Interviste

Intervista. Davide Bregola

IL BRUSIO GENERALE DEL MONDO

Intervista di DAVIDE BREGOLA, in Da qui verso casa, a cura di Davide Bregola, Edizioni interculturali, Roma, 2002)

1- Subito una curiosità sui racconti che compongono il libro “Racconti
italiani” pubblicato nel 2001 da Besa. Che origini hanno tutti questi
personaggi che popolano i luoghi fisici e mentali? Da dove provengono
tutti quei dialoghi che paiono recepiti da un brusio generale del mondo?
Tu dici che in modo molto elusivo, nelle storie ambientate in un futuro
remoto come in quelle del passato, ad es. nel racconto “Un mare così
ampio” con Magellano, c’è anche un poco di te. In che senso?

“Il brusio generale del mondo” potrebbe essere anche un bel titolo per un racconto, non trovi? Un titolo sullo stile di “Il materiale scenico del ricordo”…
Allora, la prima domanda che mi fai entra subito nel “cuore della materia”: il processo creativo nell’inconscio dello scrittore. Quel “brusio”, che compare in tutta la mia opera in modo sfuggente e frammentario, fuoriesce da un territorio interno nel quale vivono questi fantasmi – “fantasmi” nel senso classico ma anche nel senso freudiano del termine. È una sorta di purgatorio di anime in pena – o in estasi – che sono state “catturate” dai sensi dello scrittore durante anni di osservazione quotidiana, e catturate non solo dalla cosiddetta “vita reale” ma anche dalle immagini del cinema e della TV, e dai libri che ho letto. Compongono esse la mia personale “fenomenologia dello spirito”. E la narrativa è da sempre, dai tempi delle favole raccontate oralmente attorno al fuoco, il modo più preciso ed efficace di esprimerla, di farla vivere negli spiriti degli altri.
C’è un racconto molto bello di uno scrittore colombiano, Luis Fayad, “Rumori invano”, nel quale si parla di un luogo dove abitano i rumori smarriti che nessuno vuole più, rumori avanzati che, giunto il loro momento, non erano arrivati a nessuno ed erano rimasti a vagare nella regione dei rumori persi. Li descrive lui: “una radio che qualcuno per dimenticanza aveva lasciato accesa, la caduta di un bicchiere o di qualche altro oggetto di cristallo mal posto, che forse un terremoto aveva gettato per terra, una scala di legno che di notte restituiva i passi del giorno, il suono di un telefono in un ufficio vuoto, il cigolio del cardine di una porta che sicuramente era stata mossa dal vento, la caduta di una trave in una casa in rovine e, tra i rumori, riconobbe anche un trillo in una gabbia e voci che erano rimaste senza destinatario”. Ebbene, il brusio al quale tu ti riferisci e dal quale “Racconti italiani” è impregnato, proviene da uno spazio “virtuale” simile a quello.
Poi tu hai menzionato il racconto che ricostruisce un giorno della vita di Ferdinando Magellano, intitolato “Un mare così ampio”. Riporta un dialogo fittizio, ma non improbabile, che lui avrebbe avuto con il suo astronomo di bordo, Ruy Faleiro, proprio nella notte in cui avrebbe dovuto attraversare il confine tra il Portogallo e la Spagna e mettersi al servizio dei re, Fernando e Isabel, per poter finalmente compiere quello che lui era convinto fosse il suo destino: circumnavigare il globo terrestre. Confessa quindi a Faleiro le proprie perplessità nel dover abbandonare il suo paese in modo tale da portare a compimento un destino che la patria non era disposta a offrirgli, per non fare cioè abortire il suo fado non ancora trasformato in vita. Beh, su questo ne so qualcosa anch’io… Per questo ho accennato ad una ipotesi di lettura “autobiografica”, tra tante altre. Una sorta di metafora autobiografica estesa (come forse sono, dopotutto, la maggior parte dei testi letterari, non è vero?). Ma è ovvio che “Un mare così ampio” non è un racconto autobiografico. Sono personaggi storici della nostra eredità lusitana. Ma ci sono anche, certo, delle coincidenze nella logica che determina il percorso del personaggio e di chi lo ha creato. Alla fine del suo lungo e commovente monologo, il mio Magellano dice all’amico: “E se è vero che ho lasciato me stesso dietro di me, questo non mi spaventa, perché so che il mondo è una sfera, e perciò è proprio allontanandomi dal punto di partenza che potrò fare il giro completo che va da me a me stesso.”
È questo il giro che provo a fare anch’io…

2- Hai detto che racconti del libro formano un testo della narrativa
brasiliana, anche se sono stati scritti in italiano. Qual è il senso di
quest’affermazione? Io, da europeo, ho notato che durante la lettura
avevo degli straniamenti dovuti a punti di vista inediti per me,
fortemente occidentalizzato dall’educazione impartitami a scuola e in
famiglia; un particolare che mi ha impressionato: l’uso del “cuore” come
metafora o allusione, comune al tuo racconto “Resoconto” e al racconto
di un’altra brasiliana, Christiana de Caldas Brito, con il racconto “Tum
tum, tum tum”. C’è una ragione per questa scelta di tematiche o sono
casualità?

