Interviste

Intervista. Francesca Macchioni

INTERVISTA DI FRANCESCA MACCHIONI PER IL PROGETTO DIMORA TOSCANA, MAGGIO 2001

Julio da dove vieni?

Quando mi domandano qua da dove vengo io rispondo sempre : Rio de Janeiro. Ma solo perché è più semplice. E’ un punto di riferimento e la gente identifica la mia provenienza, anche se poi in modo sbagliato, perché lo fa servendosi di  stereotipi caricati come il carnevale e pochi altri. Però in realtà io vengo dall’area metropolitana di Rio de Janeiro, vengo da Niterói , una città non soltanto opposta geograficamente a Rio (perché c’è una grande baia tra le città), ma addirittura sua rivale. C’è un lungo ponte, il più lungo dell’America latina che collega le due città. I cariocas (di Rio) ci chiamano “papa-goiabas”, cioè mangiatori di “guayava” e ci vedono come se fossimo un po’ più arretrati, mentre noi vediamo i cariocas come quelli che non lavorano mai e se ne stanno tutto il giorno sulla spiaggia a bere la birra e a fare la bella vita: per ogni vero intellettuale ce ne sono cinquanta che si atteggiano così per non lavorare. Sono un po’ fannulloni, un po’ perdigiorno.

Allora quando io rispondo che vengo da Rio non è poi così spontaneo per me, ho dovuto un po’ abituarmi, in Brasile non avrei mai risposto così…Ma qua a che serve specificare… tutti mi direbbero : “Da dove hai detto che vieni?”

Julio, in che condizione sociale, in che famiglia hai vissuto?

Questa è una domanda interessante.

Io mi chiamo Monteiro Martins. Monteiro è la famiglia di mia madre, Martins di mio padre. Due famiglie di origine portoghese, ma qui finiscono veramente le cose in comune.

I Martins sono arrivati in Brasile solo tre generazioni fa, all’inizio del XX secolo. Mio nonno è sbarcato in quella terra a quindici anni, non aveva che pochi vestiti e da solo ha fatto una grande fortuna. E’ andato a fare il custode in una fattoria e ha scoperto che la terracotta di quella fattoria, chiamata “massapê”, era preziosa.  Sapeva che si poteva usare per fare porcellane e ha creato la prima fabbrica di mattonelle decorative. Quando avevo 5 o 6 anni la famiglia Martins era la più ricca di Niterói. Io avevo la villa più bella della città…era un isolato.

Mio padre e suo fratello facevano le corse in macchina intorno al nostro cortile. Quando mio nonno è morto (aveva quasi novanta anni) i figli hanno diviso la    fortuna con grandi liti, ma nessuno era in grado di fare quello che faceva lui, nessuno era abbastanza creativo e il patrimonio si è notevolmente ridotto.

Questa è la famiglia di mio padre. La storia dei Monteiro è totalmente diversa. E’ molto più antica. Questo capitano Antônio da Silva Monteiro è venuto in Brasile quando le truppe di Napoleone erano in procinto di entrare in Portogallo. Poca gente sa che Rio de Janeiro è stata l’unica capitale di un paese europeo fuori dell’Europa, e per quindici anni la capitale del Portogallo è stata Rio. Allora, con il re del Portogallo, si è trasferita in Brasile tutta la sua corte tra cui anche questo Antônio da Silva Monteiro che ha ricevuto dal re un grande pezzo di terra, e il titolo di Barone di Campo Grande.

Insomma dopo tante generazioni siamo arrivati al mio nonno materno, l’uomo che mi ha cresciuto. Mio padre mi ha avuto che aveva 21 anni. Ha continuato a fare la vita di un ragazzo (una volta si è anche fidanzato, e aveva figli!)

Mio nonno, un uomo molto austero, era un funzionario del Ministero delle finanze. Viveva spostandosi in continuazione e imponendo l’uso delle imposte sul reddito nelle diverse e lontane regioni del Brasile. Era come un “Capo della guardia di Finanza”. Mia nonna dopo la sua morte mi diceva: “Il più grande orgoglio della mia vita è stato mio marito: è entrato povero, ha lavorato per trentacinque anni, ed è uscito ugualmente povero”.

