Recensioni

C’è modo e modo di sparire

Nina Cassian,
C’è modo e modo di sparire (Poesie 1945-2007) a cura di Ottavio Fatica
traduzione di Anita Natascia Bernacchia, Ottavio Fatica
Adelphi, 2013         € 25

 Sara Di Gianvito

C’è modo e modo di sparire, raccolta poetica edita da Adelphi nel 2013, consente per la prima volta al lettore italiano di gettare uno sguardo complessivo sulla produzione della scrittrice di origine romena Nina Cassian (pseudonimo di Renée Annie Cassian-Mătăsaru), i cui versi, fino a questo momento, sono apparsi nel nostro paese in maniera solo sporadica, per lo più su riviste o volumi miscellanei, con l’unica eccezione di Iarna (Inverno), pubblicata nel 1960. Questa raccolta antologica permette di leggere ora in traduzione italiana un consistente numero di poesie dell’autrice, scritte lungo un arco di tempo che va dal 1945 al 2007, e che comprende sia i suoi versi romeni – tradotti da Anita Natascia Bernacchia – sia quelli inglesi – tradotti da Ottavio Fatica, curatore della silloge – e persino un esempio di poesia in spargano, lingua inventata dalla poetessa.

Nina Cassian nasce a Galați nel 1924, ma già negli anni Trenta si trasferisce con la famiglia a Bucarest, città dove avvia la sua carriera di scrittrice, musicista e illustratrice, e nella quale continuerà a vivere – sotto il regime di Ceauşescu – fino al 1985, anno in cui si reca negli Stati Uniti per un corso universitario, e, presa di mira dalla Securitate, decide di allontanarsi definitivamente dal suo paese d’origine. Nei successivi anni di dittatura, la figura della Cassian è investita, in Romania, da una vera e propria damnatio memoriae, e viene cancellata dai libri di scuola, dalle storie letterarie e dalle antologie, mentre tutti gli appunti e i manoscritti rimasti nella sua casa di Bucarest vengono requisiti e distrutti.

Questa raccolta antologica restituisce dunque due momenti ben distinti della carriera poetica dell’autrice – evidenziati dalla divisione in due sezioni, poesie dal romeno e poesie dall’inglese, intervallate da un breve componimento in spargano – che, pur mantenendo delle affinità di fondo, che consentono una lettura unitaria della produzione della Cassian, mettono altresì in evidenza due nodi ben distinti del suo dettato poetico, segnato da una tardiva rinascita in lingua inglese, che interessa una carriera di scrittura già ben avviata nel paese d’origine.
Leggendo la sezione di poesie tradotte dal romeno, ciò che immediatamente colpisce nella scrittura della Cassian è la vocazione fortemente materica dei versi, segnati da una corporeità ineludibile e a tratti persino ingombrante, che emerge sin dal primo componimento della raccolta, Dedica: «Leggi il mio libro e inebriati / dell’aroma della mia carne» (p. 19), e che rimarrà a fare da filo conduttore di tutta la prima sezione.
Una poesia in cui l’unica garanzia di sopravvivenza sembra assicurata dagli aspetti biologici del vivere, e un posto di primo piano è riservato agli istinti vitali primari:

Ho fame, ho sete,
come il suono mi aggiro nel mondo dei vivi.
Non è da me procedere adagio […].
Avida sono. E succhio e ingoio e volo.
(pp. 33-35)

Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto.
Per la prima volta vedrai i pori schiudersi
[…] e potrai ascoltare
il mormorio del sangue nelle gallerie
e sentire la luce scivolarti sulle cornee
come lo strascico di un abito; per la prima volta
avvertirai la gravità pungerti
come un spina nel calcagno
e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole.
[…] La polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili,
[…] le sopracciglia diventeranno due ferite fresche.
(p. 75)

Ma il risvolto paradossale di questa vitalità biologica è la correlata pulsione di morte che sembra costituirsi in un tutt’uno con essa, fino al compiacimento tratto dall’annientamento e dalla disgregazione del corpo:

Diafani chiodi mi crocifiggono […].
L’importante
è che le mie ferite siano elastiche
[…] e il gemito, quand’è,
mutino in verso!
(p. 29)

La mia anima colta di sorpresa
saltava come una gallina con la testa mozza.
Tutto era schizzato di sangue, la strada, il tavolo del locale
e soprattutto le tue mani incoscienti.
I miei capelli si erano sparpagliati e roteavano
come mostri tra i bicchieri,
ci si attorcigliavano come intorno a respiri trattenuti
e danzavano verticali, sibilanti
e ricadevano ai tuoi piedi, giustiziati.
(p. 77)

Il corpo smembrato sembra anelare ad una tensione rigenerativa, nella violenza fisica di un annientamento che è fusione panica con gli elementi naturali della realtà circostante, con implicazioni di sapore quasi catartico:

Proprio così, proprio così, contorcendomi,
aggranchendomi,
deformandomi come un filo di lana sotto la fiamma,
così mi è dato percorrere
i tanto invocati gradi della perfezione.
(p. 101)

Mi tagliano in due il fiume e la luna
e la notte mi cola come sangue dalla bocca.
[…] Suonava la mia carne sulla lira d’ossa.
(p. 135)

La sabbia rosicchia la mia sagoma.
Scompaio,
divengo con lei una cosa sola.
(p. 219)

