Mia Lecomte
Autobiografie non vissute –
Piero Manni ed. – S.Cesario di Lecce, 2004
pp. 64 – 10 €
angelo maugeri
La recente pubblicazione di Autobiografie non vissute prosegue l’opera poetica di Mia Lecomte aggiungendosi alla raccolta di versi dal titolo Poesie del 1991 e ai testi di Geometrie reversibili del 1996.
È evidente che l’autrice, intrapreso ben presto il proprio lavoro poetico, lo ha praticato senza soluzione di continuità, pur coltivando nel contempo altri generi letterari, come il teatro e, a partire da un’epoca più lontana, la fiaba. Ricorderò, di sfuggita, i libri per bambini La fiaba infinita e La fiaba impossibile(1987) e le pièces teatrali L’amore disamato (1989), Brava bambina (1995) ed Eroici stracci (1996).
Ho voluto ricordare la fiaba e il teatro perché, in Mia Lecomte, è possibile rintracciare, per quel che riguarda gli interessi letterari, una sorta di circolarità che le consente di passare, direi in modo trasversale, dalla fiaba alla poesia e al teatro dando una specifica impronta unitaria alla sua opera letteraria.
Nel dispiegarsi dei testi raccolti in Autobiografie non vissute è come se l’autrice lasciasse qua e là, nel bosco-libro, i sassolini-segni di un percorso che poi tocca al lettore scoprire.
Per esempio, c’è una poesia (quella intitolata “Natali“), ed è l’unica di tutto il libro con questa connotazione, che ha l’andatura delle filastrocche e apre uno scorcio di leggerezza apparentemente ludica nell’impianto drammatico dell’intera sezione (“Litania del perduto“) in cui è collocata. Ma nel volume c’è anche una poesia che già nel titolo “Fiaba” – la prima della sezione “Replica a soggetto” – esplicita l’assunzione di un ritmo e di un tono che corteggia, appunto, il genere fiabesco. D’altra parte, a guardar bene, già il titolo della sezione in cui è contenuto il testo di “Fiaba” allude in modo esplicito alla tipologia teatrale, e precisamente a una modalità della commedia dell’arte. “Replica a soggetto“, infatti, sembra proporre quasi degli “a parte”, dei testi-monologhi come riflessioni-risposte appunto “a soggetto”, riferite a situazioni e “scene” diverse. Detto questo, però, bisogna rilevare che ciò che domina prevalentemente ogni singolo componimento è l’accento lirico, lasciando sotto traccia, come una citazione puramente affettiva, il senso del fiabesco o del teatrale. Rovesciando i termini, potremmo dire che è l’afflato lirico quello che domina l’intera opera letteraria di Mia Lecomte. È giusto, quindi, insistere sull’aspetto lirico che informa e vivifica tutti i testi di Autobiografie non vissute perché quello di Mia Lecomte è un lirismo che rifugge dagli accenti fortemente sentimentali: è un lirismo contenuto, controllato, discreto, ma nel contempo morbido, sensuoso, fortemente femminile o, meglio, femminilmente forte, come qui:
“Puoi annusarmi ora / dietro il collo e l’orecchio / nella facile conca / sotto il braccio levato / con cui tengo i capelli / una ciocca è sfuggita / tra le scapole appena / si apre piano una crepa / che spartisce il mio corpo / in due sponde gemelle / giusto solo un accenno / preso a falce alle reni e poi / il tratto profondo in cui corre / tutto intorno il mio spazio / una sfera di odori / che tu segui vicino accompagni / all’altro capo del fiato / riconosci presto densa di me” (pag. 33).
Dal punto di vista dei contenuti, poi, quello di Mia Lecomte è un lirismo assorto, riflessivo, pensieroso, quando non dialogico-dialettico, come è evidente in quest’altro testo, grazie all’uso dei verbi nel modo infinito (“traboccare”, “riversare”, “infiltrare”, “impregnare”, “non volere”, “non sapere”):
“Traboccare insieme / dalla veglia al sonno / dal sonno alla veglia / riversare di nuovo / l’appartenenza / e la perdita / allagando e ancora / essiccando / la porosità dei corpi / dal giorno alla notte / dalla notte al giorno / infiltrare lo slancio / e l’attesa / il gesto e la posa / affiancati e distanti / impregnare ogni volta / l’incedere rauco / da parola a silenzio / da silenzio a parola / l’addio e il suo rovescio / prosciugati / tra non volere e sapere / e non sapere e volere. (“Flussi”, pag. 45)
Sotto il profilo cronologico, le sezioni del volume appaiono collocate a ritroso. Si parte dalla serie introduttiva senza titolo, che comprende presumibilmente gli ultimi scritti, per arrivare a “Litania del perduto” che risale al 1996-1997, passando attraverso “Metamorfosi engadinesi” del 2002-2003, “Periodo ipotetico” del 2002 e “Replica a soggetto” del 2001-2002.
