un enorme groviglio di vecchi giornali, completamente intrisi di liquidi puzzolenti di pesce putrefatto? O forse era un calamaro? Acciughe? Molluschi? Baccalà? Boh, chi lo sa. Puzza come in un buon caseificio francese — forse un “fromage à l’affinage”? Io, per esempio, resto muta. Pietrificata. Tenendo quella massa infernale con la punta delle dita — dita eleganti, da modella — sospese nel gelo del mattino, come in un esercizio di danza. Sono sulle punte dei miei piedi lunghi, gambe lunghissime, anche loro da modella. E penso: dove cazzo lo butto, adesso? Porca puttana! Cazzo! Cazzo! Ahhh! Ecco, qualcosa da dire ce l’ho, eccome! Non parlo, no – urlo! Urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni, dentro il cortile silenzioso del mio condominio borghese, ancora addormentato. Io vivo lì, in quel condominio. In un misero bugigattolo al pianterreno — un buco dimenticato da Dio, dalla ristrutturazione, dalla pietà. Porca puttana! E, ancora sulle punte, barcollante e isterica, avanzo verso il cassonetto. Rido. Rido come una pazza  — mi vedo da fuori e sembro una cheerleader, con quel pompon maleodorante che mi dondola nella mano tremante. Getto tutto nel bidone. Soffio fuori una nuvola di vapore bianco — pesante, maschia. Mi sento un po ‘meglio. Un po’. Ma fino a quando? Quanto dovrò sopportarlo? Ieri sera, rientrata leggera e quasi felice, verso mezzanotte e mezza — dopo due casting, una giornata all’università e infine il turno al ristorante toscano. Ho parcheggiato la bici sotto la mia finestra. Il posto era libero. Io ero sfinita. Sfinita come dopo una carezza troppo lunga, troppo intensa. E neanche per un attimo avrei potuto immaginare una sorpresa tanto ben confezionata stamattina. Un omaggio dei miei “adorabili” vicini. Un atto d’amore. Alla lombarda. Mi tormenta da giorni, da mesi forse –  un pensiero viscido e insistente: quanta perfidia, quanta meschinità, quanta vile ipocrisia può annidarsi nelle vene di questi esseri umani, persone dall’aspetto irreprensibile? Sono i miei vicini. Gli stessi che mi danno ogni giorno il buongiorno. Vivono con me in questo rispettabile condominio borghese — rispettabile solo per chi non guarda troppo da vicino. E quando li incrocio, mi sorridono con quei loro denti splendenti, probabilmente rifatti da qualche dentista low-cost in Croazia, o in qualche altra “fucking Eastern European country” .  E allora mi chiedo: Perché non dirmelo in faccia? Perché non ammettere  semplicemente che vogliono parcheggiare lì, dove non si può. Perché non dirmi che quella ruota, quel telaio, quella catena li infastidiscono? E io, a mia volta, potrei far notare loro il piccolo dettaglio che ogni notte mi addormento col concerto di portiere sbattute sotto la mia finestrella al piano terra, e ogni mattina vengo svegliata da un bacio tossico, una carezza al gasolio in piena regola Euro 6.  Perché non dirmelo in faccia? Perché non parlarne col portinaio? Perché scivolare così in basso, fino a queste meschinità che sanno di Medioevo marcio, di malizie da faida tra villaggi? No, nemmeno nel Medioevo: qui siamo al Paleolitico puro, all’era in cui l’uomo era ancora primitivo e guidato solo dal suo istinto selvaggio. Ultimamente, a sproposito e a proposito, mi trovo sempre più spesso a usare la parola “neolitico”, come definizione di qualcosa al limite tra il primitivo e un barlume di civiltà. Qui si tratta proprio del Paleolitico superiore. Probabilmente è l’influenza delle lezioni all’Università di Milano, dove ora studio. Recentemente abbiamo parlato della rivoluzione neolitica: quel momento in cui l’uomo, dal semplice istinto, ha iniziato a pensare in maniera più complessa. E ora? Ora non mi resta che salire su un tram — senza che io lo abbia scelto, senza che io lo voglia — e farmi portare lontano da questo scempio, fino all’università. Questi maledetti lombardi non smettono mai di sorprendermi; quando ritorno dal cassonetto, ecco che scorgo il campanello della mia bici