E l’annientamento fisico implica come estrema conseguenza la paura-desiderio di sparire, di dissolversi: «A chi appartengo? / […] / E solo quando grido perché sbatto / e solo quando il freddo si promana / e solo quando il tempo di peccato imbratta / mi chiamano: bella. Mi riconoscono: umana» (p. 31). Perché questa dissoluzione, questa scomparsa, sembra essere il prezzo da pagare per una fusione col tutto, fino alla scomposizione e ricomposizione delle proprie membra:

Lasciatemi disporre le mie ossa
diverse da com’erano finora,
le mie ossa, questi fastidiosi ostacoli
che sbarrano la strada alla carne
deviandola, obbligandola alla forma femminile.
(p. 189)

Ho tirato fuori il fegato,
ho estratto i polmoni,
ho estirpato il cuore
e non mi fa più male nulla.
(p. 193)

Per giungere alle estreme conseguenze, per cui il corpo smembrato e ricomposto, fuso col tutto, si identifica con il corpus della poesia, e la scrittura rimane esposta come una ferita aperta, un doppio del corpo di carne, e insieme sua manifestazione più vera e autentica: «Forse non dovevo rimpiazzare / il mio corpo di libri, di carta, di legno, / con il mio corpo effimero» (p. 85). E il rapporto ambivalente che la vocazione materica dei versi instaura col corpo – insieme estasi e prigione – riflette la relazione altrettanto ambigua che l’autrice intesse col corpo surrogato della scrittura. I versi anelano infatti ad un estremo tentativo di controllo del reale, in una tensione plasmatrice e demiurgica destinata a rimanere però sempre interrotta, votata all’impossibilità:

Tutto quello che fai mi appartiene.
[…] Tu non evaderai dalla prigione della mia poesia.
(p. 45)

Oh, giocare alla Genesi, che spasso –
finché la mela rossa non riappare
e la tigre gialla striata e sinuosa non s’avventa
a sgranocchiare quanto scritto nel frattempo.
(p. 25)

La mia protesta linguistica
è impotente.
Il nemico è analfabeta.
(p. 161)

In un accordo impossibile tra il mondo degli oggetti e quello della rappresentazione, realtà in reciproca lotta perpetua: «Sono rimasta altrettanto / vulnerabile, ho conosciuto da vicino / mille oggetti e stati d’animo / ma non sono riuscita a chiamarli per nome / senza che si allontanassero / mutando forma oltre ogni limite, / gettandomi nello sconcerto come in un lago di sangue» (p. 133). Lotta in cui nessuno dei due elementi riesce a prevalere sull’altro, lasciando la questione irrisolta, e la ferita aperta: «Ma non guarisco dalla ferita del secolo, dalla ferita del mondo, / da questi distici fragili» (p. 183). Una poesia che rimane inconclusa, sospesa, e la scelta dei testi operata nell’antologia sembra rendere ancora più netto il passaggio dai versi romeni a quelli inglesi, delineando uno stacco improvviso, un vuoto incombente che sembra fagocitare la scrittura stessa.
Nella seconda sezione, che raccoglie le poesie inglesi dell’autrice, il motivo della scrittura diventa sempre più centrale, mentre perde parallelamente importanza l’attenzione riservata al corpo, tematica costante delle poesie precedenti. È come se, rinata in un’altra lingua, la scrittura andasse ad occupare il vuoto lasciato da quella presenza corporea annientata, dissolvendo l’io di carne e sangue nell’io poetico. E l’esistenza diviene scrittura, atto ossessivamente e disperatamente reiterato: «Carta bianca… / Carta livida… / Scrivi, scrivi, scrivi…» (p. 237), come se «esiliata / tra il feto di ieri / e l’aborto di domani» (p. 239), scrivere il mondo e la realtà fosse l’unica garanzia di dimostrare la loro esistenza: «…Le mie poesie… / le scrivo, le dimentico o smarrisco! Tornano, / allora le cambio – anche se non cambiano il mondo / cambiano me… […] / Sono il mio lascito…ma chi sono gli eredi?» (p. 241).
Ma l’appiglio offerto dalla scrittura è labile, e il mondo intorno si sottrae continuamente, per cui la variegata campionatura di animali e ambienti naturali che interessava le poesie in romeno diviene uno «zoo illogico» (p. 265), una «foresta pietrificata» (p. 267), e la «Scimmia Condannata a Scrivere» (p. 277) è destinata a lottare invano nella difesa frustrata del suo fare poesia, minacciata dal silenzio, tendente anch’essa a smembrarsi, dissolversi e sparire, eventualità di fronte alla quale non viene a mancare, anche adesso, un ironico e paradossale compiacimento:

Io con la mia penna
e l’auspicio che l’inchiostro non finisca
prima di aver registrato l’ennesima sconfitta.
Sono qui che aspetto […] che mi neghino
il diritto alla poesia, a un’arancia,
fors’anche alla condizione di essere umano.
[…] L’impiegato non si lascerà convincere
dalle mie metafore;
quasi quasi desidero veder respinta
la mia rispettosa istanza di poesia
per conformarmi al mio destino
assuefatta al suo comandamento.
(pp. 269-271)

E dunque, se «c’è modo e modo di sparire», quello scelto dall’autrice è dissolversi lentamente nei versi, senza rinunciare però, ancora quasi con ironia, alla possibilità di un ritorno, come emerge dal componimento finale che, lasciato quale irridente testamento, sembra voler mettere in guardia il lettore in vista di una nuova, futura, rinascita:

Pur se verrò sepolta
in una terra aliena:
risorgerò un giorno
nella lingua romena.
(p. 283)

19 giugno 2014

L'autore

Sara Di Giacinto