Qualunque testo letterario scritto da un autore  impregnato di una certa e forte tradizione, come quella brasiliana, porterà dei segni stilistici, tecnici, tematici e di genere originari di quella tradizione. Ed io non sfuggo a questa regola. Per esempio, c’è nei miei libri, anche in quelli italiani, la presenza costante di dialoghi senza alcun commento del narratore, solo battute e niente più. Questo fenomeno, così raro nella narrativa italiana – qualcosa del genere è stata realizzata da Giorgio Manganelli in passato, e oggigiorno è presente in alcuni racconti dei giovani “cannibali” – è invece presente abbondantemente in Brasile, in autori come Rubem Fonseca, Dalton Trevisan e Wander Piroli, ma soprattutto negli Stati Uniti, da Hemingway in poi, ed è la base del prestigio di scrittori come Bukowski, David Mamet, Raymond Carver, John Cheever e Sam Sheppard. Allora, questo è un esempio di un “rumore” del Nuovo Mondo in “Racconti italiani”, un libro europeo e brasiliano, ma soprattutto un libro ibrido e “mulatto”, l’effetto di un mondo sempre più mescolato e indistinto culturalmente.
Credo, appunto, che gran parte della bellezza del libro venga da quelli stessi  straniamenti che hai menzionato. La sensazione di stare dinanzi a dei temi familiari, ma distorti, alterati, dallo sguardo alieno, dallo sguardo che viene da un altro mondo. È lo stesso senso di straniamento presente nel fantastico, in certi racconti dell’ orrore come quelli di Hoffmann o nel “L’Horla” di Maupassant, lo unheimlich, il non-riconoscibile, che è presente, ma invisibile, dentro ogni oggetto o ambiente familiare. Anche questo è un effetto “brasiliano” nella scrittura di quei racconti.
Già dal punto di vista tematico, c’è una sensualità muscolosa, pesante, nei personaggi, ma anche nel narratore, una carnalità, una prevalenza dell’istinto, che si è persa in Europa dai tempi di Rabelais e di Boccaccio.
E più di ogni altra cosa c’è una tristezza immensa. Infatti, uno dei commenti più frequenti che mi fanno su “Racconti italiani” è proprio questo: “Com’è amaro questo libro!”. Ma anche questo – per quanto possa sembrare incredibile – è un effetto brasiliano. Perché il Brasile, al contrario degli stereotipi, è, insieme al Portogallo che lo ha creato, il luogo più triste del mondo. La musica brasiliana è tristissima, piena di melodie malinconiche, piena di pathos e di saudade. Ascolta Orfeu no Carnaval, di Vinícius e Baden Powell, o le canzoni di Dolores Duran, di Raimundo Fagner, o di Chico Buarque, quando parla attraverso la voce di una donna in prima persona… Tutta la Bossa Nova degli anni ’50 e ’60 è impregnata di una certa pace malinconica e riflessiva… E anche oggi, prova ad ascoltare la banda sonora di un film come “Central do Brasil”… Diceva Oliveira Vianna che il brasiliano è il risultato sconsolante dell’unione di tre razze tristi: il negro portato come schiavo dall’Africa, l’indio violentato e decimato e il bianco esiliato dalla sua Europa dal clima così mite nei tropici roventi. Siamo discendenti dei portoghesi che hanno perso il loro giovane re – Dom Sebastião – e la loro gloria per sempre, e ora, al Sud del mondo, dove il peccato non si deve più nascondere, hanno perso anche loro stessi. Perciò, il senso di desolazione presente in questo libro è anch’esso una componente di brasilianità.

3- Ad ogni autore chiedo una domanda “tecnica” sulla scrittura. Con te
vorrei parlare della “revisione” di un romanzo o racconto. Non vorrei
sapere cos’è o come si ottiene in generale, ma come fai tu la revisione
dei tuoi scritti; rileggi, riscrivi, chiedi pareri…o c’è dell’altro?

È curioso. Tanti scrittori che conosco ci tengono a dire che scrivono e riscrivono una dozzina di volte ogni loro testo. Io ne dubito, francamente, a meno che non si tratti di autori che hanno fatto, dell’operazione di riscrittura, il loro punto di forza, la loro specifica ricerca stilistica, come il già citato Manganelli, o la Duras, Gadda o Guimarães Rosa. Secondo me, nella maggior parte dei casi, quest’affermazione è solo un modo di aggiungere più “sacralità” al risultato della loro scrittura. Comunque, io non mi includo tra questi. Il processo più duro, più travagliato, ma anche il più piacevole, del lavoro, lo faccio prima e durante la stesura della bozza del testo. È il momento della creazione, della materializzazione di una atmosfera diffusa, una “nebbia” piena di personaggi fantomatici, di spazi immaginari e di espressioni soffiate nell’etere, come una sorta di brezza linguistica, di “soffio” del verbo. È un momento di grande eccitazione ed entusiasmo. Cortázar ha scritto un ottimo testo che parla su questo momento, e che ho pubblicato sul numero uno della Rivista Sagarana, chiamato “Il racconto breve e i suoi dintorni”.
Poi, lascio il testo “riposare” per qualche giorno, o per qualche settimana, e nel momento in cui ho una mezza giornata libera riprendo quelle bozze – fino a lì scritte a penna o matita su fogli sciolti di carta – e le digito al computer, facendo le modifiche necessarie, e, a volte, aggiungendo una frase o un intero paragrafo. Allora il testo è pronto. Lo mostro ad un amico, ad un altro scrittore, per conoscere la sua opinione, i suoi suggerimenti, e dopo questa fase è molto raro che faccia ulteriori cambiamenti. Un’eccezione importante a ciò è data dal racconto “Le due città”: cinque anni dopo averlo finito, l’ho riscritto interamente seguendo un nuovo punto di vista narrativo e passando addirittura dalla terza alla prima persona. A narrare è un soldato ancora preadolescente che ha presenziato a tutta la tragedia dei Taboriti boemi e, già anziano, la ricorda e la racconta ai bambini attorno a lui (come ho visto fare tutte le domeniche nel Peace Memorial Park, costruito nel luogo esatto in cui è esplosa la bomba, dagli anziani sopravvissuti alla catastrofe di Hiroshima, gli hibakusha).
Allora, per ciò che riguarda la questione della revisione, vorrei esprimere una mia preoccupazione: ho notato una pericolosa tendenza negli studiosi della cosiddetta “letteratura della migrazione” perché tendono a sopravvalutare l’importanza di queste revisioni. Secondo me, sottolineare tale aspetto può essere un modo – forse incoscio – per accennare ad una presunta autonomia impossibile di questi autori non-europei in una cultura europea. Il fatto è che l’autonomia è assoluta. Nel mio caso, quando finisco un racconto, una poesia o un brano di un romanzo, chiedo ad un amico fidato di leggerli insieme a me e di darmi alcuni suggerimenti. Ma questo l’ho sempre fatto, anche quando scrivevo in Portoghese. Da questo punto di vista, non c’è alcuna differenza significativa tra il tipo di revisione che faccio oggi e quella che facevo dieci anni fa.
Inoltre, gli autori di madrelingua italiana non hanno anche loro un revisore, a volte offerto dalla loro casa editrice? E questo revisore, talvolta un vero editor, non propone anche lui delle correzioni e delle modifiche? E quando l’opera è pubblicata, nessuno si ricorda di porre domande sulla revisione del loro libro… Allora, perché con noi dovrebbe essere diverso? Non occorre e non è onesto trasmettere la falsa impressione che gli scrittori che hanno avuto una madrelingua diversa dall’Italiano non possano muoversi in questa lingua senza le stampelle di un revisore italiano nato per garantire loro il “nulla osta”. Camminano sì, e spesso corrono molto veloci. L’opera dello scrittore è l’opera che lui presenta alla critica e al pubblico nel libro stampato. I procedimenti tecnici e i provvedimenti di natura editoriale che ha impiegato per raggiungere il risultato a cui è arrivato non sono importanti, a meno che un ricercatore non  studi proprio questo, e allora dovrebbe studiarlo nell’opera di tutti gli scrittori, di madrelingua o no, studiare a fondo le varianti che vanno dal primo abbozzo fino all’opera pubblicata. Ma per la critica in generale, per quelli che sono interessati alla letteratura e non alle metodologie editoriali, questi arzigogoli non devono interessare.