Questo procedere à rebours – impaginazione cronologica non nuova nella poesia del Novecento – ha sicuramente la propria ragion d’essere in una concezione attualistica del tempo, in base alla quale il tempo non si annulla ma fonde in un solo punto anteriorità e posteriorità: “Voglio averti trasversale nel tempo / ripercorsa tra passato e futuro, / … / condivisa, dalla madre alla morte” (pag. 38), scrive Mia Lecomte.
Ciò appare più evidente fin dalla suite introduttiva di Autobiografie non vissute. I cinque testi che la compongono – folia sine nomine – costituiscono una sorta di Incipit che apre l’orizzonte poetico e il significato di tutto il libro.
Dai primi versi, infatti, traspare il senso che Mia Lecomte ha della vita con un’affermazione perentoria: “Vita è quello che rimane / quando si è perduto tutto” pag. 11).
Il senso della vita viene fatto reagire con quello della fine inserita nella dimensione del tempo, in un continuo passaggio dal presente al futuro, inteso come ipotesi di un rinnovamento, attraverso la constatazione del già vissuto e il rimpianto del passato: “E allora / di nuovo tutti i tuoi addii / ad anticipare gli addii / la tua nostalgia del futuro / ad anticipare il futuro / nato di nuovo / con una vita conclusa / che avevi già vissuto / e ricominci ora a rimpiangere” (pag. 15).
Da sottolineare l’accento sul futuro. Difatti, ciò che scatta a ripetizione è il futuro guardato come anticipazione, come rinascita (“nato di nuovo”) ma anche, rovesciando i termini, come nostalgia, che è sguardo al passato e suo rimpianto. Pur immaginando il futuro, è l’atto del rimpiangere ciò che domina il testo, con quella conclusione pacatamente triste: “nato di nuovo / con una vita conclusa / che avevi già vissuto / e ricominci ora a rimpiangere“.
In questa dimensione temporale, Mia Lecomte si serve di nodi e snodi sintattici che sembrano avvitare i pensieri su se stessi, facendoli reagire l’un con l’altro come a darne un senso irraggiungibile, che rimanda sempre ad altro. Una sorta di criptica descrizione della vita nel suo garbuglio esistenziale, nel suo inesauribile porsi e riproporsi come un valore irrinunciabile e non del tutto comprensibile.
La seconda sezione – “Metamorfosi engadinesi” – comprende dieci testi che potremmo definire geomitografici. In qualche modo si riallacciano al “Breve atlante sentimentale” contenuto in Geometrie reversibili. L’ambientazione è nel paesaggio dell’Engadina, una regione molto amata da artisti, filosofi, letterati d’ogni epoca e paese, che spesso ne hanno fatto il luogo di una vera e propria mitografia personale e hanno così alimentato l’immaginario collettivo di un turismo particolarmente attento alle sollecitazioni artistico-culturali.
Riprendendo una formula cara a tanta critica della stagione ermetica, potremmo altresì parlare del paesaggio engadinese come di un paesaggio dell’anima: il luogo in cui l’aspetto esterno tende a interiorizzarsi al punto da diventare emblematico di una situazione esistenziale che supera il dato materiale e tende a divenire esperienza spirituale. In termini di poetica avviene una sorta di passaggio da ciò che è evidente a ciò che è segreto, dal manifesto al nascosto, dal noto all’ignoto, con altre parole dal fisico al meta-fisico. Nella tensione dalla bellezza materiale alla bellezza spirituale, anche la parola poetica si adegua a questa situazione, affiorando dal profondo dell’anima in cerca di una espressione che renda quanto più perspicuo il senso di quella tensione verso quanto è in grado di appagare lo spirito e placarne le inquietudini.
Testi dedicati a toponimi come “Julier”, “Chasté”, “Margna”, “Fex”, “Gravesalvas”, “Roseg”, “Albula”, “Zuoz”, “Guarda” e “S-charl” indicano sicuramente un percorso paesaggistico dai caratteri esteriori ben precisi; d’altra parte, però, operano una selezione di particolari capaci di passare da una forma all’altra – e pensiamo al titolo della sezione: “Metamorfosi engadinesi” – trasferendo le varie suggestioni visive in sensazioni interiori che poi reclamano, con l’urgenza della parola poetica, un nuovo modo di vedere e di pensare le cose. Si veda qui, per esempio, come Mia Lecomte riflette osservando l’Albula:
“Verde, grigia, celeste / sbriciolata sul retro del tacco / viola, bruna gialla / a raschiare nello snodo in attrito / bianca, nera, bianca / impastata alla lingua che chiama / rossa, rossa, rossa / più si bagna più dolora nell’etere, / quel che hai smesso ti precede di un giorno / per pietruzze rotolate nel vuoto / se ne andavano e le guardavi saltare / i colori sempre in tono ai colori. / Lo stambecco, il camoscio, la marmotta / il contorno per tre quarti rupestre / hanno ancora nelle ispide pose / la parvenza del qui nulla è cambiato / si può illudersi mantenendosi in quota / per compenso la più anonima meta / un rifugio che non è mai una casa” (pag. 25).