I miei nonni hanno avuto due figlie: mia madre, la più grande, era una donna bellissima, corteggiata da tutti. Una ragazza per bene ma di classe media. Però  ha studiato, ha fatto l’Università trasferendosi dal suo nonno, e subendo i maltrattamenti dalle cugine ricche. Ha fatto Lettere, ed è diventata una professoressa ordinaria di Letteratura Nord Americana, anzi è stata proprio lei a tenere in Brasile il primo corso di Letteratura nord Americana. Ha scritto tra i lavori più importanti sull’opera di William Faulkner.

Vedi, io ho assorbito l’interesse per la cultura, che mi viene dalla famiglia di mia madre, ma sento ugualmente il mito dell’uomo “che si fa da solo” che è invece propria della famiglia di mio padre.

Io sono proprio una sintesi di queste due famiglie.

Il matrimonio tra queste due persone così incompatibili è avvenuto quando mia madre è rimasta incinta. Ricordo che mio nonno mi diceva sempre: “Ma guarda come sei cresciuto bene, chi l’avrebbe detto che sei prematuro!”

Io, in realtà, non ho mai avuto un padre. Avevo pochi anni, mia nonna portava un piatto fondo con pasta e fagioli e io e mia madre mangiavamo insieme in quel piatto…non c’era altro. Quando poi mio padre si decideva a tornare prendeva un camion, andava in tutti i negozi di giocattoli e faceva il suo arrivo. Era proprio squilibrato. Aveva delle macchine americane, importate, ma quando si rompevano  le lasciava sulla strada e non le vedeva mai più….era un irresponsabile.

Chi sono io? Sono stato figlio unico fino a nove anni (poi mi è nato un fratellastro da un padre diverso, Fernando, oggi un neurochirurgo), sempre trattato come un lord, protetto dai barbari: la famiglia di mio padre.

Quando sei venuto via dal Brasile?

Ma, la mia vita è stata un continuo spostamento dal Brasile all’Estero per motivi di studio. La prima volta è stato quando avevo sedici anni e mi sono trasferito a Parigi per seguire un  corso di Letteratura Comparata e di letteratura Francese alla Sorbonne. La città viveva un momento straordinario. Era il ’71, ’72, e si sentivano ancora gli strascichi del ’68…C’erano tante manifestazioni teatrali, musicali…

Perché proprio Parigi?

Parigi era “il posto” per studiare. Tutti i grandi scrittori latino americani vivevano lì, era “l’ombelico del mondo”…. Lì ho cominciato a scrivere racconti (fino a quel momento solo poesie). Dopo Parigi sono tornato in Brasile, ho vissuto gli anni settanta in modo molto intenso: dal 75 al 78 si è verificato un fenomeno straordinario di cui io ho pienamente goduto: il boom letterario di questo paese.

Per tre anni, non so spiegare perché, i brasiliani sono impazziti per i libri dei giovani scrittori connazionali. In quegli anni ho lavorato tantissimo. Ero diventato come  un cantante pop. Tutte le ragazze più belle erano le mie fidanzate. Questo è durato per tre anni poi tutto si è normalizzato.

Nel ’78 ho pubblicato un romanzo intitolato “Barbara”: il libro migliore da un punto di vista tecnico, il libro più atipico che io abbia mai scritto. Questo romanzo è uscito al termine del boom letterario, ed è passato in silenzio, nonostante che fosse notevolmente superiore agli altri. La mia delusione è stata tanta che ho deciso di lasciare il Brasile. Ho intuito che non serviva a niente stare lì e nel ‘79, approfittando di un invito nell’Iowa, mi ci sono trasferito, ho lavorato all’Università e mi sono sposato. Sono tornato in Brasile qualche anno dopo quando mia madre si è ammalata.

Se escludo un mio viaggio in Giappone, sono rimasto in Brasile dal 1981 al 1994: tredici anni!

Quando e perché hai deciso di venire in Italia?

Prima dell’Italia mi sono trasferito un po’ nel Portogallo. In Brasile, grazie all’esperienza americana, avevo creato alcuni Workshop di successo e sono stato invitato in questo paese per creare un’iniziativa del genere. Vivevo in un palazzo meraviglioso, il Palácio Fronteira. Lì ho conosciuto una ragazza di Lucca, Cristiana, che faceva l’Erasmus . L’ho incontrata ad un festival di film brasiliani…lei ha sempre amato il Brasile…il film era noioso ed io gli ho chiesto di andare fuori a fare due passi. Lì è iniziato il nostro rapporto. Sono andato da  lei una sera e il padrone di casa l’ha cacciata perché aveva saputo che un uomo aveva dormito lì. Io non solo ho litigato con lui ma l’ho portata con me al palazzo. Abbiamo vissuto insieme per sei mesi. Poi io sono tornato per un po’ in Brasile e quando sono giunto in Italia era già per sposarla. Sono “un importato d’amore”.