4- Quando hai una storia scritta, diciamo, in una prima stesura, come
fai per migliorarla e per eliminare le imperfezioni valorizzando i punti
di forza?

R- Credo di aver già risposto, almeno parzialmente, a questa domanda. Comunque vorrei aggiungere che, dopo aver pubblicato diversi romanzi – a cui si aggiunge un inedito, “L’ultima pelle”, iniziato in Brasile e finito in Italia – ho scelto il racconto breve come genere e questo per l’interesse che nutro nei confronti della massima essenzialità narrativa ( senza considerare che questo genere si addice di più ai miei umori, e a mio parere, anche ai ritmi della vita contemporanea…). Cerco così di identificare, molte volte intuitivamente, il centro, il nocciolo tematico della storia, e di concentrarmi sulla sua trasposizione senza deviazioni o ornamenti non indispensabili. Credo che questa procedura – “anti-barocca” e minimalista – sia propria della mia generazione letteraria: dalla storia rimane alla fine una sintesi espressiva di forte impatto, una emozione pura e chiara, anche se a volte inedita per il lettore, mai sentita o conosciuta prima. È come un lampo, che per un attimo rivela un angolo insospettato, totalmente nuovo, della cosa che credevamo di conoscere bene. Un racconto come “Desperada” presenta un angolo inedito sul rapporto di una coppia, per esempio. La scoperta che ne deriva rimane nella coscienza del lettore, la arricchisce e ne aggiunge ambiguità e complessità. Un altro esempio, in un racconto come “Bacio” la narrativa si concentra tutta in una frase lasciata nella segreteria telefonica da un personaggio già morto. Oppure, in un racconto come “In naturalibus” la sintesi stessa del racconto sta nell’idea della silenziosa nudità della donna amata. Il racconto è spoglio tanto quanto lei è spoglia, quella donna, nuda e senza nome.

5- Tu, oltre ad insegnare lingua portoghese e letteratura brasiliana,
hai anche una scuola di scrittura. Considera che queste domande saranno
lette da aspiranti scrittori di storie e da lettori che magari
vorrebbero capire meglio i meccanismi di ciò che apprezzano nei libri.
Cosa si consiglia, ad un corso, a chi è fortemente attaccato
all’intuizione che lo ha spinto a mettersi al lavoro e si scoraggia di
fronte all’idea che dopo tanto tempo passato a scrivere, lo scritto non
è ancora finito?

Lo scritto non finisce mai. E questo è un privilegio e una fortuna, non un problema. Scrivere non è una cosa che si fa, ma una cosa che si è. E come tutte le cose che si è, si è nel flusso, nella durata di ogni fase, di ogni esperienza, nel continuo divenire, nella metamorfosi di sé e di tutto. Lo scritto non potrà mai finire, non è un prodotto, è una manifestazione, un’epifania. È generoso, bello e incessante come le cascate.
Considerare la scrittura come un prodotto è senz’altro avvilirla, sminuirla, svuotarla di dignità. E questo è un equivoco purtroppo ancora presente tra molti scrittori italiani di oggi, impregnati – forse inconsapevolmente – di una certa logica di mercato, preoccupati con contratti, con l’ “etichetta” della casa editrice che la pubblicherà, con apparizioni in tv in seconda serata – ammesso che ci sia un indice di audience che ripaghi lo sforzo – , con accordi taciti con i colleghi per scambiare lodi reciproche sui giornali, sulla radio… È una grottesca inversione di priorità, e uno sforzo inutile e patetico di trattare la letteratura come si trattasse di cioccolatini o di jeans. La scrittura è molto più di questo, è una missione, un’illuminazione, una coscienza superiore che una cultura evoluta è in grado di produrre, un suo “cristallo”. Uno scrittore che la tratta come un prodotto dovrebbe vergognarsi. Causa dei danni alla letteratura, occupa uno spazio che non è suo, è un usurpatore; e ironicamente, in fondo, – se ha davvero dei meriti letterari –, causa anche danni a se stesso perché si presenta ridicolo, fa scendere una tenda volgare di pubblicità di fronte a sé, dietro la quale nasconde – e non esibisce, come crede – il contenuto della propria opera.

6- Leggendo varie storie della letteratura ho notato che molti scrittori
hanno diretto o fondato riviste letterarie. Tu stesso non sei immune dal
piacevole vizio di fondare riviste. La tua Sagarana, bella rivista
on-line, ospita saggi, racconti, poesie, interventi di varie
arti…Torna utile alla propria scrittura impegnarsi in una rivista?

Ciò che fa sì che tanti dei più bravi scrittori creino riviste letterarie è un traboccante, incontenibile, amore per la letteratura. Non solo per la propria letteratura, ma per tutta, anche per quella degli altri, morti o ancora vivi, vicini o lontani, famosi o sconosciuti, affermati o esordienti. Una rivista è innanzi tutto un atto d’amore.
Ma una rivista è anche il più importante laboratorio di cui la letteratura dispone per sperimentare nuove tecniche, stili, tematiche, per presentare nuovi autori, per riportare a galla bei testi che per ragioni diverse sono stati dimenticati, per confrontare opinioni diverse e offrire argomenti conflittuali sui temi più svariati.
Non credo che ci sia un rapporto diretto, un nesso causale, tra la creazione di una rivista e lo sviluppo della scrittura personale dello scrittore che l’ha creata. Sono cose diverse, che vanno in parallelo. Ciò che credo è che il vero scrittore viva la sua arte ventiquattro ore al giorno, a 360 gradi, ed è normale dunque che voglia anche creare un ampio panello delle sue passioni, un’oasi d’intelligenza attorno a sé, condivisibile da altri.

7- Prima di scrivere in italiano hai pubblicato e avevi un editore in
Brasile, lettori autoctoni, quando sei passato a scrivere direttamente
in italiano quali difficoltà o vantaggi hai trovato? Soprattutto, perché
scrivere in una lingua così poco diffusa? Non sarebbe stato più utile
comunicare in inglese? (Questa domanda è provocatoria nell’ultima parte,
considerala alla luce del pensiero del Prof. Gnisci a riguardo.)

