Recensioni

Ipotesi

 

Murilo Mendes
Ipotesi –
Zone Editrice – Roma 2004
pp.214 euro 11,00

luciana stegagno picchio

I testi di Ipotesi vennero composti quasi totalmente nel 1968. ” Civis romanus ” ormai da undici anni, Murilo Mendes aveva assistito dapprima con distacco e poi con divertita partecipazione allo spostamento del proprio registro linguistico. I contatti di ogni giorno con la cultura e l’espressione italo-romanesca ad ogni livello – le quattro chiacchiere col portiere di via del Consolato, il ” Messaggero ” e il ” Paese Sera ” assaporati nelle notizie di cronaca più ancora che nelle prime e terze pagine della neutralità o del ricercare espressivi, il dialogo con la gente, studenti, colleghi, bidelli dell’Università – gli avevano fatto crescere dentro una nuova anima. Certe cose, certi concetti, non gli sbocciavano più in portoghese, ma in parola, in frase italiana. Erano stilemi ritagliati nell’attualità giornalistica, nessi aggettivo-sostantivo pietrificati, locuzioni verbali captate nella schermaglia verbale quotidiana e memorizzate così, come segmenti da ripetere ad alta voce, citando; erano suoni capaci di risonanze inaudite e impreviste nella cassa armonica dell’alloglotta.
Quando era sceso a Roma nel 1956, professore di Letteratura brasiliana nella Facoltà di Lettere, Murilo non poteva prevedere che la città, per cui provava un’avversione pari solo alla meraviglia, avrebbe finito per fagocitarlo. Ignorava che vi avrebbe trascorso diciotto anni, gli ultimi della sua vita, e che non sarebbe più rientrato, cittadino stabile, in quel Brasile di cui tutto a distanza, anche l’errore, gli si ingigantiva miticamente. Assisteva da lontano al permanere e al mutare del suo Brasile. Era il Brasile delle megalopoli odiamate, del carnevale simbolico di vitalismo e superficialità esistenziali, dei generali e delle multinazionali, dell’irrazionalismo macumbistico e della trasferta europea in jumbo a caccia di cravatte di Pucci e di borsette di Gucci. Il Brasile che lui stesso, un giorno, mimando Gonçalves Dias, aveva cantato con ironia modernista: ” Minha terra tem macierias da Califórnia / onde cantam gaturamos de Veneza… Eu morro sufocado / em terra estrangeira. Nossas flores são mais bonitas / nossas frutas mais gostosas / mas custam cem mil réis a dúzia “, la mia terra ha meli di California dove cantano usignoli di Venezia… Io muoio soffocato in terra straniera. I nostri fiori sono più belli, i nostri frutti più saporosi, ma costano centomila réis la dozzina… Era il Brasile mass-media del caffè e dei Pelé biancoridenti, delle misses brunorosate di Copacabana e dei cangaceiros in tricromia d’esportazione. Ma per l’assente era anche il Brasile petroso dell’infanzia, il paesaggio irripetibile di Minas Gerais, montagne brulle e chiese barocche, falde aurifere e statue di profeti allucinati, le braccia tese sui dirupi.
Nel suo ecumenismo, Murilo coltivava in sé, con estremo pudore, un’aiuola appartata di provincialismo ” mineiro “. E chi lo conosceva e amava, avvertiva a volo il suo sorriso interno di astuzia e diffidenza contadina, il suo attaccamento, poche volte esplicitato in letteratura, ai miti e ai riti familiari. ” Confesso al lettore che mi sento felice coi miei fagioli, il riso al forno, la farofa, il dolce di fichi non gialletto come quello delle europe “, è abbandono raro e momentaneo, consegnato solo ad un testo eccezionale come le memorie di A Idade do serrate. Il tratto che, infatti, più colpiva in lui, quello che più vistosamente lo distingueva da ogni altro latino-americano presente a Roma, era l’invidia inesausta e la fame di quelle europe culturocentriche alla cui conquista l’uomo nuovo americano poteva giungere solo in un regime di antropofagia rituale simile a quella dell’indio che mastica il cuore dell’avversario per acquisirne le virtù. Sul metro di questa divorante conquista dell’Europa, ancora nell’Idade do serrate Murilo aveva appunto spartito in due la sua vita, fra un’infanzia, ignara età dell’oro, e una maturità avida di frutti proibiti (” Nel tempo in cui non ero antropofago, e cioè nel tempo in cui io non divoravo libri – e i libri non sono uomini, non contengono la sostanza, il sangue stesso dell’uomo ? – nel tempo in cui non ero antropofago, e cioè nella mia prima infanzia… “). Come agganciare al passato e alla ” cultura ” per antonomasia l’intellettuale ” che non ha avuto medioevo “? Come colmare il divario fra Meo Abbracciavacca e Bahia? (” Fra Meo Abbracciavacca e Bahia c’è uno scarto enorme… “, è l’attacco del secondo testo di ” Parabola “, posto a suggellare con chiave d’oro Ipotesi).
Trapiantato a Roma, condizionato in ogni istante da una lingua ” altra “, Murilo si era inserito in un primo momento nel dialogo degli artisti visivi, portatori di un linguaggio universale di cui egli conosceva ogni sfumatura e accezione. Come critico d’arte, aveva cominciato a cimentarsi con la scrittura italiana in presa diretta attraverso un genere letterario che gli resterà peculiarissimo: la presentazione-sintesi, in versi o in prosa poetica, di un pittore, uno scultore, un operatore d’arte come si dice oggi. Brevi testi destinati per lo più al catalogo effimero, bulinati in un linguaggio tecnico e immaginifico che rifiutava peraltro il gergo ovviamente baroccheggiante degli iniziati. Testi raccolti ora in quel volume che Murilo stesso aveva lungamente vagheggiato e al quale, dopo varie esitazioni, aveva trovato il titolo definitivo e definitorio: L’occhio del poeta.