La Toscana, Lucca, non è stata una scelta: se lei fosse stata di Catanzaro io certamente sarei andato là!

E ora, come vivi in questo nuovo paese?

Io credo che le strade del Signore siano imprescrutabili…ma non casuali. Se lei non fosse stata toscana forse non avrebbe vissuto con tanta passione l’amore per il Portogallo, per il Brasile…non sono coincidenze.

Io sono qua da sei anni ed io divido così il mio soggiorno: i primi due anni e i quattro restanti.

I primi due anni non ho fatto nulla: non parlavo la lingua, leggevo, scrivevo, andavo in giro…ho proprio vissuto la Toscana, ho conosciuto la Garfagnana ed altre zone…Dopo ho creato l’evento “Scrivere oltre le mura” e in quello stesso anno ho anche cominciato ad insegnare all’Università di Pisa.

Adesso qui mi sento, come si dice in Brasile, “un pulcino nella spazzatura”, sono proprio contento matto…

E non hai nostalgia del tuo paese?

No. Io non sento la benché minima nostalgia del Brasile.

Hai vissuto bene il tuo allontanamento?

Direi proprio di sì, anche perché è stato preparato dai trent’anni precedenti in cui ho sempre viaggiato…non è stata una rottura ma la tappa finale di un divorzio ampiamente maturato.

Ma la tua famiglia è ancora in Brasile?

Ma, veramente sono tutti morti. E’ rimasto un padre con cui non ho contatti da almeno venti anni (e non sono nemmeno sicuro che sia ancora vivo), e mio fratello Fernando con il quale parlo ogni due mesi per telefono: la mia famiglia è solo lui.

Come mai senti il bisogno di staccarti in modo così radicale dal tuo paese?

Ma ti sembro brasiliano? Sono quasi svizzero, così puntuale, preciso….In fondo la famiglia di mia madre era originariamente europea ed io mi sento a casa proprio in Europa. Non capire male: io amo il Brasile, ma non come una patria, un padre. Io amo il Brasile come si ama un figlio adolescente, ribelle, drogato.

Hai detto che senti di appartenere all’Europa. Ma qual è la tua lingua?

La mia lingua è quella nella quale dirò parolacce quando domani mi pesteranno un piede. E’ la lingua con la quale penso il discorsetto che voglio fare a quella ragazza che mi piace…Ora è l’italiano. La mia prima lingua è quella del tempo presente, l’unica dimensione che realmente esiste. Nel ’72 la mia lingua era il francese, quando ho scritto i miei libri in Brasile era il portoghese, quando ho scritto “Racconti italiani” era ovviamente l’italiano.

Questo vale anche per i paesi in cui hai alternativamente abitato?

No, è un po’ diverso .Una volta ho letto un dialogo avvenuto nel Medioevo tra due preti. Uno disse: “Benedetto quello che si sente in patria ovunque”. E l’altro rispose: “No, ti sbagli, benedetto quello che si sente straniero ovunque”.

Io mi sento straniero ovunque. Non ho più un paese. Il mio è un estraniamento esistenziale, perché funziono in modo sempre diverso dalla maggioranza. Mi sento diverso ed estraneo a molti brasiliani ma ugualmente da tutti quegli italiani che prima del TG guardano il quiz per diventare miliardari.

Consideriamo poi che i confini nazionali stanno scomparendo e crescono tutta una serie di atteggiamenti culturali che non hanno più confini geografici. La mia rivista nasce da questa nuova realtà in cui si perde l’idea della regione e della nazione.

Julio, tu sei tra gli ideatori e gli organizzatori di questo seminario: quali i motivi che ti hanno spinto a sostenere tale evento?

