La prima volta che avevamo visto la sua fotografia, tutta stropicciata e malamente attaccata al palo giallo di un semaforo vicino alla Mosson, non ci avevamo trovato davvero nulla di strano. Eravamo appena usciti dalla Caf, dopo un’ora di fila che ci era sembrata interminabile e dieci minuti di una discussione di cui non avevamo capito quasi nulla (come fare per avere i soldi? Già pensavamo che non li avremmo avuti mai); ad un ragazzo francese che stava guardando la foto insieme a noi era uscito un commento sgradevole: “Neanche si vede la faccia, con questo velo. Potrebbe essere chiunque”. Però non aveva tutti i torti. La ragazza fotografata – il manifesto diceva che erano due giorni che non si avevano sue notizie, ma curiosamente non era stata indicata la data, quindi poteva essere lì da molto tempo – non si vedeva granché bene, il velo nero le copriva capelli e orecchie, gli occhi erano truccati o molto scuri, il bianco e nero dell’immagine non lasciava neanche immaginare colori e sfumature del viso. Lì per lì non ci prestammo alcuna attenzione, e non ci feci caso neanche quando, qualche giorno dopo, lessi un articolo a riguardo sul giornale locale, il Midi Libre. Ero alla Buvette, uno di quei bar del centro dove ancora si potevano bere alcolici fin dalla mattina, popolati da un’umanità varia (pensionati, disoccupati, vecchi rimpatriati dall’Algeria, alcolizzati di diverso grado) più o meno alticcia a partire dalle nove e mezza. Mi piaceva perché, pur prendendo solo un caffè, avevo l’impressione che fosse corretto, come se la barista ci mettesse della grappa di nascosto. Nel giornale di quel giorno c’era un’intervista al marito, in cui cercava in tutti i modi di discolparsi (era stato il primo e principale accusato). Lui non c’entrava niente, diceva, semplicemente una sera la moglie non era tornata a casa. Era stato proprio lui a denunciare la scomparsa, visto che la donna non lavorava e l’unico contatto sociale nella città sembrava essere il suo compagno. Poco più in basso, un trafiletto breve ospitava alcune considerazioni di un’avvocatessa di Nîmes (l’avvocato d’ufficio del marito, se avevo capito bene) che riteneva infondate sia le accuse all’uomo che quelle alla donna, ora sospettata di essere fuggita in Siria (diversi giovani erano partiti per raggiungere l’Isis negli ultimi mesi da Montpellier e dai paesi limitrofi) e di essere legata a gruppi terroristici. Mi interessò talmente poco quell’articolo, che girai velocemente pagina e mi concentrai sul resoconto della partita di Coppa di Francia Montpellier-Marseille della sera prima, che i primi avevano vinto per tre a zero.
Anche la Francia sembrava avere ben altri problemi in quel momento. Era passato troppo poco tempo dagli attentati del 13 novembre perché un normale fatto di cronaca sembrasse, appunto, un “normale fatto di cronaca”. Avevo l’impressione, da straniero, che lo shock fosse meno improvviso rispetto a quanto accaduto quasi un anno prima alla sede di Charlie Hebdo, ma la reazione infinitamente più violenta. Dopo Charlie Hebdo un milione di persone avevano manifestato a Parigi per la libertà (non ero sicuro di aver capito bene, ma mi sembrava questo il senso di quella giornata), dopo gli attentati del Bataclan l’esercito francese aveva bombardato l’Isis. Era comunque troppo presto perché la scomparsa di quella donna fosse percepita come qualcosa di diverso da ciò che sembrava: o un momento di follia di un marito musulmano geloso, o un legame con i gruppi terroristici. Soprattutto nel secondo caso, dicevano i rari articoli sull’argomento, bisognava stare attenti: gli episodi di radicalizzazione “interna”, talvolta in luoghi sperduti delle montagne francesi o in paesi lontani dai grandi centri, erano un fenomeno nuovo e inquietante.
Io invece non mi inquietai nemmeno quando rividi la fotografia della donna velata sulla bacheca dell’università in cui lavoravo. Fra una lezione e l’altra ero passato in ufficio, e quello sguardo scuro in un certo senso mi risultò familiare e non posso neanche dire che mi diede fastidio, al contrario: ebbi la sensazione che un piccolo frammento della mia vita al di fuori di quell’edificio mi avesse accompagnato. Solo il pomeriggio, sul tram verso casa, mi domandai la ragione per cui quell’immagine fosse stata affissa proprio sulla bacheca del dipartimento d’italiano, così il giorno dopo decisi di informarmi.
