INTERVISTA A JULIO MONTEIRO MARTINS
dI SIMONE GAMBACORTA, 4 Maggio 2004
Uno scambio di mail. Un appuntamento telefonico. È nata così questa intervista a Julio Monteiro Martins, il famoso e apprezzato scrittore brasiliano che da anni vive in Italia. Autore di numerose opere, in Brasile ha pubblicato racconti, romanzi e saggi. Dopo varie docenze universitarie negli Stati Uniti e in Portogallo, è professore di Lingua portoghese e Traduzione all’Università degli Studi di Pisa. Ma c’è anche Lucca, dove dirige la Scuola di Scrittura Creativa “Sagarana” e l’omonima rivista web. Nome di primo piano della neonata letteratura d’ibridazione, Julio Monteiro Martins ha conosciuto in Italia un vasto successo con i suoi Racconti italiani (Besa, 2000). Successo poi ribadito con La passione del vuoto (Besa, 2003), fresco di stampa e già divorato da migliaia di lettori. Parleremmo volentieri del suo impegno cinematografico e teatrale, se non preferissimo lasciar spazio alle sue parole.
Lei è autore di numerosi racconti, come dimostra il volume Racconti italiani. Da cosa dipende la scelta del racconto?
Non so se si tratta di una vera e propria scelta. Ogni scrittore scopre il proprio genere. Alcuni i romanzi, altri la poesia. Anche se ho pubblicato quattro romanzi, e ne ho altri due inediti, mi trovo molto bene col racconto. Ho anche scritto poesie. Alcuni critici brasiliani sostengono che la poesia sia il genere a me più congeniale. E poi sono brasiliano, e si sa che in America Latina, già dagli anni Cinquanta, il racconto è diventato il genere più diffuso, quasi fosse stato adottato come la forma espressiva per eccellenza. Borges non ha mai scritto un romanzo. Ma non bisogna dimenticare che il racconto è molto adatto alla realtà odierna, frammentata e frammentaria, che non può essere racchiusa in un’unica immagine, come per esempio avveniva con i romanzieri ottocenteschi.
Questa sua ultima frase mi ricorda alcune parole di un noto critico italiano, Filippo La Porta, secondo il quale la narrazione breve “è più affine di altre al nostro tempo”. Immagino sia d’accordo con lui.
Sì, sono d’accordo, ma mi sorprende che quelle parole siano state pronunciate da un italiano, perché in Italia il racconto ha difficoltà a penetrare e ad affermarsi. Da questo punto di vista la letteratura italiana ha urgente bisogno di un aggiornamento. L’àncora manzoniana si fa sentire. Il racconto è tuttora considerato un genere minore. Pensiamo ai premi letterari, per esempio Strega, Viareggio e Campiello: sono premi di narrativa, ma i racconti non sono neppure presi in considerazione.
Leggendo i suoi libri mi è sembrato di capire che la sua visione dell’uomo non è propriamente ottimistica. È d’accordo?
È vero, non ho una visione ottimista dell’uomo. Ho visto e vissuto troppo per averla. Ma questo non significa che ne abbia un’idea negativa. La bellezza dell’uomo sta anche nella sua fragilità, nei condizionamenti della sua natura. L’uomo non è generoso o egoista, eroe o codardo: è tutto ciò insieme. Credo che una visione buonista della vita e dell’uomo sia un qualcosa di stucchevole e lezioso. Non serve a nulla, non dice nulla.
Oltre che scrittore, lei è professore all’Università di Pisa e nella Scuola di Scrittura “Sagarana”. Come convivono in lei il docente e lo scrittore?
A Pisa mi dedico soprattutto all’insegnamento della traduzione letteraria dal portoghese all’italiano. La traduzione letteraria è molto vicina alla scrittura. Tradurre significa ricreare. Per essere un buon traduttore letterario – cosa diversa dal traduttore tecnico – è necessaria un’enorme sensibilità, per cogliere le sfumature, per riuscire a penetrare fino all’intenzione occulta dell’autore. Anche per questo la traduzione letteraria induce a decisioni difficili, come scegliere se privilegiare la fedeltà all’originale a scapito della leggibilità, o viceversa. Occorre essere scrittori, per tradurre. Occorre sapere ricreare uno stile e soprattutto uno spirito.
Vengo a una domanda d’obbligo: qual è, oggi, il ruolo dello scrittore?
Appena arrivato in Italia ho conosciuto una realtà molto particolare, del tutto diversa da quella da cui provenivo. L’attenzione degli scrittori era rivolta alla visibilità, ai contratti, alle interviste. Ho conosciuto il divismo letterario. Io venivo da una tradizione radicalmente diversa. In Sud America molti scrittori, per via di un forte impegno, hanno subito torture e carcerazioni, quando non la morte. Ecco perché sono convinto che lo scrittore debba rappresentare una riserva di civiltà e di senso critico. Una riserva etica. Anche per questo ho fondato la rivista “Sagarana”, che tuttora dirigo: nel proposito cioè di ripristinare le vere priorità, perché la strada di uno scrittore non conduce al divismo, ma a una sorta di sacerdozio. Ricordo Le città invisibili di Calvino. C’è una frase per me fondamentale: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ecco, questo è davvero importante. Nella mia scuola di scrittura, che si chiama Sagarana, come la rivista, cerco di formare scrittori con valori diversi, forti, profondi. Voglio ripristinare la tradizione di scrittori come Buzzati, Morante, Pavese.
La letteratura come impegno costante quindi, quasi come vocazione.
Sì, la letteratura è una attività alta, nobile, capace di intervenire nella realtà, capace di impedire l’abbrutimento sociale. L’abbrutimento sociale riguarda direttamente gli scrittori, perché inizia con l’abbrutimento del linguaggio.