contorto, piegato, come se qualcuno ci fosse passato sopra con rabbia. Rabbia pura. Sono verde acido, come uno scarabeo che emana raggi radioattivi. E allora ricomincio a imprecare, con gusto e senza pudore. Prima in francese, in omaggio alla grande letteratura russa e alla mia vita parigina (anche Guerra e Pace di Lev Tolstoj si apre con una pagina in francese). Poi in russo, per rispetto agli antenati e alla loro storia gloriosa. E alla fine in italiano, come un’offerta al genius loci. Vivendo a Milano ormai da tre anni, impari per forza quelle “espressioni colorite” con cui comincia il tuo cammino all’ interno di una nuova cultura. Che ne dite, per esempio, di un’espressione come “testa di cazzo”? A me piace: mi ricorda l’Idolo di Zbruč.  Rifletto su come arrivarci: come fare a non mancare il casting e, allo stesso tempo, non fare tardi al mio primo esame. Well, as usual in our profession, everything happens at the last moment. «Corri lì asap!» — urla nella cornetta l’agente dell’agenzia di moda First, dove lavoro come fashion model. E, ovviamente, – tutta questa faccenda con la bicicletta è successa proprio ora — nel momento meno opportuno. Un’altra settimana delle sfilate di moda a Milano: corro di nuovo da un casting all’altro, cercando di conquistare clienti viziati, che ormai, sopraffatti da un eccesso di volti e tipologie, non sanno più cosa vogliono vedere. A volte conviene arrivare in anticipo: non puoi mai prevedere come sarà l’incontro, né quante ragazze ci saranno. Scegliendo il look, mi sono comunque basata sulla conferma di lavoro e ho indossato le mie amate Jimmy Choo. È cosa nota: ai casting guardano prima di tutto la tua catwalk. La mia, a dire il vero, l’ho affinata appena una settimana fa nella mia agenzia.  Andare a piedi non è un’opzione. E nemmeno andare in giro con quella bici sporca — senza campanello, in una città congestionata e invasa da turisti-fanatici della settimana della moda. Si dice che nel mondo della moda non ci sia concorrenza, ma succede eccome: chi prima arriva, meglio alloggia. Scelgo l’unica opzione senza rischi: prendere il tram. Sposto la bici in un altro punto, la blocco e corro verso la fermata, continuando a portare le dita al naso — l’odore di pesce è rimasto o no? E intanto, nella testa, una sola domanda che ritorna come una sirena d’allarme: perché è così difficile per la gente parlarsi? Dire le cose come stanno, chiarirsi, ascoltare le ragioni dell’altro. In Italia la gente ha smesso di ascoltarsi. O forse non ne è mai stata capace? E poi, a che pro? Se nemmeno il tuo migliore amico trova il coraggio di dirti che il vino che porti ogni domenica al nostro ristorantino toscano è economico e cattivo. E la tua migliore amica, per pura cortesia, non ti dirà mai che sì — “un pochino” hai messo su qualche chilo. Questo è il nostro Benny Hill Show quotidiano. E così si vive — in questo minestrone tiepido di cortesia, ipocrisia e mutismo. Preparandomi agli esami, ho messo su due centimetri critici sui fianchi. Due centimetri che oggi possono costarmi il lavoro. E allora… dove sono finiti tutti quei discorsi sul body positivity, sulla bellezza naturale e sulla libertà dagli standard? Non ne abbiamo abbastanza di quelle ragazze adolescenti, emaciate come appena uscite da un campo di concentramento, che sfilano sulle passerelle? Trasparenti come i ravioli giapponesi gyoza, dove, sotto una sfoglia di riso sottile come carta brilla una qualche bio-sostanza — non si capisce se siano ossa, cartilagini o costole. Bugie! La bugia della libertà, la bugia dell’accettazione. La bugia come forma sociale. O forse non è nemmeno più una bugia — è la norma. Perché verità e menzogna sono concetti abbastanza relativi. Ci viviamo dentro. Ci cuociamo dentro. I miei vicini milanesi potrebbero essere onesti. L’agenzia di moda potrebbe essere umana. Il cliente potrebbe dire: «Sei bella, ma il tuo tipo non ci serve». Oppure fare un pre-casting e selezionare modelle davvero adatte al tipo richiesto