Guardando la fotografia attentamente, mi ero reso conto che non si trattava della stessa persona: un altro nome, uno sguardo scuro ma con gli occhi più piccoli e forse più intensi, e questa volta non era il marito a denunciare la scomparsa e a lasciare un numero di telefono, ma una donna, la sorella o forse la madre (la persona in foto sembrava più giovane della precedente). Più tardi, nella stessa giornata, una collega mi aveva spiegato perché quella fotografia si trovasse proprio lì: la donna scomparsa era la cugina di una nostra studentessa, un’italo-tunisina al secondo anno di corso. Me la ricordavo bene perché era stata lei a raccontarmi la storia della comunità italo-tunisina di Montpellier, di quando si erano trasferiti e del tipo di relazioni che si erano create. Pensai di scriverle una mail, ma poi mi venne in mente che l’avrei vista l’indomani a lezione. La mia collega mi propose di avvertire il console, per fargli scrivere un comunicato ufficiale, visto che la scomparsa aveva anche la nazionalità italiana. Ero d’accordo, ma probabilmente asserii con poca convinzione, perché la collega mi disse immediatamente, quasi seccata: “Non ti preoccupare, lo faccio io”, e poi si congedò.
Quella sera a casa raccontai tutto a mia moglie. Mio figlio grande, che era nei paraggi, pretese di sapere cosa fosse successo e con poco garbo insieme gli intimammo di smetterla di fare domande, che i discorsi per grandi non sono discorsi per bambini e basta, non potevamo mica dirgli tutto! Ricordo che mia moglie fece un commento del tipo “Chissà se davvero sono terroriste o se c’è una spiegazione razionale a tutto questo”, e io pensai che aveva ragione, che ancora consideravamo il terrorismo come un evento non razionale (anche quando i terroristi sembravano lucidissimi e le loro rivendicazioni, anche le più folli, composte da una coerente pazzia) e che in fondo né io né lei ci eravamo posti ad alta voce l’unica domanda che dovevamo farci: “Ma che ci siamo venuti a fare in Francia, proprio ora?”. Comunque poi non ne parlammo più, pensammo alla cena da preparare, ai bambini, a noi e alla nostra vita la cui quotidianità ci pareva ancora la cosa più importante.
Nelle settimane successive, anche se oggi mi rendo conto di come la situazione nel frattempo si fosse evoluta perché altre donne erano sparite, mi parve in quel periodo che non successe niente. Semplicemente, le donne scomparse non erano per me un problema e non ci pensavo più. Ricordo anche di aver intravisto una dichiarazione della parente di una di queste donne e stavolta di non averla neppure letta, come un fatto di cronaca che da eccezionale diventa normale e infine noioso. Fu il mese successivo che gli eventi precipitarono. Me ne accorsi una mattina mentre accompagnavo i miei figli a scuola, quando già sull’ampia strada che circumnavigava il centro storico notammo una strana frenesia, piuttosto insolita in una città che si voleva metropoli (Montpellier métropole, l’ottava – o la settima – città di Francia, la capitale di una regione inesistente, eccetera eccetera) ma che in fondo rimaneva una cittadina, e forse proprio per questo ci piaceva. Però quel giorno le persone avevano uno strano modo di camminare, insoliti erano i loro gesti e i loro sguardi, più simili a quelli dei parigini che dei francesi del sud. All’inizio cercai di minimizzare e risposi alle domande dei miei figli, che si facevano sempre più ansiosi – mi ricordo che mia figlia ad un certo punto si era fermata, come bloccata, e avevo dovuto operare una forza maggiore con il braccio che le teneva la mano, quasi trascinandola. Ma avevo pensato che si trattasse di un semplice capriccio mattutino – con una battuta sui parigini che erano andati a vivere a Montpellier perché stanchi dei ritmi della capitale e ora, in preda ad una curiosa crisi d’astinenza, si comportavano come se vivessero ancora a Parigi. Arrivati davanti alla scuola, però, era chiaro che quella mattina stesse succedendo qualcosa.
