Stanza degli ospiti

Convinzione marziana

Esco dall’ufficio e tu sei lì che cammini con due tizi. È dal maggio di dieci anni fa che non ti vedo. Ti trovo ingrassato, ma i tuoi occhi blu sono quelli di sempre. Non c’è giorno in cui non li abbia visti, in questi dieci anni.

Eravamo alla fotocopiatrice, quella volta. Chi lo sapeva che non ti avrei rivisto? Parlavamo di Sparta, tu di certo non lo ricordi. Ti amavo e lo sapevo. Con grande semplicità e sincerità non te l’ho detto. Ti ho lasciato il mio numero e mai ti ho risposto, nessuna delle volte che mi hai chiamato. Ora eccoti qui, che cammini su questo pontile in un giorno orrendo, con un mare orrendo. Indosso un impermeabile orrendo e spero tu non mi riconosca o che magari un’onda ti spazzi via. Invece mi saluti. Rispondo e scappo via. Tanto a te non interessa, preso come sei a percorrere la tua strada. Che mi fermo a fare?

Vado a mangiare da sola in spiaggia, sotto un cielo pesto. Cerco di non pensare a te. A parte i tuoi occhi che in qualche modo sono rimasti, ci riesco molto bene. Sono con me da tanto tempo, ormai non ci faccio caso.

Torno al lavoro. Una brutta giornata, non combino niente. Costante della mia vita, il non combinare niente. Esco sotto il diluvio e tu sei lì, mi stai aspettando appoggiato alla ringhiera. Non è da te, non eri quello che non aspettava nessuno? La tua promettente carriera non è andata avanti, questo lo so perché ti spio sul web. È stato per via del tuo licenziamento che ho perso le tue tracce, un anno fa. Chissà cosa ti ha portato qui, in questo paesino sul mare che non ha spazio per le tue ambizioni. Non certo io, ho visto che non ti aspettavi di incontrarmi. E allora che ci fai qui davanti a me?
“Ciao, Carlotta.”
“Ciao Gherardo.”

Non abbiamo molto da dirci. Ci siamo fermati a quella conversazione sugli antichi greci. Ho creduto che tu fossi uno spartano, ma non lo eri e non credo tu lo sia diventato. Mi chiedi se voglio prendere un aperitivo con te. Certo, come faccio a dirti no? Ci sediamo in un bar vicino. Continua a piovere e più ti guardo negli occhi più è peggio. Ti domando che ci fai qui. Lavoro. Ti domando perché mi hai aspettato. Ti sono mancata? Non ci credo, ma ci spero.
Se ho pensato a te in questi anni? Non ne ho avuto bisogno, a dire il vero. Ho pensato a tutt’altro, te compreso. Ho perso il tuo numero di telefono, il tuo indirizzo mail, tutto ciò che ti riguardava. Ti ho rimosso, o almeno così mi era parso.

Mi chiedi perché prima ti ho confessato che ti amavo e poi ho smesso di rispondere alle tue telefonate. Volevo che tu smettessi di cercarmi, ma mi ha offeso che tu l’abbia fatto. Ho avuto paura di te quando ho capito che tu sei uno che sa prendere e non mi piace chi prende senza valutare le conseguenze, senza pensare ad altro che a ciò che vuole. Mi hai spaventata perché ho paura degli uomini, perché ho preso troppe botte, per l’impronta di ferro da stiro tatuata sulla mia schiena. Mio padre buonanima (buona insomma, per quanto riguarda l’anima non sono sicura che ne avesse una), quella volta che non gli era piaciuto come gli avevo stirato la camicia. Odiava che fossi brava a scuola, odiava che fossi più intelligente di lui. Il colpo di piastra bollente era una punizione non tanto per la stiratura imperfetta, ma per un nove in greco.

E tu, educato manichino dagli occhi blu, sei diverso nei modi e in tutto. Tu eri perfetto, sei ancora perfetto, ma sei un figlio di Atene coronata di viole. Non perdere tempo con me, che ho vissuto e vivo a Sparta, mia vera unica patria. Tu sei venuto nella vita per vincere, ma uno spartano non combatte mai per vincere, solo per la lotta in se stessa. E io? Io voglio perdere tempo con te? Non hai fatto altro che dirmi che sono in gran forma, ma non mi hai manco chiesto come sto. Che abbiamo quindi da conversare io e te? Che ti amo è evidente, dopo un decennio non ho fatto in tempo a sfiorare il tuo sguardo che l’ho saputo di nuovo. Me lo dici tu, tanto per cambiare. Toh, dopo due lustri atterri da Marte di fianco al mio ufficio e mi parli di sentimenti. Non pensavo ne avessi, anzi ero sicura che non fosse mercanzia per la tua bancarella di vincente. Io non vincerò mai niente e il mondo si spegne davanti ai miei occhi.

Mi inviti a cena. Dovrei tirarti il drink in faccia o in alternativa buttarti a mare. Hai fatto la tua vita e io dovrei riprenderti indietro ora che hai la pancia? Dovrei saltarti al collo perché per un caso ci siamo incrociati e tu hai scoperto una passione che non rammentavi di avere, smemorato arrivista? Mah, l’eterno amore degli uomini, che di esso si ricordano nel tempo libero e a momenti alterni. Per il resto mi avevi dimenticata e mi dimenticherai. Tu sei un uomo freddo, non mi colpirai mai con una piastra incandescente ma troverai un modo per congelare il mio spirito, ne sono conscia. La sagoma del ferro da stiro mi consiglia di soprassedere, ma per fortuna è sulla schiena e non vedo il suo disappunto.

Sai che faccio? Accetto l’invito. Un motivo ce l’ho, discende da una mia profonda convinzione marziana: È proprio quando tutto ti dice che devi smettere il momento migliore per continuare. Tu sorridi e io sento già freddo.

L'autore

Clementina Coppini

Laureata in lettere classiche dai tempi di Sofocle, ho dimenticato pressoché tutto quello che sapevo e in più non ho molto da dire su me stessa. Scrivo per il Giornale di Brescia, mondointasca.org, Il Cittadino di Monza. Traduco libri per bambini per il Battello a Vapore. Ho pubblicato un paio di romanzi, anzi tre, ma non li ha letti quasi nessuno. Per me è un grande onore scrivere su El-ghibli, che mi ha dato la soddisfazione di veder pubblicati i miei racconti ma soprattutto le mie poesie. Nessuno aveva mai fatto questo per me prima. Grazie.