Vedi, questo primo seminario di scrittori migranti ha avuto luogo fin troppo tardi, nel senso che se tu osservi gli altri paesi europei già da una decina di anni hanno riconosciuto, nella scrittura migrante, la più ampia fonte di rinnovamento letterario. Mi riferisco per esempio agli scrittori magrebini che risiedono in Francia, agli scrittori dello Sri Lanka, del Pakistan e dell’India  in Inghilterra, a quelli di origine turca o curda in Germania. L’anno passato, alla fiera del libro di Parigi, il cui paese ospite era la Germania, trovavi tutto tranne che scrittori tedeschi…erano tutti autori di origine straniera che rappresentavano la Germania. L’Italia ha una situazione molto particolare, forse privilegiata. Non ha colonie, o, quanto meno, si è sempre trattato più di piccole avventure, che non di una vera e propria storia coloniale. Così questi scrittori stranieri sono molto diversi. Faccio un esempio. L’inglese è oggi una lingua letteraria dell’India o dello Sri Lanka, mentre l’italiano non è lingua letteraria in nessun altro paese se non in Italia. Ecco che allora le persone che vengono presentano un più ampio ventaglio di origini, non ci sono regioni privilegiate…trovi sud americani come magrebini, scrittori dell’Africa occidentale, orientale, e sono tutti uomini  che hanno scelto questa cultura e non l’hanno ereditata per “vie coloniali”. Ciò fa una grande differenza perché in questo caso la conoscenza  e l’approccio nei confronti di una lingua nasce da un’empatia, da un elemento amoroso, da una forte dose di affettività. Cose che ho percepito ben presenti durante il seminario.  Non ho avuto né captato negli altri un sentimento di sottomissione nei confronti della cultura italiana, ma ho osservato un rapporto paritario, sano, tra tutti questi scrittori che hanno scelto di essere tali  in italiano. Non è un fare…bisogna capire questo.  Scrivere è un essere, e questa è la scelta di diventare qualcosa. Diventare, nella dimensione letteraria del tuo essere, italiani.

Vedi nella scrittura dei migranti un serbatoio di innovazioni a livello linguistico?

Lo vedo a livello linguistico…ma ne scorgo  soprattutto l’immenso potenziale di innovazione in senso più ampio. Per ora l’universo in cui si muovono gli scrittori migranti è appena sbozzato e si riduce a poche timide persone che non sanno come questa cultura saprà accoglierli. E’ una posizione di difesa, ben comprensibile. E’ un processo embrionale, ma è quello con il più ampio potenziale di innovazione linguistica, psicologica. E’ ciò che permetterà di fare della letteratura italiana una letteratura cosmopolita, universale, per rompere la visione di autoriferimento che oggi, più di quanto sia avvenuto in passato, limita l’Italia. Il rinnovamento e l’apertura, ecco  il ruolo di questa letteratura: conto su di essa. L’Italia ha bisogno del resto del mondo…ha bisogno cioè di conoscere e farsi conoscere, la qual cosa sarà possibile grazie a questa letteratura. Per far si che ciò accada è necessario che le opere vengano ricevute e distribuite in modo degno.

Per questo la Sagarana è stata orgogliosa di presentare, insieme con  Portofranco e La Sapienza di Roma, questo importante appuntamento.

Quali contrasti hai vissuto più intensamente all’interno del seminario?

Io vado subito al contrasto più eclatante. C’è stato  uno scontro nel momento in cui ho voluto sottolineare la differenza, a mio parere esistente,  tra lo scrittore migrante e il migrante scrittore. Cosa voglio dire… le  prime a scrivere in lingua italiana sono persone giunte in questo paese a lavorare, che non avevano mai pensato di fare gli scrittori. Ma hanno vissuto dei traumi, scontri e incontri che li hanno portati a scrivere su questa esperienza: questi, a mio avviso, sono i migranti divenuti scrittori. Ma c’è stato un secondo movimento, nel quale rientro anch’io insieme a molti altri: si tratta di coloro che, già scrittori nel loro paese di origine, hanno scelto di migrare per poter continuare a fare la loro carriera dentro un universo linguistico diverso. Questo è il caso degli scrittori migranti. Due fenomeni che partono dunque da motivazioni diverse. Nel momento in cui  ho presentato questa ipotetica suddivisione, sono nate molte polemiche, perché si trattava di una tesi che si contrapponeva ad una visione più populista e paternalista.  Il fatto, secondo me, è che non si può negare una situazione evidente: le opere dei migranti scrittori hanno come fine principale la denuncia e la testimonianza, mentre le opere degli scrittori migranti  hanno come scopo principale il proseguimento di un percorso di creazione artistica.

