“Io sono tra i primi ad aver conosciuto l’emigrazione e la
clandestinità, sono passato attraverso tempi duri e
avventurosi, ho sofferto la fame e ogni genere di
umiliazioni, la solitudine, la nostalgia” (p. 118).
Pap Khouma
Io venditore di elefanti
Garzanti 2006
Lorenzo Spurio
Io, venditore di elefanti è la storia di un povero immigrato africano che, giunto nel nostro paese, finisce per fare il vucumprà con tutti i problemi che questo comporta. Seguiamo il protagonista, riflesso diretto dell’autore Pap Khouma nei suoi numerosi spostamenti: da Dakar, capitale del Senegal, fino ad Abidjan, la vecchia capitale della Costa d’Avorio dove il protagonista impara “a vendere elefanti”. Si tratta della sua prima esperienza con il mondo del commercio e del lavoro, un’occupazione che in Costa d’Avorio rende abbastanza, ma che non è in grado di sposarsi con i desideri del giovane africano. E così, dopo aver lasciato Dakar, il protagonista giunge a Roma, poi a Rimini e al periodo trascorso nella riviera romagnola sono dedicate le pagine a mio avviso più belle del libro. Il protagonista, così come molti altri suoi connazionali, vivono in condizioni di illegalità, in sovrannumero all’interno di un appartamento, privi del permesso di soggiorno e sono dediti alla vendita ambulante. E’ per questo che la loro vita si configura come una fuga continua da quelli che l’autore chiama “gli zii”, ossia la Polizia e più in generale da tutti i “tubab”, termine impiegato in maniera un po’ dispregiativa dai neri per definire i bianchi. Ma in tutto questo l’autore regala anche pagine ricche di profumi e colori legati alla terra d’origine come quando descrive la festa del tabaski. Il “mito europeo” presente nell’immaginario dell’immigrato si realizza anche con il viaggio in Francia anche se l’autore osserva: “Odio la Francia perché ci ha colonizzati e sfruttati” (p. 42).
Segue il racconto diaristico e dettagliato del difficile ritorno in Italia con i vari problemi di poter esser individuato alla Frontiera (la storia è ambientata, infatti, prima dell’abolizione dei punti doganali secondo quanto previsto dal Piano Schengen). Questo continuo peregrinare di Pap Khouma, metafora del povero immigrato che lascia paese e famiglia per inseguire un mondo migliore, è a tratti triste e duro da accettare, a tratti critico nei confronti di certi strati della società, e in alcuni punti è addirittura comico. Tra tanta difficoltà e povertà, l’autore ci lascia però con delle considerazioni positive: “C’è sempre qualcuno che prende le nostre difese. Tra le umiliazioni, le offese, i furti, c’è sempre qualcuno che prende le nostre parti” (p. 63).
Ci sono descrizioni che feriscono e infastidiscono, come gettare lo spirito su una ferita aperta. Ferita che, pur chiudendosi, mai si cancellerà. Sono i passi in cui Khouma descrive le ostilità, le umiliazioni e addirittura le violenze fisiche di uomini che dovrebbero essere i garanti della Legge. Pagine dolorose, ancor più se penso che quanto Khouma descrive avviene proprio nella mia zona d’origine: Nella spiaggia di Marina di Montemarciano non ci sono quasi ombrelloni. La prima volta mi ha portato fortuna, anche se pare poco favorevole al commercio. Ci provo e mi sembra che tutto funzioni bene. Ma ecco che compare una macchina dei carabinieri. Percorre a lieve andatura la strada, a pochi metri dalla sabbia. I carabinieri sono due. Sono di pattuglia. Non so cosa mi prende. So purtroppo che mi metto a correre come un disperato, con le collane attorno alle braccia, i calzoncini che danzano, i miei lunghi piedi che perdono presto i sandali. Le collane volano a terra. Non ho speranze: da una parte c’è il mare, dall’altra l’auto dei carabinieri, alle spalle un carabiniere che mi insegue a piedi, davanti un canale, che è poi una fogna a cielo aperto, a sbarrarmi la corsa e a togliermi ogni possibilità. Mi arrendo. Mi fermo. Il carabiniere mi è addosso, rosso, eccitato, sbuffa e bestemmia: “Maledetto negro”. Non reagisco. Mi afferra per il collo e mi trascina in macchina. Sospiro: “Lasciami camminare. So camminare”. “Brutto stronzo, credi di scappare. Noi siamo militari. Noi siamo più forti, noi corriamo più veloci di voi. Vaffanculo voi del Senegal”. Lo guardo meglio. Per essere italiano è alto. Mi sbatte contro la macchina e mi stringe le manette ai polsi. Comincia a picchiarmi. Scende anche il suo socio e volano ancora pugni, calci, insulti. Qualcuno si muove dalla spiaggia. Ha assistito a tutta la scena, l’inseguimento, la cattura, le botte, e adesso protesta: “Basta. Non potete trattarlo così. Non ha fatto niente di male. Ha solo venduto le sue collane. Basta. E’ una vergogna”. “E a voi che cosa ve ne frega? Stiamo facendo il nostro mestiere con questi bastardi” (pp. 96-97).
La nostalgia per la terra natia si respira in ogni singola parola e ancor più quando l’autore paragona gli spazi occidentali, come il Duomo di Milano, a realtà a lui locali, completamente diverse: “Le guglie [del Duomo] sembrano gli alberi delle nostre campagne e delle nostre foreste. Ma sono bianche e senza vita. Questa non è la nostra terra” (p. 81). Ed è in questa citazione che forse l’autore sottolinea questa dicotomia Europa-Africa, Italia-Senegal, Milano-Dakar, ricchezza-povertà, costruzione-desolazione, cultura-natura in maniera ineguagliabile. E dopo un anno e mezzo, dopo aver ricevuto vari fogli di via, Khouma ritorna a Dakar la cui prima immagine che ci viene data è olfattiva, “la nostra aria profumata di mandorle” (p. 106). Lì resta pochissimo perché dopo aver appurato che non ci sono possibilità lavorative e il desiderio di andare in Spagna, paese che sente in un certo senso più vicino e ospitale nei confronti della sua cultura, finisce per ritornare in Italia: “Il destino e questo misero e immobile paese mi riportano in Italia” (p. 108). Nel nostro paese le condizioni nei confronti degli immigrati migliorano, anche se non di molto, con l’introduzione nel 1987 dei famosi “permessi di soggiorno” ed è con un barlume di speranza che la narrazione-biografia si chiude: “Molti restano, lavorano, vendono, diventano operai, anche se sfruttati più degli altri. Molti restano e conoscono delle ragazze italiane. Si innamorano. Ci sono matrimoni, e poi anche separazioni e divorzi. E poi ancora altri matrimoni. Nascono bambini” (p. 141).
Il testo è arricchito nella parte finale da un compendio all’analisi e allo studio del libro che può essere uno strumento molto valido per i ragazzi della scuola media come testo che sottolinei temi centrali quali l’immigrazione, la povertà e l’intercultura.
Jesi, 16-01-2013