Quando il testo italiano era finalmente scritto, fosse destinato, al consumo immediato del catalogo o alla decantazione per l’inserimento in volume (questo volume), quando la poesia come avventura individuale era perfetta e non più perfettibile, Murilo ricorreva al giudizio degli amici. Curioso soprattutto di gente, indifferente al mare e alla dolomite, ma sensibilissimo al paesaggio umano, all’alba di un sorriso, all’insorgenza di un seno o al pendio di un’anca femminile, alla grandine e alla tempesta sul volto di un compaesano di Minas sbattuto dai flutti metaforici nel metaforico porto di via del Consolato, Murilo aveva molti amici. Essi erano macroscopicamente diversi fra loro nell’esteriorità perché, ecumenico, mai razzista, neppure in politica o religione, Murilo li sceglieva con criteri non parrocchiali: eppure si assomigliavano tutti fra loro e per questo forse ancor oggi si ritrovano, si riconoscono con la complicità di chi ha avuto il segno e il privilegio di quella scelta e di quell’amicizia. Si assomigliavano per quel pizzico di infantilismo, di follia, se si vuole, che li accomunava nella differenza e li rendeva paritariamente felici quando lui li interpellava. Lo faceva con dolcezza, con umiltà e apprensione: ma anche con quel sorridente esibizionismo che lo manteneva fra tutto e fra tutti diverso, puro, eterno ” Murilo menino “. Gli amici riconoscevano il suo messaggio: la sua voce fonda, esitante, cerimoniosa al telefono o il suo segno sulla pagina bianca. Segni disposti con meticolosità grafica fino alla pignoleria e alla sofferenza. (Che tormento, raccontava, le dattilografe, quando Saudade, l’unica che sapeva e capiva, non aveva tempo, che tormento le dattilografe per chi non scriveva a macchina, per chi non aveva mai usato, per chi non sapeva usare, per chi aveva paura di, per chi indietreggiava di fronte a qualsiasi macchina, fosse essa il rasoio elettrico: meglio allora scrivere a mano, lentamente, con quella inimitabile, straordinaria scrittura tonda attraverso cui le parole respiravano, prendevano luce e trasparenza, o con quello stampatello bodoniano che consentiva di separar i blocchi verbali con palline nere indicative di silenzi programmati, contestuali entro lo spazio-testo).
Gli amici sapevano quanto, nel suo giudicare, giustificare, assaporare i propri testi alloglotti (e non solo italiani: fra i progetti trovati nelle sue carte c’è un volume di Papiers destinato a raccogliere gli scritti francesi, editi ed inediti; e ci sono improvvisi di circostanza, poesia e prosa, in spagnolo) Murilo divenisse esigente. Sensibile com’era ad ogni stonatura esistenziale, un colore mal assortito, un suono stridente, un atteggiamento inelegante, temeva di non avere in sé lo strumento di controllo totale della lingua altra. Componeva con accanto il dizionario, i dizionari, che consultava con deferente cautela, alternando periodi di fiducia incondizionata – sissignora, l’ho letto nel Palazzi – a fasi di diffidenza segnate da controlli volanti, da telefonate trabocchetto: qualcuno o taluno? liberarsi di o liberarsi da? ma è ancora attendibile il Palazzi? – da ipercorrettismi di ragione etimologica – ma inedia non vuol dire inappetenza? -. E poi l’accento, il rovello di quell’accento italiano imprevisto, sempre ectopico rispetto al corrispondente ictus portoghese – esístere per existír, vígila in luogo di vigíla, semplífica per semplifíca, ma farmacía invece di farmácia: un gioco di bussolotti. E le doppie: quelle temibilissime, estrose doppie italiane – quattro ” t ” in soprattutto? – che l’alloglotta non sente, ma solo fiuta, se come Murilo è colto, se ci medita e ci soffre sopra. Certo: doppie e non doppie; ma dappertutto o dapertutto, così così o cosiccosì?
Murilo suda, Murilo scrolla il capo, Murilo studia, Murilo sorride e inventa: in italiano come in portoghese, di nuovo padrone del sistema, capace di costruire dall’esterno un libro come questo, percorso da bellezze improvvise, da illuminazioni poetiche sconvolgenti. Anche lui del resto non era un Murilo di ” l ” scempia derivato da un Murillo iberico di ” ll ” doppia che gli spagnoli pronunciano palatalizzata, ma che i portoghesi pronunciano scempia? (ma allora non è meglio scriverla subito scempia prima che gli altri, che sono colti, che sanno la storia dell’arte, non ti chiamino magari Muriglio? E che ho io, io che amo il segno astratto, terso, autosufficiente, da spartire con Murillo pittore detestabile, sdolcinato, chiaroscurale, sapientissimamente sfumato, mielato, rosato?). Così l’avventura nella lingua altra diveniva avventura nella materia del suono, avventura di sdrucciole come dattili, lepide, aeree, eteree. Quante sdrucciole in Ipotesi. Sdrucciole prenote nella lingua madre, cultismi scientifico-filosofici prestati dall’Europa all’uomo del nuovo mondo (la metafísica e l’ipótesi, il cavernícolo e il cósmico, il sonnífero e il tecnológico). E sdrucciole scoperte come per gioco nella lingua altra (il giocáttolo e la morte irreversíbile per chi, giovanetto mineiro, era stato folgorato dallo ” charme irreversível de París “, per chi identificava l’Europa con una Francia di parole ossitone, entro cui i concetti si installavano pacati, definiti a giusta misura, senza arzigogoli o riboboli gongorici).