Un paio di donne piangevano, altre si stavano asciugando le lacrime. La maestra di mio figlio più grande non era in classe, ma aspettava fuori dall’edificio, circondata da un nugolo di mamme fumanti (fumanti però sigarette elettroniche, che a Montpellier erano molto diffuse). Ricordo che provai un piacere sottile (mi vergogno a dirlo) per il disagio di questa donna, che altrimenti si mostrava fredda e incredibilmente razionale in ogni occasione. Anche quando parlava dei problemi di apprendimento dei bambini, persino quando parlava con i genitori del bambino in questione (ed era successo anche a noi), era distaccata, non direi sadica e forse nemmeno poco partecipativa, semplicemente “tecnica”, precisa, di una precisione che mi spaventava. Vederla così, quella mattina, generò in me un ridicolo senso di superiorità. Poiché ero spesso a disagio, in occasioni e con persone diverse, vedere in difficoltà una persona che non lo era quasi mai mi faceva sentire una sorta di esperto della situazione. I miei figli invece erano felici e stupiti al tempo stesso. Felici perché molti loro amici erano fuori scuola e si erano riuniti in un parco minuscolo adiacente alla via in cui era l’entrata, ma anche lievemente spaventati, perché capivano che in quel giorno di giochi e vacanza inattesa c’era qualcosa di strano, forse di pericoloso, che faceva addirittura piangere gli adulti.
Una donna, la madre di un ragazzo che faceva la quarta elementare (mia figlia faceva ancora la materna e mio figlio era in seconda, dunque non la conoscevo) era sparita quella notte. Era stato il primogenito, ormai maggiorenne, a dare la notizia alla polizia. La donna era apparentemente molto conosciuta a scuola perché non si tirava mai indietro quando c’era da partecipare a qualche iniziativa: accompagnare i bambini in piscina o al cinema, organizzare festicciole, preparare i dolci per i due o tre grandi avvenimenti annuali. La sua scomparsa era davvero scioccante per chi la conosceva, anche perché la donna, musulmana non praticante, aveva da poco perso il marito e viveva della sua pensione di reversibilità e di altri aiuti sociali, non essendo riuscita a trovare lavoro. Mi chiesi in quei momenti concitati se presto avrei visto la sua foto affissa su qualche muro della città e se anche il suo viso mi sarebbe risultato sconosciuto, come quello delle donne precedenti (in realtà dovevo averla vista all’uscita di scuola, ma non la ricordavo affatto).
Era chiaro che quel giorno non ci sarebbe stata lezione. Dovetti insistere per riportare i bambini a casa e una volta tornato spiegai tutto a mia moglie. Entrambi eravamo molto scossi, nonché abbastanza indaffarati a trovare soluzioni di emergenza, visto che più tardi saremmo dovuti andare al lavoro. Era la prima volta che la storia delle donne scomparse entrava nella nostra quotidianità.
I bambini rimasero a casa per tre giorni, perché la polizia voleva iniziare le indagini proprio dal complesso scolastico che la donna frequentava. Era ormai evidente che la pista degli investigatori riguardasse i legami con il terrorismo. Quale poteva essere la ragione di tutte queste “sparizioni”? Sembrava che i mariti non c’entrassero nulla, al limite potevano essere collusi anche loro con i fondamentalisti. Già quindici erano le donne sparite nel nulla da un giorno all’altro, elemento che gettava nel panico l’opinione pubblica prima regionale e poi nazionale, e che ovviamente screditava l’operato e la credibilità dei servizi segreti. Come facevano a non capire dove fosse la cellula centrale di reclutamento?
Sui giornali in quei giorni non si parlava d’altro, e anche all’università un paio di colleghe (una di italiano e una di inglese) mi chiese di partecipare a dei seminari sul femminismo arabo dalle primavere del 2011 alle terroriste attuali. In realtà mi sentivo a disagio all’interno di queste discussioni: avevo ancora la sensazione (l’illusione?) che questa storia non mi riguardasse in prima persona, che come italiano “ospite” in Francia (questo mi sentivo, non posso proprio negarlo) forse non ero la persona adatta perché emotivamente sentivo una certa distanza da tutto. Poi, questa storia delle terroriste… nessuna delle donne scomparse aveva rilasciato dichiarazioni, neanche l’Isis aveva rivendicato il loro reclutamento, mi chiedevo con una punta di sarcasmo se magari non se ne fossero andate altrove, semplicemente stanche del clima sempre più pesante che si respirava in Europa.