Le metamorfosi delle quali parla il titolo della sezione consistono essenzialmente nella trasposizione temporale degli eventi e nella traslocazione delle cose, degli animali delle persone cui si fa riferimento nei vari testi. Un esempio – ma non è l’unico, perché numerosi sono i versi in cui si riscontra la medesima modalità espressiva – possiamo gustarlo nella poesia intitolata “S-charl“, tutta giocata sull’azione o situazione parallela:
“C’è sempre un’altra giornata. / L’orso fermo sulla fontana / siede quieto da qualche altra parte / lontano dalla fontana. / E c’è questa fontana e / anche l’altra fontana / col suo orso, più fermo / e lo stesso, al suo posto, più quieto. / In quest’altra giornata / che è già un’altra giornata. / Non avremmo più tempo d’altronde / per attendere che l’orso ci attenda / non avremmo più tempo, altrimenti” (pag. 28).
“Periodo ipotetico” si colloca precisamente al centro del percorso poetico diAutobiografie non vissute. Per questo assume un valore particolare nell’economia del libro. I testi, giocati in maniera alterna tra un “tu” e un “io”, ricordano con altri modi e forme, la suite dialogica intitolata “Condizionali” compresa in Geometrie reversibili. In “Periodo ipotetico” Mia Lecomte si serve di antenne poetiche capaci di catturare i piccoli-grandi movimenti del sentimento amoroso, rilevato attraverso una minuziosa escursione dei cinque sensi. Qui l’io poetico intreccia un ipotetico dialogo con l’altro da sé. E così dall’offerta di sé a un “tu” quale soggetto dell’alterità (“Puoi guardarmi ora“, “Puoi annusarmi ora“, “Puoi toccarmi ora“, “Puoi prendermi ora“) passa, subito dopo, in modo speculare, alla riflessività dell'”io” (“Posso guardarti ora“, “Posso annusarti ora“, “Posso toccarti ora“, “Posso prenderti ora“) per giungere infine alla complicità connotata dall’uso della prima persona plurale: “Possiamo tacere ora insieme“. Un testo, quest’ultimo, che sembra placarsi nella quiete dell’udito (segnalato dalla ripetizione del verbo “tacere”) dopo la tempesta degli altri sensi: “… / possiamo tacere insieme / ancora scanditi dal ritmo / segnati dal tempo segnato, / tacere quotidiani e devoti / battuti in pause più lunghe / che vibrano a perdere / nel cavo dei corpi svuotati, / restare insieme e tacere / il sangue che suona lontano / il resto a portata di mano, che tace” (pag. 39). Ed è altresì un testo nel quale è possibile cogliere i toni della dialettica amorosa che spinge i rapporti umani a intrecciarsi, a offrirsi o a negarsi, catturando le minime sospensioni dell’animo umano. A forte connotazione femminile sono i temi trattati, riconducibili all’eros e ai suoi moti passionali come la gelosia (“Posso prenderti ora / farti entrare al di là di me stessa / nella carne che non è la mia carne / dove albergano insieme le donne / del tuo desiderio incostante / fianco a fianco riunite a introdurti / nel bisogno espropriato di me“, pag. 38) o come la carnalità (“… / Ho la bocca, vedi, sorpresa dal gioco / una mano disgiunta a mostrarti / per quale rito la carne / è capace di farsi preghiera…“, pag. 31; versi che ricordano il celebreTappeto da preghiera di carne di Li Yu, racconto erotico cinese pubblicato nel 1657, che “parla di lussuria per frenare la lussuria, parla di sesso per frenare la passione erotica“).
Nella sezione “Replica a soggetto” si addensano motivi e situazioni, desideri e sogni diversi. Replica significa risposta ma anche ripetizione. Ciò che attiene al senso della risposta sembra indirettamente rivolto a uno o più interlocutori, anche se questi non appaiono o, per meglio dire, appaiono in controluce o addirittura sono presenti in absentia. Il senso della replica, invece, consiste nella circolarità dei temi che si rintracciano come un fattore costante nell’opera di Mia Lecomte: certi luoghi prediletti (Roma, per esempio), ma soprattutto i figli e gli altri affetti familiari. Il che rende maggiormente significativa la dedica del libro “Alle mie famiglie, tutte”, e più precisamente orientativo l’esergo della poetessa polacca Wis=awa Szymborska: “Di tutti gli amori basta quello coniugale e dei bambini solo quelli nati…”
“Litania del perduto” è la sezione più nutrita di tutto il volume e, soprattutto sotto il profilo formale, sembra proseguire più da vicino il lavoro di Geometrie reversibili del 1996.