per il vostro progetto. Ma nessuno dice mai la verità. Tutto passa — attraverso il sorriso. Attraverso la schiena. Attraverso quel pesce marcio nella cesta della mia bici. Oh, lombardi… i miei “cari” lombardi. Come non pensare a Curzio Malaparte. Sì, i lombardi le palle ce le hanno, eccome. E sono le loro, anche se magari ereditate — dagli Sforza o da Berlusconi. E allora? Toccherà farmele crescere anche a me? E che succederà poi? Rimarrò del tutto senza lavoro, oppure le mie possibilità nell’industria della moda si moltiplicheranno? Quando inizi a lavorare con un’agenzia, ci arrivi da ragazzina, e loro diventano la tua famiglia. Te lo dicono così, senza mezzi termini: “Da adesso noi siamo la tua famiglia!”. Ma non siamo un cazzo… La mia famiglia è mia madre. Quella che mi portava dal nostro paesino alla scuola di moda nella città più vicina: Rostov sul Don. Quattro ore di treno locale. Di notte in notte. Dava gli ultimi soldi per quei corsi. Una scuola di moda in Russia che, alla fine, non ti serve a un bel niente e che, per di più costa anche un sacco. Ma che popolare! Eh sì, da noi sanno come fare business. Mia madre, che non dormiva e lavorava in tre posti diversi solo per potermi comprare quel fottuto primo iPhone. Ma perché gliel’ho chiesto? Povera la mia mamma…Quella è la famiglia. L’agenzia, invece, è solo apparenza e menzogna. E alla fine, la tua vera famiglia quasi non la vedi più – sei sempre in volo, in viaggio, in corsa, in un altro continente. Ti affidi alla cura, alla partecipazione, all’onestà dell’agenzia. Ma in realtà ti prendono come un animaletto con una data di scadenza impressa in fronte. Come su uno yogurt greco: da consumarsi preferibilmente entro. Sì, la modella è un prodotto deperibile – proprio come uno yogurt. La modella non è vino, anche se qualcuna lo diventa. Ma sono il cinque per cento, forse meno. E nessuno ti spiega come passare da “modella yogurt” a “modella vino”. Nessuna istruzione. Nessun sostegno. Solo una bella confezione per una caramella dolce. Tutte queste “ragazze vino” – Isabella Rossellini, Jane Birkin, Carla Bruni… loro sembrano nate già in barrique di rovere francese nuovo. E poi… solo poche eccezioni, eccezioni vere che confermano la regola: trovatelle nel mondo del nobilato. Ma anche loro, alla fine, vengono adottate – come Vodianova. E se solo sapeste quanti strati di intonaco si spalmano sul viso per uno shooting… E non parliamo neanche del ritocco. A quanto pare, l’atmosfera di menzogna e di patinatura lascia il segno su chi lavora in questo mondo, tanto che nemmeno nelle cose più semplici della vita quotidiana puoi aspettarti sincerità o franchezza. E allora sorridi in risposta — da dietro il trucco, a tutta dentatura giovane e appena sbiancata — sentendo come quel bel strato si piega già in piccole rughe agli angoli degli occhi. E poi c’è il famoso “Siamo una famiglia”, ooooh! — su questo, potrei tenere conferenze intere. Per esempio, all’accounting della “famiglia”, in realtà, non frega proprio niente di come vivi, con che soldi paghi l’affitto, come ti compri i vestiti o vai in palestra per mantenerti in forma. E anche mangiare sano, tra l’altro, costa. Il tuo stipendio! Guadagnato! Pagato! E come lo incassi? Con il tempo si scopre che il bonifico non deve per forza arrivare ogni venerdì della settimana. E che il modulo per l’esenzione dalla doppia imposizione (non dimentichiamolo — sono una straniera) non è per forza necessario all’inizio dell’anno. In via del tutto eccezionale, l’agenzia può anche effettuare il pagamento lo stesso giorno, se proprio serve per la tua sopravvivenza in terra straniera. Sì! Basta pregare, supplicare! Raccontare nei dettagli come vivi, spiegare la tua miseria, altrimenti non capiscono se davvero la tua situazione è un’emergenza. E se non è così grave: “Forse puoi ancora aspettare?” E qui parliamo di chi riceve il proprio stipendio ogni mese. Certo, non è colpa tua. Sono solo i rischi del mestiere. L’hai scelto tu. Vuoi