A Montpellier la vita quotidiana stava già cambiando: c’erano controlli dappertutto e i tram, che già erano pieni prima delle scomparse, ormai avevano almeno dieci uomini armati con il mitra che si guardavano intorno sospettosi. Prendere i mezzi pubblici era diventato talmente difficoltoso che mi ero finalmente deciso ad andare in giro in bicicletta, nonostante la mia goffaggine e la mia proverbiale distrazione, fra l’ilarità di mia moglie e dei miei figli, che anche in quei giorni avevano trovato un motivo per essere allegri. E non posso dire che fossero giorni tristi, per noi. La nostra vita andava avanti nonostante tutto, nonostante i controlli la mattina a scuola anche alle cartelle dei bimbi, nonostante la necessità di mostrare un documento prima di entrare al supermercato, nonostante le restrizioni allucinanti sugli spostamenti in macchina (fare un fine settimana fuori dalla regione era diventato complicatissimo). I cinema e i caffè si stavano svuotando, ma la gente, obbligata a rimanere in città per le leggi speciali, non poteva andarsene, quindi tutto il centro era percorso da una massa informe di persone che camminavano indecise e impaurite: sarebbe stato rischioso andare a comprare il pane nella panetteria biologica con tutta quella fila? E quella donna velata che ci stava camminando accanto proprio in quel momento, quando sarebbe partita per organizzare un attentato?
Non era una di quelle situazioni descritte da Camus nella Peste, in cui la città di Orano reagisce all’epidemia con uno slancio di insensata e incosciente vitalità. Qui, di fatto, a parte il dolore per le famiglie delle donne scomparse, non era ancora successo niente. Ma era proprio questo a paralizzare la città: che cosa sarebbe accaduto? E soprattutto: quando? Sembrava una questione di giorni, se non di ore, e Montpellier appariva lo snodo centrale di tutta la vicenda; ricordo che i pochi autoctoni giravano tronfi con un senso di rivalsa nei confronti dei parigini, che ora erano loro al centro della Francia. Avevo pensato che anche nelle tragedie, o forse proprio nelle tragedie, non vi sono argini all’umana idiozia. Eppure anch’io esageravo, perché nessuna tragedia era in realtà accaduta e solo la folle tensione del momento ci aveva convinto che la stavamo solo aspettando e che il futuro ci avrebbe riservato delle novità terribili. Nessuno, né nei media né fra la gente comune, aveva provato ad affrontare la questione da un altro punto di vista: e se non fossero terroriste? Se fossero andate altrove? Se non ritornassero più? Perché nel frattempo, nonostante i controlli e tutto il resto, le donne non avevano mai smesso di scomparire. E avevano sempre gli stessi punti in comune: musulmane (più o meno praticanti), velate, provenienti da quartieri popolari, fra i venti e i quarant’anni. Si contarono alla fine più di settanta scomparse, e il fatto di non riuscire assolutamente a capire che fine avessero fatto (se erano arrivate in Siria perché non vi era ancora nessuna traccia o rivendicazione?) stava facendo impazzire le istituzioni. Il Presidente della Repubblica era già venuto in visita ufficiale tre volte, senza contare le varie sfilate di ministri e sottosegretari assortiti. Per l’opposizione – e per Marine Le Pen in particolare – tutta questa faccenda era una manna dal cielo: potevano sparare a zero sull’inettitudine di un governo già debole di suo, che davvero al momento non sapeva che pesci pigliare. E Hollande, che da quando era stato eletto mi sembrava l’incarnazione maschile dell’inadeguatezza, era stato finalmente messo nel suo ruolo naturale, quello in cui si sforza affannosamente di spiegare qualcosa che egli stesso non ha capito.