Cominciamo dall’ultima parte della domanda. Nel periodo in cui ho vissuto e insegnato negli Stati Uniti, scrivevo in lingua inglese: ho scritto allora un romanzo che si intitolava “The American Nostrils”. Perché quella era la lingua del mio essere, in quel luogo e in quel tempo. Ma su questo concetto tornerò più avanti.
La lingua inglese non è una lingua barbara e cacofonica come affermano alcuni. È una bellissima lingua quando impiegata da un John Donne, da uno Shakespeare, da un Walt Whitman o da un T.S. Eliot. Una lingua che non fa brutta figura quando in confronto con altre di più lunga e profonda tradizione letteraria, come, appunto, l’Italiano, o il Cinese. Ciò che ovviamente l’Inglese non può essere, non può diventare, è l’unica lingua mondiale, l’unica lingua di prima categoria, limitando le altre alla 2° classe, come il Francese, alla 3°, come il Polacco, alla 4° o 5°, come certi  dialetti  o il “creolo” delle isole dell’Atlantico o del Caraibi. È impensabile e ridicola una gerarchia tra le lingue del mondo. E non sarebbe nemmeno giusto nei confronti dell’Inglese che esso esigesse da se stesso – una lingua anch’essa in processo di emergenza e di consolidamento per quanto riguarda diverse delle sue varianti espressive – un ruolo che andrebbe di gran lunga oltre le sue possibilità. E invece ci sono quelli, purtroppo sempre più numerosi, soprattutto nell’ambiente accademico che conta, che confondono potere militare, e sviluppo economico e tecnologico con potenziale di imposizione linguistica. Dicono addirittura che l’egemonia della lingua inglese “va da sé”, trascinata dagli affari e dalla tecnologia informatica. È una tentazione ingenua, secondo me, e una mancanza di comprensione dell’attuale stato delle cose nel mondo, voler che l’Inglese faccia la stessa “carriera” del Latino durante l’espansione del Impero Romano. Il mondo di oggi non è quello dell’Impero Romano, e abbiamo molteplici culture e stili di vita sempre più consapevoli delle loro tradizioni e delle loro scelte, e sempre più insofferenti con “the American Way”. Non solo nelle immensità, nelle moltitudine fuori dell’Occidente, ma dentro il proprio Occidente: i cosiddetti “popoli di Seattle” sono un fenomeno prevalentemente occidentale, e sappiamo tutti che il McDonald’s non è il loro luogo di svago favorito… (e saranno questi formati dentro, o con simpatia ideologica per il movimento di “Seattle” o “no-global”, che fra pochi decenni formeranno la parte più consistente e dinamica della “massa critica” mondiale, i veri formatori di opinione qualificata del futuro). Per tutto ciò, mi sembra ridicolo che un critico tanto celebrato – anche in Itália (!) – come Harold Bloom, nella scelta degli autori che dovrebbero formare Il canone occidentale, abbia praticamente incluso per metà scrittori di língua inglese e per la restante metà scrittori di tutte le altre lingue, con inclusioni di poco significato ed esclusioni francamente scandalose. È incredibile che lui, ubriaco di anglosassone onnipotenza, non abbia capito che quella lista rappresentava più le sue stesse deficienze di letture plurilinguistiche che una selezione meditata e equilibrata, come invece ci aspetteremmo da una tale “eminenza”.
Facciamo un paragone tra aree diverse: così come la riduzione del regno animale all’esclusiva presenza dei felini, con tigri al posto di lupi e gatti arrampicati nei pollai avrebbe ridotto e impoverito oltre misura la “biodiversità”, ed è un’idea quasi comica, grottesca addirittura, allo stesso modo immaginare che i pescatori dell’Algarve, gli yanomami , i monaci tibetani e la conciérge di Lausanne finiranno per parlare solo Inglese mi sembra di un ridicolo degno di una satira di Dario Fo o di un racconto del più delirante realismo fantastico sudamericano.
Il mondo come entità culturale, un fenomeno nuovo e di importanza epocale e secondo me irreversibile – il rovescio della moneta della globalizzazione economica – non sarebbe disposto a commettere un “suicidio linguistico” in favore della lingua di Bill Gates e della Disney. Se non altro, perché bisogna ricordare che una lingua non è soltanto un insieme di regole grammaticali, sintattiche ed un lessico particolare. Una lingua è il risultato di una cultura, un “epifenomeno” dell’esperienza di un gruppo umano sul pianeta lungo i secoli, ossia, il risultato di un delicato processo di interazione spirito/mondo, una sintonia fine con tutte le sfumature della realtà quotidiana e con l’inconscio collettivo. Come si fa a falsificare un processo del genere e ad imporre manu militare la lingua dei cowboys dappertutto? Non dobbiamo preoccuparci di questa falsa possibilità. Dobbiamo solo continuare ad immergerci nella bellezza delle lingue del mondo, e nella saggezza della nostra propria – qualunque essa sia. L’omologazione universale degli idiomi non è altro che un’anti-utopia, una “cacotopia” della postmodernità, così come l’invasione degli alieni in dischi volanti era stata una “cacotopia” della modernità.
Ora, rispondo alla prima parte della sua domanda, sulla casa editrice e sul fatto di scrivere in Italiano.
Negli anni ’70, quando sono usciti i miei primi libri, ho pubblicato con le più importanti case editrici del Brasile, come la Civilização Brasileira, l’Atica e quella dell’O Pasquim, la Codecri. Poi, ritornando dagli Stati Uniti, ho creato la mia propria casa editrice, l’Anima, che dall ’83 all ’88 è stata quella che ha pubblicato un maggiore número di autori inediti brasiliani di valore e tradotto narratori stranieri ancora sconosciuti nel paese. La grande crisi economica che ha seguito il crollo del Plano Cruzado, un piano di stabilizzazione della moneta, mi ha forzato a chiudere la ditta perquanto si fosse trattato di un’esperienza di successo. Sono cose del mio vecchio continente, difficilmente comprensibili in questa serena e guardinga Europa del Trattato di Scenghen. Ebbene, quel processo di esclusione e impossibilità di ogni genere è culminato nel mio esilio in Italia. Sì, perché per uno scrittore la migrazione, anche se voluta, è sempre uno esilio. La tensione amore/odio tra gli scrittori e le loro società non di rado provoca questi fenomeni estremi: una celebrazione smisurata della loro immagine (non sempre accompagnata da un vero interesse per la loro opera) e nell’altro estremo, un’incompatibilità che finisce in ostilità aperta, ostracismo, liste nere, persecuzioni, diffusione di un’etichetta di persona non grata, impedimento di lavorare e di pubblicare, e finalmente l’espulsione via esilio non-dichiarato. È proprio ciò che è successo con me dal 1988 fino al mio arrivo, prima a Lisbona e poi a Roma, nel 1994.
Allora, se tu mi domandi se oggi l’Italiano è la mia seconda lingua, io ti risponderò quello che per me è l’ovvio: che l’Italiano è invece la mia prima lingua. Perché prima lingua è quella in cui lo scrittore scrive, ma non solo, in cui l’uomo che fa il mestiere di scrittore sogna, si arrabbia, dice una parolaccia quando inceppa in un sasso, balbetta per se stesso parole “innamorate” che avrebbe detto a certe donne amate proprio in quella lingua. È la lingua dei loro figli, che diventano i loro maestri. Così, a mio parere, la prima lingua non è la lingua della nascita, ma la lingua della vita, la lingua dell’unico tempo visibile e palpabile: il tempo presente, l’unico punto accessibile del flusso della vita. La lingua dei ricordi non può essere più la prima lingua, così come non lo sarà la lingua dei progetti, dei piani del futuro, progetti di spostamenti. Dunque, niente è più naturale per me che scrivere in Italiano. Scrivo nella mia lingua. Punto e basta.
Potrei aggiungere soltanto che il rapporto di uno scrittore con una lingua imparata nell’età matura non è, come potrebbe sembrare di primo acchito, un rapporto precario, mancato, parziale. È un rapporto completo, intenso, innamorato, con una fame di conoscenza di nuove parole, di modi di dire, di concetti non esprimibili in altre lingue che conosca, di sonorità squisite, che molto difficilmente si potrebbe trovare allo stesso livello in scrittori che l’hanno come madrelingua. È un fenomeno ancora poco studiato e poco conosciuto. Ma perché credi che il più bello stile di narrativa inglese dell’Ottocento sia quello dei romanzi di Conrad? Perché Conrad non era inglese, ma polacco, e ha imparato l’Inglese già adulto. La nuova lingua è un amore dell’età matura, in secondo e terzo matrimonio, quello che dovrà funzionare, quello in cui si ama tutto dell’altro, e in cui si ama nonostante tutto, e in cui si ama il vero e non concetti presi dall’ambiente circostante, dalle apparenze, come succede spesso nella gioventù. Un amore rinforzato da una precisa misura del tempo: quello già passato, vissuto nella lingua d’origine, e quello che ci rimane – non molto, purtroppo – da vivere nella lingua appena conquistata.

