Stanza degli ospiti

Bianco calce

Fino a undici anni ho vissuto in una casa che resterà per sempre nel mio cuore. Il giardino era separato da quello dei vicini da un vecchio muro verniciato a calce. Ho toccato con le mie piccole dita quella superficie antica e usurata credo migliaia di volte, mentre volavo giù per la scala che portava dalla mia nonna.

Se ci penso posso ricordare esattamente la sensazione tattile trasmessa da quel muro, mentre cercavo di saltellare sempre più in alto, con lo scopo di gettare bigliettini di carta piegati e ripiegati dall’altra parte. Il destinatario dei messaggi era sempre un’unica e sola persona, una piccola persona: si trattava di una gracile e riccia bambina della mia stessa età che viveva proprio nella casa accanto.

Il traffico dei biglietti non si fermava mai: c’era a tutte le ore del giorno. Biglietti nel mio giardino, biglietti nel suo. Biglietti nelle piante e per terra e biglietti tutti bagnati d’acqua col detersivo che mia nonna aveva utilizzato  per pulire, tanto che diventavano incomprensibili a causa dell’inchiostro ormai diventato un acquerello.

Che gioia quando scorgevo un bigliettino per terra, ancora non letto! A volte erano addirittura due o tre, se ero stata assente tutta la giornata, ad esempio la domenica, quando andavo al mare con la mia famiglia. Invece che tristezza quando per giorni non c’erano messaggi per me o Lei non rispondeva. Eppure era lì, perché non aveva voglia di giocare con me?

Nella mia mente questo scambio di messaggi è durato anni, nella realtà io credo solo un’estate. Vi chiederete: eravate così vicine, vi separava solo un muro, perché una delle due non ha mai invitato l’altra a giocare? Allora non mi sono mai posto il problema, ma oggi me lo chiedo. Come mai?

Se un giorno qualcosa a scuola era andato storto, Lei lo sapeva. Se ero felice per un bel regalo, era la prima a cui far scrivere della mia gioia, eppure quando capitava un incontro casuale, sulla soglia delle nostre abitazioni, nel mondo “reale”, al di fuori di quel muro costruito da altri ma tenuto in vita da noi, accadeva qualcosa di inspiegabile: imbarazzo, vergogna, timidezza come se non ci fossimo mai parlate, anche se in quei bigliettini erano stati gelosamente riportati i miei più intimi segreti infantili. Il fatto era che avevamo iniziato il nostro rapporto in questo modo e tornare indietro ci sembrava in qualche modo complicato.

È questo ciò che creano probabilmente i muri: imbarazzo e vergogna perché non si è mai avuto il coraggio di guardarsi negli occhi, anche quando si sa benissimo che si potrebbe avere così tanto in comune. Sapete come è finita la storia? Credo di ricordare che un bel giorno si sia creato uno stupido malinteso e che da allora non ci siamo scritte mai più. Perché a volte per chiarire con una persona, con un’amica, serve molto più che affidare i propri pensieri a un biglietto o a un muro. Le parole spesso portano noi essere umani a riempire le parole di vuoto, ad attribuire dei pensieri, delle opinioni agli altri, all’umanità addirittura, e ad allontanarci per sempre, dietro a un muro bianco, dipinto a calce.

L'autore

Serena Guarini