Certo che, ironicamente, si poteva affermare che se lo stato non avesse risolto l’enigma in poco tempo la città si sarebbe estinta, perché di donne ce ne sarebbero state sempre meno, quindi o trovavano una soluzione o chi avrebbe fatto figli? Sembrava quasi che il problema della sovrappopolazione nei quartieri popolari fosse in via di risoluzione… Dall’Italia amici e parenti continuavano a scriverci e telefonarci: le hanno ritrovate? Quante ne sono sparite? Ne sono scomparse altre? Com’è la situazione laggiù? (mio padre diceva “laggiù” per indicare la lontananza, anche se Montpellier era più a nord della città italiana in cui viveva). Mia madre invece si era preoccupata del cibo: ma arrivano i rifornimenti a Montpellier con tutto questo casino? Vi serve qualcosa? Le salsicce ce le avete? (mia madre era ossessionata dalle salsicce, pensava che un paese dove non c’erano salsicce fosse irrimediabilmente arretrato). E comunque insieme a mia moglie ci rendemmo conto che anche quella situazione eccezionale era ormai diventata normalità, e che nella nostra giornata non ci dava più fastidio perdere un’ora per i controlli e per le file che si creavano. Anche la tensione, pur sempre intensa, aveva qualcosa di surreale, o comunque di meno spaventoso rispetto a pochi giorni prima: sembrava di assistere ad una riproposizione moderna della fiaba Al lupo! Al lupo!, in cui però il lupo non arriva mai.
E invece tornarono. In due settimane e in rigoroso ordine cronologico di sparizione. Prima la signora più in là con gli anni, di cui avevamo visto la fotografia alla Mosson. Venne avvistata proprio lì, all’uscita degli uffici della Caf, con l’aria spersa (così dicevano i giornali) di chi è appena tornato da un lungo viaggio e non ha ancora recuperato dal fuso orario. Polizia, esercito e servizi si erano messi subito all’opera; la donna (e con lei tutte quelle che erano “riapparse” nei giorni e nelle settimane successive) era stata sottoposta ad una serie di interrogatori, schedata, tenuta in fermo per diversi giorni, senza però che nulla, ma proprio nulla, si venisse a sapere sui motivi della sua assenza e sul luogo in cui era andata a finire. La città di Montpellier aveva contato settantotto sparizioni e altrettanti ritorni, e in una città non grandissima (dentro le mura faceva duecentoquarantamila abitanti) queste persone “toccavano” la vita di altrettante famiglie: facendo un rapido calcolo per difetto, si poteva affermare che almeno cinquecento persone erano state direttamente colpite dalle sparizioni. Dopo i primi interrogatori apparivano chiare due cose: le donne non avevano alcun legame fra loro (o fingevano molto bene di non averlo) e nessuna di loro si ricordava che cosa fosse successo. Ai media assetati di notizie, le dichiarazioni delle donne apparvero per lo meno deludenti: una lista infinita di banalità quali “non so, non ricordo, proprio non riesco a ricordare” e soprattutto quell’aria spersa che sembrava non abbandonarle mai.
L’unica cosa davvero diversa dopo il loro ritorno era che la vita, in città, era tornata alla normalità. In quell’inverno incredibilmente mite (lo era stato anche l’autunno, perché ricordo che eravamo andati al mare a metà novembre), dove a febbraio sembrava di essere in marzo e a inizio marzo già in primavera inoltrata, Montpellier era bellissima, viva, come se l’esperienza di essere stata per qualche settimana al centro della Francia (e quindi per la percezione comune al centro del mondo) le avesse dato una nuova personalità. Sembrava ora una città, non più una cittadina. I movimenti civili locali e nazionali si erano subito impegnati a denunciare abusi e irregolarità nei fermi e negli interrogatori: quelle donne, fino a prova contraria, erano innocenti e non avevano commesso alcun reato, in uno stato di diritto com’era la Francia non era possibile sottoporle ad una tale pressione psicologica e limitarne in questo modo la libertà. All’inizio a questi movimenti si erano aggiunti i parenti delle scomparse/riapparse, quelle cinquecento persone che costituivano il nucleo cittadino direttamente sconvolto dagli avvenimenti. Ma dopo i primi colloqui privati con le donne, curiosamente la maggior parte di loro aveva deciso di abbandonare qualsiasi impegno politico a riguardo.