Tu rientri, secondo la tua ipotetica suddvisione, nella categoria di coloro che, già scrittori nel loro paese, se ne sono allontanati proseguendo sulla  strada della letteratura.  Riesci a ricostruire il  percorso poetico che ti ha portato dai primi romanzi alla  scrittura attuale?

Vorrei ripetere che non è solo il mio caso…Gezim ne è un altro esempio..

Io ho fatto un percorso che si lega a due distinte trasformazioni. Quella mia personale, e cioè di un ragazzo di 19 anni che cresce fino a divenire un uomo maturo di quasi cinquanta (e non voglio dire che in questo tempo si acquisisca e basta perché a volte tendiamo più semplicemente a irrigidirci), e quella storica: dal ’74 ad oggi. Erano gli anni della guerra fredda, era un mondo che divideva i giovani tra idealisti e comunisti da una parte, pragmatici e capitalisti dall’altra. Se fai un paragone con il mondo di oggi (pensa, fra i grandi cambiamenti, alla caduta del muro di Berlino e al nuovo concetto di mercato come ideologia dominante) ti accorgerai dell’abisso. Inoltre io vivevo all’interno di una dittatura militare in cui ciascuno scrittore serio doveva mettersi a rischio e scrivere dei racconti pesanti di denuncia. Era un dovere morale, non una scelta estetica e stilistica. Tutto questo è cambiato e con essa la mia letteratura. Da quel periodo in poi direi che è divenuta meno collettiva e più legata all’individuo, all’uomo solo di fronte alla vita: questo percorso  non è stato interrotto con il cambiamento del paese e della lingua, ma il mio è forse un caso particolare. A molti altri capita di chiudere il percorso anteriore in coincidenza con il cambiamento di lingua. Io scrivo oggi  in italiano un libro che parla delle stesse cose di cui avrebbe parlato se fossi stato in Brasile. Allora gli anelli della catena continuano a rimanere legati, per quanto la catena sia uscita dall’acqua e sia entrata nell’aria.

Cosa hai pubblicato da quando sei arrivato in Italia?

Quando sono arrivato la prima cosa che ho scritto (e mai stata pubblicata), è stata, ispirandomi al mondo del calcio, Cronache di glorie e disperazione. Come una partita di calcio aveva  90 piccoli testi di cui 45 (il I tempo) erano piccole storie del calcio brasiliano e le restanti 45 (II tempo) costituivano riflessioni generali sul mondo contemporaneo. Quello che volevo, quando ho scritto questo testo, era semplicemente  collaudare la lingua italiana .

Direttamente, o sei passato attraverso la fase dell’autotraduzione?

No, questo mai. Sapevo che sarebbe stata una trappola. Se ti autotraduci non ti immergi mai completamente nella lingua nuova. Se tu devi tradurre nella lingua nuova concetti della lingua originale, non userai mai le parole della lingua nuova che non hanno corrispondenti in quella originale.

Torniamo ai testi. Dopo Cronache di glorie e disperazione ho scritto  un  libro intitolato Il percorso delle idee che illustra, attraverso foto bellissime di Enzo Cei, un evento che ho creato a Lucca nel’96, Scrivere oltre le Mura. In questo libro ci sono piccole poesie in prosa, genere poco coltivato in Italia (per quanto Calvino ne sia maestro), e apprezzato invece in Brasile e in Francia. Il valore simbolico è quello della poesia.

Un altro passo, dunque,  a cui è seguito un libro di racconti: Racconti italiani, pubblicati dalla Besa Editrice. E lì è iniziata per me una vita editoriale normale, come quella che ho avuto in Brasile. Adesso ho terminato un altro libro di racconti, Pane bianco, il pane dei ricchi nell’800. E’ un libro con un numero inferiore di racconti che sono tuttavia di più ampio respiro. E si va avanti, in questo percorso, navigando in acque abbastanza tranquille.

Con quali problemi editoriali ti sei scontrato?

Con tanti, ma non è un problema italiano.

E non è nemmeno un problema di “letteratura di migrazione”?