8- Al seminario italiano di scrittori migranti, il 27 luglio 2001 avete
discusso se “creare o no un movimento di scrittori migranti”. Può essere
una strategia utile creare un movimento per far sentire più forte la
propria voce, la propria presenza? Oppure resistono ancora i singoli
artigiani della scrittura che potrebbero semplicemente incontrarsi senza
fare “ciurma” o creare fenomeni utili solo a giornali e recensori di
fenomeni?

Nel Seminario della Sagarana questo tema del “movimento”, che era stato programmato inizialmente, non è stato nemmeno discusso, per mancanza di interesse generale nei confronti di questo argomento. Ad esso si sono sostituiti altri temi più stimolanti e reali – come quello della traduzione e del editing, della mondializzazione della cultura, degli “esuli artisti” , nonché dei rapporti con i paesi d’origine e il rispettivo ambiente letterario.
La mia opinione personale sull’argomento è che il periodo dei “movimenti”, nel senso in cui lo  hai menzionato, è già passato da molto. È stato un fenomeno della cultura occidentale della metà del Novecento, quando tutti gli schieramenti ideologici credevano di poter fare delle macrorivoluzioni e di cambiare gli uomini dall’alto verso il basso. Noi, uomini di un nuovo secolo, non abbiamo più quest’illusione. Nel caso specifico dei cosiddetti “scrittori migranti”, non vedo nessuna prospettiva in questo senso. Ognuno ha la sua realtà, il suo impegno personale e un’opera letteraria originale e autonoma, che non ammette la gabbia degli “ismi”. Qualcuno vuole considerare questo insieme di opere un’avanguardia – l’unica avanguardia del presente letterario italiano – , ma anche questo concetto è difficilmente applicabile al nostro contesto storico.
Non è detto però che, via via che questi seminari si ripetono e crescono, la massa critica accumulata e la crescente auto-consapevollezza di tali autori non creino qualcosa di simile a un movimento spontaneo, una sorta di identità con un proposito, che insomma è l’essenza del concetto di movimento. I seminari della Sagarana, comunque, sono molto importanti per fare, ogni anno, il punto della situazione, per individuare le preoccupazioni comuni e le loro possibili soluzioni.

9- Durante la nostra chiacchierata telefonica mi hai accennato
all’evoluzione della scrittura migrante; dai primi anni ’90, in cui
autori raccontavano di se e firmavano libri a 4 mani con giornalisti
italiani, si è passati a vedere pubblicati libri da autori singoli,
stranieri, consapevoli della loro scrittura. Al telefono ponevi
un’ulteriore separazione tra scrittori autobiografici e quasi
documentaristici, e scrittori “ventriloquizzati” con un universo
narrativo e semantico più complesso. Puoi spiegarmi meglio questa
differenza? La diversità delle intenzioni?Vedendo il progredire di
pubblicazioni e qualità di scrittura cosa pensi possa riservare il
futuro per la lingua italiana vivacizzata da stranieri?