fare la star? Allora prendi tutto il pacchetto. Prendi tutto, anche le sorprese. Questa è la vita da sogno — quella che ogni ragazzina sogna. Potrei raccontare ancora molti esempi di vita vera. Tipo uno di quei giorni difficili — per esempio, il giorno in cui lo stipendio non arriva nel momento previsto. Chiami l’agenzia e scopri che… si sono sbagliati. Hanno confuso le date e avevano previsto il bonifico per la settimana successiva. Ma com’è possibile, dico io? Ci vai in anticipo, ti metti d’accordo… E poi? Niente. Vabbè, dove non siamo morte prima, non moriamo oggi. Una soluzione si trova sempre. Allora chiami il tuo ex. Milanese doc. Ti fai prestare quei miserabili 100 euro!!! Per sopravvivere una settimana. E lui, al telefono: “Prestare? Solo 100 euro?” Eh sì, se potessi evitarlo, non te li chiederei mai. Essere pure in debito con ‘certi tipi’… quelli che comprano appartamenti in Porta Venezia. Quanti ne hanno già? Bisogna concentrarsi per contarli tutti. Chiedere un prestito a qualcuno che ti dice che incontrarti è già un miracolo. In Russo si dice: “Il sazio non capisce l’affamato.” Parliamo semplicemente due lingue diverse.  “Ma ce li hai con te, no?” — Oh no, no. E sapete perché? Perché deve tornare a casa! Per aprire la sua sacra scatoletta nera con i contanti… neri. Soldi che non vedranno mai l’ombra di un’imposta. E il bancomat? Ma dai. E bisogna dire che questo è un uomo di famiglia, una di quelle vite già sistemate dai bisnonni, per garantire un futuro spensierato a nipoti e pronipoti. Quanto a me — sì, sono una randagia milanese. Di fatto una ragazza che non appartiene a nessun luogo. E la mia unica vera proprietà seria — è la mia “luxury” bicicletta. Che, tra l’altro, amo teneramente. Anche se la mattina ci trovo dentro un pesce morto. Ma si continua a vivere. Prendi un fazzoletto — ti pulisci le dita, come si cancella il mascara sotto gli occhi dopo una sfilata andata storta. Ti rimetti in sella — senza campanello, ma con il cuore che martella furiosamente, come un riflettore pronto a esplodere prima dell’ingresso in scena. Pedali — come un gladiatore sul suo carro, tra i vicoli stretti di Milano, dove ogni balcone sembra una loggia del Colosseo. Spingi la tua giornata come uno scarabeo — una palla appiccicosa di merda quotidiana e d’assurdo, sopra il pavé lucidato da secoli di ipocrisia. Ma non ti arrendi. Perché lo sai: anche la menzogna fa parte della scenografia. Ma tu non sei scenografia. Tu sei la protagonista. Anche se oggi il palcoscenico è la strada. Anche se la tua scenografia è una bici con il campanello rubato. Anche se il tuo monologo è un grido che si trasforma in risata. Attraverserai questo purgatorio. Probabilmente con le gomme sgonfie, ma con l’anima intera. E poi tornerai su una passerella. O davanti a una lavastoviglie in un ristorante toscano. O seduta a una lezione sull’Umanesimo. Ma tutto questo — sei tu. Modella. Migrante. Ragazza con le spine. Scarabeo con la spina dorsale. Italiana per finta. Viva per davvero. E così, ferma alla fermata del tram, con le mani che puzzano ancora di acciughe e umiliazione, all’improvviso capisci: sì, è tutto un circo. Ma se devo recitare, allora lo farò fino in fondo. Resta solo da scegliere che tipo di pagliaccio essere, in questo chapiteau. Quello nero e triste, o quello rosso, follemente allegro. Ma se tutto continuerà così — se la menzogna e la meschinità diventeranno lo sfondo quotidiano, se in questo mondo lucido tutti continueranno a tacere, a sorridere e a rotolare il loro grumo marcio come fosse la norma — io diventerò il Joker. E che allora tutto questo circo borghese milanese applaudisca perplesso dai suoi palchetti di velluto alla Scala. Perché io interpreterò il mio ruolo meglio di chiunque altro. Così bene che nessuno, mai più, oserà infilarmi un pesce morto nel cestino senza riceverne risposta. Buonanotte, lombardi. A domani. Il vostro Joker.

L'autore

Valeria Miro

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