Sarebbe andato a Firenze con un altro tesserato per ascoltare il comizio del segretario nazionale del partito. Aveva previsto una breve sosta ad Assisi. Mi chiese se gradivo accompagnarlo. Ci legava una solida amicizia, di quelle che tempo e lontananza sembravano addirittura aver consolidato. Lasciare anche solo per un giorno il paesaccio in cui mi ero sepolta viva, calcare le orme del Poverello anche solo per un’ora, trascorrere una giornata intera con l’amico mi parvero ragioni più che valide per accettare l’invito.
Ci lasciammo alle spalle i gialli campi marchigiani. L’Umbria sembrava essere ancora verde. Dagli affreschi della Basilica di Assisi l’azzurro straripò per inondarmi lo spirito, facendo riemergere il ricordo di una tavoletta, azzurra anch’essa, su cui spiccava il volto di Francesco. Mi era stata regalata e l’avevo conservata gelosamente perché amavo quell’uomo, soprattutto per la scelta di povertà che aveva saputo fare, radicale, definitiva. Mi ero disfatta della tavoletta, insieme a tutto ciò che possedevo, quando avevo deciso di partire per l’Amazzonia.
L’angolo appartato della Basilica nel quale mi ero sistemata propiziò la riflessione. Sentii il pensiero andare e venire attraverso epoche e aree fra loro molto lontane. Ero rientrata in Italia da quasi due anni. Con gli interlocutori brasiliani mi ero vantata spesso di essere una corregionale di Francesco, e anche del fatto che la nostra Umbria meritasse la qualifica di “verde”. Poiché a dividerci, in Amazzonia, non erano più solo i secoli ma anche la dimensione fisica e culturale, gradualmente il ricordo di Francesco andò sbiadendo fino a che, quale esempio individuale di ispirazione per un’esistenza da viversi con sobrietà, venne sostituito dall’intera società indigena con e per la quale stavo operando. Pur non essendo cristiani, gli Yanomami non accumulano e non sprecano, ma niente manca loro. Pur non essendo monoteisti, grazie alla sacralità con cui si rapportano a ogni elemento della natura, hanno preservato intatto fino ai nostri giorni l’habitat lussureggiante, generoso, in cui da millenni vivono.
L’amico mi avvertì che era ora di ripartire, ma fece una piccola deviazione per contemplare un chiostro attiguo, stilisticamente raffinato, accogliente, silenzioso. Lì pronunciò parole emozionate, facendomi partecipe di ciò che sentiva. Ai suoi occhi, il complesso architettonico della Basilica materializzava eternità e fede: secoli trascorsi e in divenire; pietre ed affreschi ad irradiare l’immagine di Dio; atmosfera statica veicolante concezioni solide, inattaccabili, definitive. Al momento non seppi spiegarmi come fosse possibile, ma le certezze dell’amico in me si insinuarono sotto forma di dubbio.
Della Firenze di quel giorno ricordo che dal parcheggio al luogo del comizio percorremmo un lungo tratto a piedi; fortunatamente potetti farlo riposando gli occhi nell’Arno. Nessuna parola dell’oratore mi parve brillante, originale, meritevole d’esser trattenuta, per cui finirono tutte nel fiume.
La terra tremò molte volte. Scosse leggere e forti si susseguivano. Io le sentivo tutte, anche quelle lievi e notturne non percepite dai dormienti. Le sensazioni suscitate dal terremoto possono essere devastanti quanto i danni che può causare. Lunga, forte, rumorosa, raccapricciante fu la scossa delle ore undici e quarantadue del ventisei settembre. Fra Marche e Umbria ammazzò otto persone e ne ferì molte, ridusse paesi interi in macerie. In televisione trasmisero le immagini, che erano state riprese in diretta, di quello che sarebbe divenuto il simbolo stesso del terremoto: il crollo delle volte della Basilica di San Francesco, in Assisi, che trasformò affreschi attribuiti a Cimabue e Giotto in un immenso puzzle. A quella vista, sentii cadermi addosso le parole proferite dall’amico nello stesso luogo solo quattro mesi prima e all’istante smisi di considerarlo il dio infallibile che fino a quel momento avevo creduto fosse.
Scrivo il presente brano a distanza di quattordici anni da quel terremoto. D’allora le numerose scosse di un altro sisma si sono susseguite, forti o leggere, fino all’ultima di pochi giorni fa. Condividendo ormai la stessa dimensione fisica e culturale, nell’amico l’immagine della volontaria operante in Amazzonia deve essere sbiadita al punto da sostituirla con un’altra nella quale, però, non mi identifico. Le telefonate si son fatte rare, le visite cessate, gli incontri divenuti sporadici e frustranti. Qualunque sia l’argomento di conversazione, crede di dovermi sistematicamente contraddire, si direbbe per punto preso; ma accade anche che mi lasci parlare senza ascoltarmi. Non abbellisce più la conversazione con battute di spirito e risate. Ha sostituito piccole attenzioni con silenzi, ritardi, omissioni. Essendo l’esercizio della scrittura estensione fisica della mia stessa personalità, ciò che più mi ferisce è la sua totale indifferenza rispetto al mio procedere in merito. Infine, si è lasciato scappare l’affermazione che essendo faticosa la gestione del rapporto con una persona come me, di simili conoscenze gliene basta una. L’asserzione ha provocato una lunga, forte, rumorosa, raccapricciante scossa, quella che ha trasformato in puzzle un’amicizia.
Piacere di stare insieme, comprensione, dialogo, reciprocità, complicità, sensibilità, intesa, condivisione, compassione: nell’opera d’arte intitolata “Amicizia” tali sfumature appaiono tutte. Fortunatamente, l’ultima scossa del lungo terremoto ha distrutto una riproduzione e non l’originale!