A lezione incontrai più volte la studentessa italo-tunisina la cui cugina era stata una delle prime a sparire. Una mattina, per l’esame di metà semestre, venne nel mio ufficio per l’interrogazione orale. Eravamo solo io e lei, e mi sembrò il momento opportuno per chiederle come stesse la cugina e più in generale come andassero le cose ora che era tornata a casa. Ricordo anche di aver cercato inutilmente segni di tensione o stanchezza sul suo viso. “Sa, è soprattutto mia sorella grande che ci era legata, hanno la stessa età e anche in Italia erano molto amiche. Ora che è tornata a casa però mia sorella non la vede quasi più. Non so, dice che è strana…”
La risposta della studentessa mi stupì: e certo che era strana! Dopo tutto quello che le era successo, dopo la scomparsa, il ritorno, gli interrogatori, come voleva che fosse? Ma proprio quello era il punto: che cosa le era successo? Mi sembrava evidente che, nei rapporti privati come all’interno della società, queste donne non potessero riprendere la loro vita precedente prima di dare spiegazioni razionali su quello che avevano passato, sui motivi e sui luoghi in cui erano state nei giorni di “assenza”. Perché i giornali, dopo l’ossessione del terrorismo, ora iniziavano ad avere un’altra paura: l’inesplicabile. Nessuno voleva ammettere di non capire, tutti avevano bisogno di sapere. Le donne riapparse non erano mai chiamate realmente in causa: gli interrogatori servivano in realtà per tranquillizzare noi, del loro stato d’animo in fondo non interessava a nessuno. Noi avevamo continuato a vivere nella paura mentre loro non c’erano, noi avevamo avuto il terrore degli attentati, noi vivevamo in uno stato di polizia, noi eravamo angosciati dal loro silenzio e sempre noi volevamo a tutti i costi tornare alla vita “di prima”. Forse era proprio questo il problema: forse a loro la vita di prima non piaceva, e quello (l’assenza, il ritorno, il silenzio ostinato) era l’unico modo per manifestarlo.
A pensarci bene anche la vitalità della città in quel periodo aveva qualcosa di falso. Al telefono avevo convinto mia madre a non venire per Pasqua, saremmo scesi noi ora che avevano riaperto le frontiere; non so perché ma quell’euforia generale mi sembrava stupida, mentre le donne, con quel loro silenzio intervallato da poche parole senza importanza, sembravano giudicarci in continuazione ed era proprio quello sguardo strano e severo (ne avevo incontrata qualcuna per strada, a Montpellier è impossibile non incontrare qualcuno che si conosce e poi loro avevano un’aura particolare intorno) a mettermi a disagio.
Così avevamo deciso di tornare per una settimana in Italia e i bimbi sembravano molto felici, e anche io e mia moglie, che di solito percepivamo come estremamente faticose le rimpatriate fra famiglia e amici d’infanzia, non vedevamo l’ora di partire. Nelle ultime due settimane prima del viaggio, ogni volta che andavo a prendere a scuola i bambini, loro mi raccontavano qualche aneddoto in cui avevano detto a un amichetto o un’amichetta che loro erano fortunati, partivano per l’Italia, e in brevissimo tempo nelle loro classi si era diffuso questo strano concetto di “fortuna”. Chi aveva parenti o famiglie all’estero (o semplicemente chi aveva soldi per andarsi a fare una vacanza) era diventato improvvisamente “fortunato”. Il tutto mi sembrava molto poco francese, ma inizialmente lo associai al senso di avventura e scoperta tipico dei bambini. Solo in seguito capii che i miei figli, e con loro i compagni di classe, ci stavano dicendo un’altra cosa: scappate, voi che potete, andatavene via.
E poi ci fu quell’aggressione, neanche tanto violenta né così inusuale: alla coda in panetteria, una fila di gente che terminava sul marciapiede, un ragazzo abbastanza giovane che chiedeva ogni tanto l’elemosina e altre volte semplicemente soldi mentre giocava con tre palline, iniziò a insultare una donna che non gli aveva risposto. Era una di “quelle”. “Araba di merda, ehi mi senti, araba di merda, a te sto dicendo eh? Sto dicendo a te!”. Non so se l’uomo l’avesse riconosciuta – come dicevo prima, era difficile non riconoscerle, perché emanavano un’aura particolare, camminavano lentamente e a testa alta, e intorno a loro si creava una sorta di vuoto silenzioso che le accompagnava come un lento corteo -, certo è che tutti si girarono come se avesse insultato una divinità. O qualcosa di peggio. Si girò anche la donna, e parlò piano, ma con voce molto distinta: “Forse preferivate quando eravamo via, vero? Eppure mi sembrava che aveste paura. Ma non c’è problema, possiamo andare via di nuovo”.