Questa possibilità di separazione in categorie è una questione molto controversa e anche molto delicata. Si tratta di riconoscere le differenze interne, i punti di convergenza e di distinzione all’interno della letteratura scritta in Italia da non-italiani di origine. Anche le etichette sono diverse: letteratura della migrazione, letteratura degli immigrati, di ibridazione, della creolizzazione, transculturale, eccetera. Ogni gruppo accademico che la studia ha deciso di battezzarla in un modo diverso.
Dico che si tratta di una questione delicata perché la conoscenza di queste distinzioni e categorie, che dovrebbe avere un proposito strettamente didattico e conoscitivo, potrebbe essere manipolata ideologicamente, creando false divisioni, ciò che evidentemente causerebbe danni al proprio processo conoscitivo.
Il Professor Armando Gnisci, della Università La Sapienza di Roma, grande esperto in Italia su questo argomento, crede che il fatto più importante da considerare sia che tutti questi scrittori scrivono attualmente in lingua italiana e quindi si inseriscono nell’ancestrale tradizione di questa letteratura, come una sua odierna avanguardia. È una visione che rispetto e condivido. Vorrei proporre, tuttavia, un ragionamento da una prospettiva diversa, che non si contrappone ma si aggiunge e rende più ricco e complesso l’altro punto di vista. E cioè che dobbiamo prendere in considerazione un’ulteriore distinzione. Da un lato esistono  migranti che hanno deciso di far ricorso alla parola scritta, a volte con l’ausilio di un giornalista italiano che fa di “garante” delle loro opere, ma fa anche l’editing (spesso un appiattimento linguistico, delle loro testimonianze scritte ma anche orali), per denunciare la loro condizione o semplicemente per raccontare la loro vita nella nuova terra. Questi sono libri quasi sempre autobiografici, o biografie romanzate, scritte in prima persona, in uno stile realista, documentario, e che narrano eventi lasciando ampio spazio agli sfondi sociali ed ai contrasti culturali. Molti di questi hanno scritto un unico libro e poi sono scomparsi, non solo come scrittori, ma anche  – come ci ha rivelato Gnisci – come individui: non si riesce più a trovarli da nessuna parte. Bisogna dire a questo punto che tale fenomeno era più frequente dieci anni fa, quando sono comparsi i primi testi scritti dai migranti in Italia, che non oggi, esistendo già una crescita, se non una prevalenza, di testi propriamente letterari, creati dall’immaginazione degli autori, con personaggi diversi da loro stessi.
Ebbene, d’altro lato un fenomeno molto diverso da questo (tanto come origine quanto per ciò che riguarda i suoi risultati letterari), è quello degli scrittori di mestiere – quelli che, diciamo, hanno adottato come “patria” soggettiva la letteratura stessa – e che non avendo trovato un audience soddisfacente e interessato alla loro scrittura, per le più diverse ragioni, o perché sono stati condannati a una qualche “lista nera”, come ho descritto sopra, decidono di cambiare paese, lingua, e di rifarsi una carriera letteraria altrove. In questi casi non è la migrazione che porta loro alla letteratura, bensì la letteratura che li conduce alla migrazione.
A volte operano questo cambiamento addirittura più di una volta, com’è successo, per esempio, a Ondaatje o a me stesso. In simili casi la nuova lingua di espressione scelta non costituisce l’elemento determinante. È il fatto stesso della migrazione che è più rilevante, se non dal punto di vista dello studioso italiano, almeno da quello della letteratura mondiale. Infatti, la scelta della lingua – o delle lingue – avrebbe nel caso un carattere in un certo senso strumentale, o almeno, sicuramente, non sarebbe quello fondamentale per la comprensione del fenomeno e per l’apprezzamento critico della loro opera. (Ciò non vuol dire però che lo scrittore migrante non si innamori profondamente della lingua scelta e non sviluppi una sensibilità alle sue sfumature magari ancora più forte di quella degli scrittori di madrelingua, come abbiamo già visto).
Quest’altro fenomeno, di natura radicalmente diversa da quello descritto in precedenza, è parte del processo di mondializzazione in corso, che nel bene e nel male sembra irreversibile, almeno per ciò che riguarda il crescente spostamento dei professionisti delle più diverse aree del sapere, scrivere compreso. Fino a vent’anni fa andare a vivere in un altro paese, per un intellettuale o per un artista, era un caso piuttosto raro, e succedeva solo a quelli già consacrati, o a giovani che ricevevano una borsa di studio, oppure a quelli che dovevano farlo per forza, a causa di una situazione politica insostenibile. Ma esso succedeva quasi sempre per un periodo non troppo lungo, e le opere di questi scrittori, con rarissime eccezioni, continuavano ad essere scritte nelle loro lingue originali e ad avere come punto di riferimento i loro paesi d’origine. Oggigiorno le cose non sono più così, e questi spostamenti non sono più una rarità. Inoltre, spesso sono volontari, molte volte a scopo definitivo, e direi che se non sono ancora numerosi gli scrittori che l’hanno fatto, saranno sicuramente in molti quelli che prendono questa alternativa estrema in considerazione come progetto alternativo di futuro. Lo scrittore di oggi – e senza alcun dubbio quello di domani – non è più un prigioniero dell’ambiente spesso indifferente o ostile del suo paese d’origine. Lui sa che può ricominciare altrove, magari in un idioma diverso. È ovvio che se la tematica della sua opera riguarda esclusivamente i problemi della sua società originaria, o se i lettori per i quali ha deciso di scrivere sono i suoi concittadini, non dovrà fare questa “migrazione letteraria”, non dovrà avventurarsi a fare l’esule artistico oltre confine, e men che meno abbandonare l’idioma del suo pubblico ideale. Se, tuttavia, la sua tematica è universale, inserita e ispirata non da una certa realtà locale o da una tradizione letteraria nazionale, ma dalla vasta e generosa tradizione letteraria occidentale (che nell’incorporare in sé altre tradizioni diventa sempre di più un patrimonio comune all’umanità), allora questo trasferimento non solo è possibile ma addirittura auspicabile. Dopotutto, l’artista deve stare dove la sua arte è amata. Ovunque ciò accada. E dobbiamo abituarci a pensare – insieme al concetto classico dell’esule politico, economico o religioso – al concetto nuovo di esule artistico, o di migrante letterario. Esso si prefigura ormai come un personaggio emblematico dei nuovi tempi. E direi anche che – a causa della particolare e drammatica esperienza linguistica e esistenziale che questa migrazione rappresenta – i nuovi scrittori migranti sono destinati ad offrire delle sorprendenti rivelazioni, e a fornire contributi originalissimi alla letteratura del Ventunesimo secolo.

10- In alcune novelle di “Racconti italiani” si percepisce chiaramente
una sorta di realismo magico lontano da Bontempelli e da quello italiano
ma molto vicino all’estetica sudamericana (letterariamente parlando).
C’è veramente o è solo una mia impressione? E se c’è vi sono riferimenti
letterari solidi: libri, autori che ti sono serviti per scrivere meglio?
Quali sono questi libri; li consiglieresti ad uno scrittore in erba?