Anzitutto qui si ripropone, se confrontata con quella delle altre sezioni, la scelta di una versificazione brevilinea, che sembra voler ricalcare molta versificazione post-ermetica del secondo Novecento, ma che in effetti asseconda l’esigenza di un’espressività si direbbe fortemente sincopata, inquieta, in qualche tratto angosciata. Poi colpisce l’unitarietà e la compattezza dei testi che potrebbero essere a loro volta raggruppati in due sottosezioni sigillate da una chiusa in forma di preghiera (“Padre, insegnami ad amare“).
La prima di esse, con cinque testi compresi tra un “Prologo” e un “Epilogo”, fa riferimento a un poeta assistito, personalmente dall’autrice, nei suoi ultimi giorni di vita (la dedica recita: “con Dario”, che presumibilmente è Dario Bellezza; e appare notevole la partecipazione emotiva al caso del noto poeta, segnalata da quel “con”: non “a Dario”, ma “con Dario”). La seconda comprende sei testi costituenti una sorta di commento prolungato alla malattia e alla scomparsa del poeta.
Occorre soffermarsi sul significato di questa sorta di compianto, poiché s’intravede qui, più che altrove, in quale direzione si muova la concezione poetica di Mia Lecomte.
La malattia e la morte del poeta, infatti, sembrano qui assurgere a simbolo ed emblema di un destino poetico per il quale la pietas umana gioca le carte di una religiosità problematica. Religiosità, questa, assai evidente in alcuni versi che fanno riferimento all’Incipit del Vangelo di Giovanni, ma che umanizzano a tal punto la divinità del Verbo – della Parola per eccellenza – da metterla in rapporto e farla coincidere con la stessa funzione poetica, ossia con quella funzione in base alla quale la poesia si fa verbo nella carne dell’uomo. Solo che, al contrario del Verbo divino, il verbo dell’uomo subisce l’insulto della malattia e della morte e si disfa nella carne. Così scrive Mia Lecomte: “E il verbo si fece carne / si fece il verbo carne lieve / luogo cuore / cavi gli occhi / mani appena / quel riflusso nelle acque. / E il verbo si disfece nella carne / si disfece il verbo grave / nodo luogo / occhi mani / acque ferme, amare acque” (pag. 61).
Da notare, tra l’altro, che il titolo di questa poesia – “Scritture” – è di per sé rivelatore dell’area semantica entro cui tutto il testo si muove. E, anche qui, il riferimento alle ‘scritture’ non appartiene all’ordine della rivelazione divina, ma – umanamente – a quello di un’esperienza poetica la cui forza vitale – in termini di originalità, autenticità, ispirazione – deve pagare lo scotto alla morte.
Appare qui, dunque, pur riferendosi analogicamente all’area semantica della teologia del Verbo, un’interpretazione diremmo laica del far poesia: un’esperienza della parola che può, sì, attingere alle fonti dell’ispirazione mistico-religiosa, ma che si rivela, in ultima analisi, carnale, mortale, puramente umana. Da notare, inoltre, che già in Geometrie reversibili era presente un analogo accenno al “verbo” e alla “carne”: “Dal verbo / alla carne / saremmo giunti / segni piccoli / e presto / urgenza / dal ventre / ai vincoli / riaccesi” (pag. 22).
In tutto il libro è rilevabile, del resto, un sottofondo diremmo religioso o parareligioso grazie a spie linguistiche sparse qua e là quali “croce”, “arca”, “rito”, “altare”, “acquasantiera” e così via, che meriterebbero una ricognizione specifica.
La preghiera al Padre (“Padre, insegnami ad amare“) che chiude Autobiografie non vissute offre forse il senso più profondo del titolo del libro nel momento in cui l’orante chiede di essere aiutata ad ascoltare il lamento della vita non sua, di quella vita che non le appartiene e che avrebbe potuto moltiplicarsi all’infinito. È giusto, perciò, concludere con la lettura di questo testo:
“Padre, insegnami ad amare / solo quello che mi è dato da amare / un desiderio senza pugni serrati / ma con le dita socchiuse / per fare scorrere il mondo. / In questo giorno geloso / dammi la forza di avere / senza potere mai avere / e di perdonare il presente / come se ancora non fosse. / Ricordami che non sono nessuno / e non sono nulla / e che se credo di vivere / è perché tu lo credi. / Aiutami ad ascoltare senza tutto il terrore / il lamento della vita non mia / il silenzio incessante e discreto / del tuo amore da sempre per sempre” (pag. 67).
Giugno 2004