Se esiste una sensazione di terrore diffuso, io la provai quel giorno e in quel momento. “Loro” ci guardano, pensai, “loro” ci vedevano anche quando erano via, ci controllano e ci giudicano, e noi non siamo all’altezza, non passiamo l’esame. L’uomo si ammutolì immediatamente e iniziò a giocare in silenzio con le sue palline – sembrava che neanche i suoi gesti facessero rumore – mentre la fila davanti alla panetteria si ricompose. Io me ne andai, dissi a mia moglie che la baguette era finita e che avevamo comunque il pane in cassetta, ma non le raccontai nulla dell’episodio. In quel momento pensai che sarei voluto essere dovunque, ma non a Montpellier, non in una città dove le donne spariscono e poi riappaiono, dove la polizia sale con i mitra sul tram, e dove non si capisce più nulla, chi è pericoloso e chi non lo è, chi è colpevole e chi non lo è, e come fare per salvarsi. Però la parola “terrorismo” in quel contesto mi apparve adatta, forse per la prima volta. Perché io sì, io ero terrorizzato.
E sentivo che anche la città, al di là di quell’euforia di facciata, viveva quel momento (alcuni giornali lo chiamavano il “risveglio” da quando quella donna, per la prima volta dopo il ritorno, aveva preso la parola davanti alla panetteria) con un’angoscia se possibile ancora maggiore rispetto ai giorni della scomparsa; in quel periodo infatti c’era ancora l’illusione che tutto si sarebbe risolto in maniera razionale, ma ora non c’erano dubbi: non avremmo mai saputo cos’era successo e questa nostra ignoranza, questo nostro non sapere, davano a quel gruppo di donne un potere immenso.
Mai ritorno in Italia, dicevo, fu più agognato e fonte di serenità. All’inizio nessuno, fra familiari e amici, ci subissò di domande sull’accaduto, forse per delicatezza nei nostri confronti o forse perché semplicemente tutto quello che potevano chiederci ce l’avevano già chiesto per telefono o per mail. Fino a quando andai a pranzo da mio padre, il terzo o quarto giorno, da solo, senza mia moglie né i bambini. Mentre lo accompagnavo al mercato, mi resi conto per la prima volta che ormai il suo quartiere era diventato multietnico, proprio come era accaduto ad altri quartieri limitrofi. Alla vista di una donna velata, istintivamente mi girai a guardarla, memore di tutto quello che era accaduto e che stava ancora accadendo a Montpellier. Mi resi conto in quel momento che non ero il solo a guardarla: anche mio padre, anche le altre persone sulla soglia del mercato si erano girati, mentre lei continuava a camminare con la testa alta e lo sguardo intenso. Prima di quel che avevamo vissuto in Francia avrei preso quegli sguardi per semplici manifestazioni di strisciante razzismo, ma ora mi rendevo conto che dicevano ben altro: “non sparire, ti prego, non sparire”, dicevano i nostri occhi verso di lei. “O se vuoi per forza sparire, allora non tornare più! Non fare come hanno fatto le altre, che ci hanno lasciato qui, con la nostra ignoranza e la sensazione di essere uomini stupidi in attesa di giudizio”. Se prima la gente non si vergognava a mostrare disprezzo, ora aveva solo un terrore freddo.
Né io né mio padre proferimmo parola (e che avremmo dovuto dire, in fondo? Che avevamo guardato una donna che camminava? Che eravamo spaventati?). Entrammo al mercato e sempre in silenzio comprammo le triglie che avremmo cucinato a pranzo.
Il giorno prima della partenza un collega mi telefonò sul cellulare italiano, risposi controvoglia temendo una delle solite grane burocratiche così tipiche dell’amministrazione universitaria francese. “Hai sentito quello che è successo qui? Siete già tornati? Quando avete intenzione di tornare? Le donne hanno…”.
Interruppi la comunicazione e guardai mia figlia che stava giocando con un nuovo regalo ricevuto dai nonni. Poi guardai mia moglie e non ci fu bisogno di alcuna discussione.
Non saremmo più tornati.
Non sarebbe servito a niente, ma non saremmo più tornati. Quel mondo che stavano creando era forse migliore di quello in cui avevamo vissuto fino ad allora, ma ci faceva troppa paura. E non avevamo neanche illusioni: presto sarebbero sparite e tornate anche qui…