Innanzi tutto bisogna sfatare un equivoco persistente in Europa: il cosiddetto “realismo magico” non è stato un fenomeno propriamente Sudamericano, bensì un fenomeno Ispano-americano. Ossia, l’altra metà del Sudamerica, quella di lingua portoghese, non lo ha praticamente mai adoperato. E, tra molte ragioni, ne esiste una di ordine demografico: quando, negli anni ’50 e ’60, i paesi ispano-americani, tali come il Messico e la Colombia, cominciarono a rappresentare “magicamente” la loro realtà ancora prevalentemente rurale, contadina e “indiana”, il Brasile  creava invece una letteratura di  altro tipo, fortemente urbana, centrata su personaggi umani dispersi nell’anonimato delle grande metropoli come Rio o São Paulo, che a quel punto contavano già  milioni di abitanti e producevano un’arte, un cinema, un’architettura di grande originalità e pari a quella dei paesi europei (quel momento di alta civiltà si è perso posteriormente, quando i militari hanno istituito la censura e il fasullo “miracolo economico”). Nella narrativa, in quegli anni, per esempio, è stata creata la crônica brasiliana, un genere simile al racconto breve con il quale si affrontava un tema “caldo” e attuale: lo scopo era evidentemente quello di  pubblicare sui giornali senza aspirare ad altro se non alla vita breve delle notizie.
Un villaggio come la Macondo di Marquez era qualcosa altrettanto estraneo ai brasiliani quanto un villaggio ebreo nella Russia dei romanzi di Joseph Roth… I brasiliani, in quegli anni, ma ancora oggi, scrivono una narrativa in verità molto vicina a quella dei loro contemporanei statunitensi – penso a John Fante, Bukowski, Carver o la O’Connor – o europei – autori come Camus, Lobo Antunes o Ballard. Sto parlando di una brillante generazione di scrittori brasiliani, fioriti negli stessi anni di Garcia Márquez, Cortázar, Rulfo o Carpentier, i grandi del “realismo magico”, ma con tutt’altro orizzonte letterario. Parlo di Clarice Lispector, Rubem Fonseca, Caio Fernando Abreu, João Antonio, Dalton Trevisan, Antonio Callado e Plinio Marcos – una sorta di Jean Genet paulista.
Appunto perché non scrivevano niente di simile al “realismo magico” di moda tra i lettori di allora, i brasiliani sono rimasti esclusi dal mitico “boom” letterario ispano-americano degli anni ’60, ’70, e sono tuttora praticamente sconosciuti in Europa. Tuttavia, quello che la loro narrativa non contempla, il “magico”, l’“esotico”, è sostituito (con vantaggio) da una forte identificazione sociale, psicologica ed esistenziale con l’Europa di oggi. La narrativa brasiliana contemporanea è stranamente vicina a quella europea: si tratta di una prossimità sorprendente, con l’arte ma anche con la vita; è come se gli europei potessero scoprirsi in quei libri, a confronto con situazioni estreme che qui non sono per niente comuni. È come imbattersi nel volto sfigurato, eppure ancora riconoscibile, di un vicino parente.
Ciò che magari tu hai identificato come elementi di “realismo magico” nella mia narrativa sono elementi che originano da un’altra tradizione molto diversa e molto più forte tra i brasiliani: quella di un certo assurdo esistenziale, il non sense, il senso di non-appartenenza al mondo tale com’è diventato, di un orrore silenzioso di fronte all’incomprensibile, al grottesco – e che è presente nelle opere di autori come Kafka, Poe, Buzzatti, e Zamjatin, ma anche in pittori come Ensor, Max Ernst, De Chirico o George Grosz. Una tradizione quindi eminentemente europea.
L’elemento fantastico presente nella mia opera è scaturito da un ambiente esistenziale asfittico, buio, labirintico, dal potenziale di caos e di terrore che è sempre in agguato nella vita, che l’Europa conosce meglio di qualsiasi altro continente al mondo; e che chiaramente non c’entra niente con i miracoli colorati, le apparizioni e sparizioni misteriose, la meraviglia, l’esuberanza tropicale del “realismo magico” di Cent’anni di solitudine, o degli imitatori tardivi di minor talento, come la Allende, Sepúlveda, o di un film come “Come l’acqua per la cioccolata”. Questo tipo di narrativa “magica”, tanto apprezzata dagli italiani e molto celebrata a suo tempo da Calvino e da Zavattini, non è mai veramente appartenuta né alla tradizione europea né a quella brasiliana.

11- L’intellettuale emigrato in un’altra terra è accomunato, nelle
peripezie e nei vantaggi, ai suoi conterranei che hanno scelto la stessa
sorte ma hanno, magari, bassa scolarizzazione e problemi di
inserimento…In questo caso come può tornare utile l’intellettuale
alla comunità emigrata. Ha delle responsabilità per i connazionali e per
gli autoctoni del paese in cui si trova? Può fungere da eco, portavoce,
punto di riferimento tra mondi e società diverse che si confrontano? Può
essere anche un educatore?

Questo dipenderà molto dal carattere personale e dalla “missione” di ogni scrittore. Qualcuno a cui piacciano i movimenti politici, le discussioni collettive, e che abbia una personalità più socievole e magari un’inclinazione alla leadership, potrà eventualmente intervenire in prima persona nella realtà dei suoi conterranei che hanno immigrato e che soffrono le solite difficoltà e le solite angherie. Altri scrittori, invece, sono più timidi, più taciturni, più solitari. A loro interessa soltanto immergersi profondamente nella letteratura, nella scrittura. Questi non si sentirebbero adatti a quel ruolo, ma danno comunque un importante contributo – forse il più importante di tutti – attraverso la loro narrativa e la loro poesia. Bisogna rispettare ognuno nelle sue caratteristiche, e capire che ci sono mille modi, tutti onesti ed efficaci, per intervenire nella realtà e nella Storia. E bisogna anche rispettare il fatto che qualcuno di loro si senta francamente più identificato con la “nazionalità letteraria” che non con quella geopolitica. Si preoccupano della condizione dello scrittore nel mondo, altrettanto fragile e perseguitata come quella di certi gruppi di esuli.
Vorrei fare una piccola digressione necessaria: vedi, lo scrittore di narrativa non è un moralista. E non deve esserlo. Dobbiamo combattere l’invasione impertinente del politically correct nella letteratura. I romanzi non possono essere confusi con i sermoni, pur opportuni e giudiziosi che siano. Grandi scrittori hanno creato un’opera importante, inconfutabile, presentando punti di vista morali che non corrispondono al consenso prevalente – diceva con ragione Nelson Rodrigues che “tutte le unanimità sono stupide”. Parlo di scrittori come De Maistre, Céline, Cioran, Oscar Wilde, e anche di talenti straordinari come Nietzsche e Borges, oppure del Flaubert che ha scritto: “il feticismo che tutti hanno per il suffragio universale mi dà il voltastomaco più dell’infallibilità del Papa”. Anche un vasto spettro di punti di vista ideologici e di opinioni morali contrastanti è parte della sana “biodiversità” della letteratura, ed è parte del patrimonio della nostra cultura. Imporre alla letteratura una posizione sempre “buonista”, per usare un termine di moda, sarebbe ridurla e impoverirla oltre misura, sarebbe cercare di addomesticare un animale che trova il suo pieno vigore, il suo meglio, solo in stato brado, libero dai condizionamenti. Ma il fatto è che ci sono quelli che vorrebbero castrare il toro per trasformarlo in un bue.
Bisogna avere le idee chiare su questo: una letteratura può essere libertaria e progressista anche per le cose che rivela, che ci fa conoscere, per aver portato a galla mondi che altrimenti sarebbero rimasti inaccessibili a noi, per aver offerto possibilità inaudite all’immaginazione, e questo indipendentemente dall’opinione “ufficiale” che l’autore concede nelle interviste, o anche da certe digressioni proposte all’interno dell’opera stessa. Questo è stato l’errore di Vittorini nel rifiutare un grande romanzo come Il gattopardo, perché considerava Tomasi di Lampedusa un reazionario. Aveva ragione invece Bassani, che capì di trovarsi dinanzi ad un capolavoro e lo fece pubblicare. Un altro caso del genere è l’impatto fortemente rivoluzionario, per la narrativa del Ventesimo secolo, dei racconti di Jorge Luis Borges, come “Tlon, Ukbar e Orbis Tertius”, o quelli in cui il “labirinto” è stato elevato alla posizione di metafora superiore, o quelli ancora in cui ha presentato la metaletteratura più inventiva della storia letteraria, nonostante lui stesso si sia più volte dichiarato un conservatore.
Secondo me, purché ci sia una verità umana profonda, ogni scelta è rispettabile. E, come abbiamo appena visto, questo è vero anche se quella “verità” non corrisponde ad una nostra personale nozione di verità.
Ma bisogna anche dire che quando dietro la qualità letteraria si intravedono  posizioni che coincidono con le nostre, questo ci fa un gran piacere, ci riempie di un senso di pienezza e di coerenza assoluta.
Da ultimo, tornando all’argomento delle popolazioni migranti e ai loro portavoci, dobbiamo considerare che a volte la “colonia” della stessa nazionalità dello scrittore è piccolissima o inesistente in quel paese. Oppure che, a causa di grandi delusioni o di grandi sofferenze, uno può non volere più, con tutti i diritti, riprendere contatto con niente che gli ricordi il paese natale, e anche questo è molto giusto. Dobbiamo difendere il sacro diritto di ognuno alla cicatrizzazione.

