I buchi neri di Sarajevo è la prima raccolta di racconti che Stanišić pubblica in Italia, pochi mesi dopo aver passato il confine dalla Slovenia, quasi un anno dopo la fuga dalla Bosnia allo scoppio del conflitto con la Serbia. Contrariamente a quanto il titolo e le circostanze potrebbero far pensare, però, l’opera non narra la guerra: la tragedia bosniaca viene suggerita per via indiretta e differita, attraverso i movimenti, i pensieri, i silenzi di uomini e donne sopravvissuti in un sottilissimo e precario equilibrio tra follia, solitudine, proiezioni, ricordi, e il riaffiorare magmatico dei fantasmi del passato e della loro vita prima dello scoppio della follia. Il testo diviene così un’accorata elegia di qualsiasi guerra: la prima e la seconda mondiale, come quella che è in procinto di frantumare la Jugoslavia, e tutte quelle che sono state e saranno.
L’indicazione precisa del luogo e della data al termine di ogni racconto (prassi consueta in tutte le raccolte di Stanišić ) permette di ricostruire la fuga dell’autore da Maglaj (febbraio 1992), ad Ancarano (Slovenia, settembre 1992), a San Dorlingo della valle (Trieste, ottobre 1992) , (si riportano qui le date ultime di permanenza in ciascun luogo) anche se questo viaggio dell’esilio non è descritto nel testo. Il tono dominante è quello ancora incredulo, attonito, anestetizzato dal dolore. E una corda nostalgica pervade le pagine, intrise ora di timore e dolore, ora di speranza, nell’intermittente consapevolezza che la fuga potrebbe divenire un esilio senza ritorno. E così, infatti, sarà: perché lo smembramento in: Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo ha cancellato dalla mappa dell’Europa ciò che era la Jugoslavia. E, con la Jugoslavia, la civiltà, la lingua, la cultura, la ricchezza della convivenza tra le diverse etnie, la vita e la quotidianità dei suoi abitanti:(Non avevo detto che sono musulmana? Oh… è dalle elezioni del novembre 1990 che è diventato di moda precisare dopo il nome, “Io sono serbo”, “Io sono croato”, “Io sono musulmano”!). Eppure non riesco ancora a rendermi conto di come tutto il male del nazionalismo sia affiorato così improvvisamente alla superfice. Spero solo che i malfattori paghino.
La donna, protagonista del racconto che dà il nome alla raccolta, è stata costretta a scappare con i suoi due figli, lasciando il marito in Bosnia; ma ancora spera e crede nella possibilità di una qualche risoluzione: con lo stesso «ottimismo» con cui qualche giorno prima non riteneva possibile che la guerra si stesse abbattendo su Sarajevo e, senza preoccuparsi di fare provviste di cibo, era andata a comprarsi un cappotto nell’allarme generale. Ancora nell’ultimo testo, il racconto-saggio Un grammo di felicità pagato con l’anima, la figura e l’opera di Ivo Andriç, «il Ponte dulla Drina, il Ponte vecchio a Mostar… Rappresentano un’esile speranza nella generale tragedia dei bosniaci, ma una speranza concretizzata nella pietra».
Ne I buchi di Sarajevo, dunque, la simultaneità tra la scrittura e l’incedere ineluttabile della «storia in movimento» lascia ancora dei margini aperti alla speranza. Così l’immagine del sole che tramonta dietro i palazzi, i minareti e i campanili di Sarajevo, formando quasi un’areola dorata sopra la città, diviene l’emblema della possibilità della salvezza per la Bosnia, perché «tutto ciò che si estende nella luce non può sparire nel nulla» (Le scarpe per l’eternità). La solitudine e la tristezza del post-Prima guerra mondiale si incarnano nella splendida figura di «santola», della quale corre voce che parli da sola, che sia strana: ma la cosa poco la tange, perché «il peso e l’incertezza della vita […] non possono essere misurate con la bilancia che è negli occhi della gente (Neve in Piazza san Marco). Un presagio del nazionalismo crescente sembra il primo racconto, Il maniaco, che pur non alludendo alla guerra diviene la metafora dell’allarme generale e della ricerca di capri espiatori, cui si interseca la solitudine di Ana e il suo spogliarsi senza paura davanti al presunto maniaco, che non la tocca e scappa via. Una figura cristologica, eterea, pura, è poi «il Viandante»: dopo avere «scoperto il silenzio di Dio di fronte al male» e visto i primi cadaveri della guerra fratricida, lentamente si trascina alla follia per non divenire schiavo e complice di un sistema dalle mani insanguinate (Il complice; ma si veda anche Il compagno di strada dell’angelo bianco). Ma è solo in I buchi neri di Sarajevo che la guerra entra in maniera diretta, esplicita e totale nella narrazione, laddove prima erano solo frammenti, ombre, sentori: forti e densi, però, più del racconto della fuga obbligata e senza ritorno dalla Jugoslavia.
Rosanna Morace