Racconti e poesie

Il bacio

Aveva letto  Il bacio della mela, ed era partito uno sciame di immagini: il giardino dell’Eden, Eva e l’improvvisa consapevolezza di una sterzata –  possibile, forse, o solo immaginaria: non ci fu  un morso, allora, fu un bacio quel gesto alla base  della storia di tutte le storie che portava con sé un cambiamento o anche dei riferimenti a seguire. E che partiva da un’esperienza sensoriale soprattutto tattile: due labbra sulla buccia di un frutto che doveva essere seducente, liscio forse, o quel ruvido tra color oro e color corteccia che la faceva pensare a un albero preciso, vicino a un ruscello, piccolo e stretto, dove  da bambina costruiva dighe di fango. Allora quel melo lo chiamavano soltanto Il Melo, o Il Melo Accanto Al Ruscello. Oggi sa che i suoi frutti appartengono al tipo chiamato Renette grigie del Canada.

Certo, perché no, c’è chi bacia rospi nella speranza che si trasformino in principi, e chi bacia una mela semplicemente perché se n’è innamorata, o innamorato, della mela come simbolo, come dono – prezioso –  che rimandava al donatore, o invece, perché  proprio essa stessa –  il frutto – era l’oggetto del desiderio.

Dai tempi dei tempi le mele creano nessi, collegamenti;  c’è un filo rossomela  che attraversa le storie del mondo, le narrazioni sulle origini varie, dalla Genesi alle Esperidi, da Biancaneve a Guglielmo Tell. È un  frutto che appare , tondo come la palla d’oro del principe ranocchio, negli indovinelli medievali dove gioca con la omonimia con il male in latino, in libri illustrati e rilegati a mano, e andando avanti nell’elenco invita a fare una sosta insieme alla pera troppo matura dei vecchi proverbi di Gianni Rodari che si fa viva per sottolineare una parentela, pur se lontana, ma anche  per rompere gli schemi, per fare un salto fuori dalla categoria, dalla logica degli insiemi matematicamente precisi.

Si affaccia un altro proverbio “Una mela la giorno”, scontato forse, ma con una poesiola per ragazzi alle calcagna che si è insediata nella sua memoria piena di buchi, e si presenta, quando cerca di ricordare altro:  “Una mela al giorno / toglie il medico / di torno, // specie se hai / braccio potente, / mela pesante / e buona mira: // i medici son gente / prudente / e stanno ben lontani / dalle mele // e da chi le tira!”[1] Poi c’è una poesia d’amore[2] dal titolo  Lovesick  di Carol Ann Duffy, su una mela nascosta in soffitta da una ragazza che non apre più la porta a nessuno perché vuole la mela tutta per sé. Lei è sicura di avercela ancora da qualche parte, non era facile trovarla, tra pile di fotocopie ingiallite e piene di polvere, ma alla fine ci riesce e la rilegge piano piano, sottovoce.

In sintesi, Eva aveva baciato  – non morso  –  la mela, e Adamo  –  forse anche dio  –  erano gelosi, volevano allontanare Eva da quel frutto  perfetto, liscio, bello, tondo –  o quasi – che ricalcava la forma del mondo, del sole, della luna, con qualche linea più morbida. Volevano allontanarla da un oggetto  che parlava ad ogni sfera sensoriale, era perfetto fuori e aveva una vita interiore così ricca, da ogni suo seme sarebbe potuto crescere un albero, e dentro di se teneva già tutto un programma preciso per il futuro.

È così facile che capiti un malinteso.

La perfezione del racconto, diceva il sottotitolo della recensione. Parlava di un autore, bravissimo,  di racconti, John Cheever –  aveva scritto un libro di ottocentoventotto pagine. La prima storia della raccolta, appunto quella di cui parla il recensore, ha suscitato in lei tutta questa produzione di sinestesie, collegamenti, nessi  – a un quadro di Picasso, a Cezanne – punti interrogativi, cellule cerebrali che si linkavano a storie d’amore  – chi baciava e veniva baciata o baciato, perché … chissà … come affermare che la mela non abbia ricambiato.

Potevano nascondere,  quelle parole lette a modo suo – a causa della capacità visiva in diminuzione, della sua sbadataggine, del fatto che non trovava mai gli occhiali quando servivano, delle  troppe ore davanti al computer,  della sua abitudine di far partire una sequenza di immagini mentali prima di aver finito di leggere la prima frase – potevano nascondere una storia lunga lunghissima, un romanzo, un testo teatrale, un film. Invece,  guardando da vicino, aggiustando occhiali, posizione, e pagina del giornale, il titolo da quel vago misterioso offuscato diventava Il baco nella mela, la storia di un sospetto, ci doveva per forza essere un baco, perché la mela fuori era troppo bella, rosea – lo “straordinario colore” di sicuro celava un’infezione nascosta, qualcosa di molto grave.

Un atterraggio brusco dopo un volo allegro, colorato, e poi, questo roseo le dava fastidio – rosei sono i piedi dei neonati, le guance delle giovanette nei romanzi ottocenteschi, ma una mela può essere gialla, verde chiara, rossa, striata d’arancio, o rossa scura. Roseo, invece, è un colore da natura morta, non da frutteto, un colore da mela finta, di plastica, marzapane, o di pietra semi-preziosa.

La recensione era ben fatta, ma a lettura conclusa, ecco una delusione subitanea, e quasi temporalesca, il baco metaforico all’interno, portato alla luce, svelato il segreto, finita l’illusione, un fuoco di paglia che subito si trasforma in un mucchietto di cenere. Ma rimaneva, in uno spazio di pensiero obliquo, e tridimensionale, l’immagine di partenza in cui il contatto tra labbra e buccia era stato celebrato, aveva creato qualcosa, un inizio, un incipit, e aveva lasciato qualcos’altro, tutto il resto, da scoprire.


[1] Stefano e Gualtiero Bordiglioni, da Ambasciator non porta pena. Einaudi Ragazzi 1998, p. 62

[2] MALATA D’AMORE. La traduzione in italiano è di Andrea Sirotti

L'autore

Barbara Pumhosel