12- Un’ultima domanda: ogni autore che ho incontrato ha dimostrato di
avere una propria poetica, una forte intenzione che cerca di trasporre
su carta e offrire ai lettori. La tua poetica, le tue intenzioni, quali
sono?

R- Questa è la domanda più difficile che si può fare a uno scrittore. Sarebbe necessario che uno avesse un’autoconsapevolezza molto acuta, così da poter vedere se stesso e l’opera dall’esterno, come un osservatore neutrale e molto perspicace, per dare una risposta almeno soddisfacente. Per esempio, ho capito molte cose nuove, che non avevo nemmeno sospettato che esistessero prima, sulla mia stessa opera, a partire dalle osservazioni fatte dagli studiosi e dai critici che si sono piegate su di essa. Per dirne una, è stato un saggio del professore Malcolm Silverman, della San Diego State, che mi ha rivelato la struttura circolare che rinchiude i miei personaggi, un circolo senza uscita. Si tratta di una struttura molto presente nelle tragedie greche. Un altro caso: il professore Vicente Ataíde, dell’Universidade de Santa Catarina, ha dimostrato come i miei personaggi sono tracciati a partire da un binomio “carnevalizzato”, descritto perfettamente nelle teorie di Bakhtin, che oscilla tra il mondo “di sotto”, quello dell’ istinto e della passione, e il mondo “di sopra”, quello dei sentimenti “alti”, della malinconia dello spirito e del senso di missione. Oppure, tra le funzioni dell’escrezione e della sessualità e quelle più “alte”della parola e del pensiero. Insomma, un universo diviso dall’ombelico.
La mia poetica… Credo che tutto ruoti attorno ad una idea-forza, che mi accompagna per tutte le 24 ore del giorno, già dagli anni 60, dall’adolescenza, e a cui dedico i  miei anni e le mie possibilità espressive, e cioè la comprensione dell’uomo nella sua irrimediabile solitudine: l’uomo fragile, solo, effimero, abbandonato dalle risposte, un uomo di fronte a un mondo che non è stato scelto da lui. L’uomo incatenato in una dialettica insolubile tra apprendistato e disperazione. Questo volo in circoli dentro una cattedrale vuota, a cui Shakespeare ha comparato la vita. L’amore come unica verità, o come illusione di un impossibile riscatto, di una redenzione fuori dalla nostra portata. L’incontro con l’altro sempre minacciato dall’incomunicabilità, dall’entropia, dal nulla. Quell’esercito di un solo uomo che prima o poi ci accorgiamo tutti di essere diventati. L’uomo che cerca di non cadere, o di scappare in fretta dalla trappola in cui il mondo si è trasformato. L’uomo come una cometa che arriva dal buio assoluto e torna al buio seguendo un percorso incomprensibile. Come una cometa anomala, mancata, che non ritornerà mai più. Ma che, mentre passa, possiede la potenza di un sole. È proprio questo che voglio capire, che voglio esprimere in tanti modi, prima che anch’io debba sparire nel buio. La vita di uno scrittore è troppo corta, non perché lui vive pochi anni, ma perché gli anni non saranno mai abbastanza per il tanto che ha da fare.

L'autore

Raffaele Taddeo

E’ nato a Molfetta (Bari) l’8 giugno 1941. Laureatosi in Materie Letterarie presso l’Università Cattolica di Milano, città in cui oggi risiede, ha insegnato italiano e storia negli Istituti tecnici fin dal 1978. Dal 1972 al 1978 ha svolto la mansione di “consulente didattico per la costruzione dei Centri scolatici Onnicomprensivi” presso il CISEM (Centro per l’Innovazione Educativa di Milano). Con la citata Istituzione è stato coautore di tre pubblicazioni: Primi lineamenti di progetto per una scuola media secondaria superiore quinquennale (1973), Tappe significative della legislazione sulla sperimentazione sella Scuola Media Superiore (1976), La sperimentazione nella scuola media superiore in Italia:1970/1975. Nell’anno 1984 è stato eletto vicepresidente del Distretto scolastico ’80, carica che manterrà sino al 1990. Verso la metà degli anni ’80, in occasione dell’avvio dei nuovi programmi della scuola elementare, ha coordinato la stesura e la pubblicazione del volumetto una scuola che cambia. Dal 1985 al 1990 è stato Consigliere nel Consiglio di Zona 7 del Comune di Milano. Nel 1991 ha fondato, in collaborazione con alcuni amici del territorio Dergano-Bovisa del comune di Milano, il Centro Culturale Multietnico La Tenda, di cui ad oggi è Presidente. Nel 1994 ha pubblicatp per il CRES insieme a Donatella Calati il quaderno Narrativa Nascente – Tre romanzi della più recente immigrazione. Nel 1999 in collaborazioone con Alberto Ibba ha curato il testo La lingua strappata, edizione Leoncavallo. Nel 2006 è uscito il suo volume Letteratura Nascente – Letteratura italiana della migrazione, autori e poetiche. Nel 2006 con Paolo Cavagna ha curato il libro per ragazzi "Il carro di Pickipò", ediesse edizioni. Nel 2010 ha pubblicato per l’edizione Besa "La ferita di Odisseo – il “ritorno” nella letteratura italiana della migrazione".
In e-book è pubblicato "Anatomia di uno scrutinio", Nel 2018 è stato pubblicato il suo romanzo "La strega di Lezzeno", nello stesso anno ha curato con Matteo Andreone l'antologia di racconti "Pubblichiamoli a casa loro". Nel 2019 è stato pubblicato l'altro romanzo "Il terrorista".