No, tutto questo aggrava, ma i problemi sono sempre gli stessi. Aggrava anche il fatto che il genere che io amo coltivare oggi è il racconto e non il romanzo…Però  cerco di affrontare tutto ciò in modo stoico: se quello che io scrivo esprime in modo originale e intelligente le cose che i lettori hanno bisogno di sapere, allora ci sarà un modo per arrivare. Se c’è un desiderio da una parte, e l’oggetto di quel desiderio dall’altra, l’incontro si farà. Qual è il ponte? Il mondo editoriale. Io non do molta importanza se in un momento ho un successo editoriale e in un altro no: niente è cambiato nella mia creatività, non mi sono mai lasciato condizionare. In Brasile, ad un certo punto, è diventata di moda una letteratura mistica ed esoterica e  nessuno più leggeva e comprava libri di narrativa…Ma io sono andato avanti e non cambiando lo spirito, ho cambiato il paese…

Ho, credo, una grande padronanza del romanzo ( alcuni di quelli che ho scritto, tra cui Barbara hanno avuto un grande consenso del pubblico), ma ora non ho più voglia di scriverli (anche se l’ambiente editoriale li privilegia ). Il racconto è più in sintonia con il mondo contemporaneo. L’uomo, oggi, non vuole l’evasione del romanzo, ma la comprensione del racconto. Non vuole più scappare dalla vita reale ma arricchirla anche attraverso la letteratura.

I racconti producono questo effetto: due, tre racconti al giorno, magari di autori diversi, ti aprono orizzonti diversi senza che tu rinunci alla percezione del reale come richiede il romanzo. Anche la mia rivista segue questa linea.

Quali sono i progetti futuri per restituire prossimamente alla letteratura migrante il posto di primo piano che le spetta?

Insieme al Prof. Gnisci, dell’Università “La Sapienza” di Roma, ho intenzione di organizzare, per il  Luglio del 2002, il secondo seminario degli scrittori migranti. Speriamo solo di trovare  partners e sponsor che ci aiutino. Non nego che comincio anche  a pensare ad un primo incontro europeo di scrittori migranti, per capire che Europa è questa che ha convocato alcune delle menti più creative di tutto il mondo perché spieghino e interpretino questa realtà. Ma le cose devono ovviamente maturare un po’di più perché si possa pensare realisticamente ad un evento del genere. Se tutto andrà come spero…tra poco tempo ci impegneremo anche in questa sfida.

L'autore

Raffaele Taddeo

E’ nato a Molfetta (Bari) l’8 giugno 1941. Laureatosi in Materie Letterarie presso l’Università Cattolica di Milano, città in cui oggi risiede, ha insegnato italiano e storia negli Istituti tecnici fin dal 1978. Dal 1972 al 1978 ha svolto la mansione di “consulente didattico per la costruzione dei Centri scolatici Onnicomprensivi” presso il CISEM (Centro per l’Innovazione Educativa di Milano). Con la citata Istituzione è stato coautore di tre pubblicazioni: Primi lineamenti di progetto per una scuola media secondaria superiore quinquennale (1973), Tappe significative della legislazione sulla sperimentazione sella Scuola Media Superiore (1976), La sperimentazione nella scuola media superiore in Italia:1970/1975. Nell’anno 1984 è stato eletto vicepresidente del Distretto scolastico ’80, carica che manterrà sino al 1990. Verso la metà degli anni ’80, in occasione dell’avvio dei nuovi programmi della scuola elementare, ha coordinato la stesura e la pubblicazione del volumetto una scuola che cambia. Dal 1985 al 1990 è stato Consigliere nel Consiglio di Zona 7 del Comune di Milano. Nel 1991 ha fondato, in collaborazione con alcuni amici del territorio Dergano-Bovisa del comune di Milano, il Centro Culturale Multietnico La Tenda, di cui ad oggi è Presidente. Nel 1994 ha pubblicatp per il CRES insieme a Donatella Calati il quaderno Narrativa Nascente – Tre romanzi della più recente immigrazione. Nel 1999 in collaborazioone con Alberto Ibba ha curato il testo La lingua strappata, edizione Leoncavallo. Nel 2006 è uscito il suo volume Letteratura Nascente – Letteratura italiana della migrazione, autori e poetiche. Nel 2006 con Paolo Cavagna ha curato il libro per ragazzi "Il carro di Pickipò", ediesse edizioni. Nel 2010 ha pubblicato per l’edizione Besa "La ferita di Odisseo – il “ritorno” nella letteratura italiana della migrazione".
In e-book è pubblicato "Anatomia di uno scrutinio", Nel 2018 è stato pubblicato il suo romanzo "La strega di Lezzeno", nello stesso anno ha curato con Matteo Andreone l'antologia di racconti "Pubblichiamoli a casa loro". Nel 2019 è stato pubblicato l'altro romanzo "Il terrorista".