Tra le curve e le volute barocche delle piazze in cui Bernini e Borromini dialogano sghembi, in cui il cattolicesimo sconfina nel dubbio e nel cinismo, in cui la lingua di Dante e di Petrarca diventa grido strozzato di suburbio, Murilo trova a Roma, nel crepuscolo della sua vita, l’angoscia: e la certezza cartesiana ridiventa ipotesi.
Ipotesi di che? La risposta più immediata è nel primo testo eponimo che qui si pubblica: la morte sarà ovale o quadrata? Circola la morte come protagonista e primum movens in queste pagine. La morte dell’individuo, la morte mia più che la morte nostra: ed è questa la nota che conferisce tanta verità e umanità a queste pagine, più di quanta non ne ritroviamo nei testi precedenti, preziosi di surrealismo e di sperimentazioni linguistico formali. Murilo non è più il surrealista sovversivo e scanzonato dei Poemas che nel 1930 avevano contrappuntato da Juiz de Fora l’esplosione modernista di São Paulo, non è più il catecumeno delle certezze evangeliche di Tempo e eternidade, né il poeta ecumenico di Poesia Liberdade, ferito dalla guerra delle europe: e non è più nemmeno lo sperimentatore di linguaggi della Convergência o dell’ultimoPoliedro, del 1972.
A fianco del poeta siede a Roma la morte-angoscia che fu l’ultima condizione del Murilo che noi ricordiamo, il Murilo pallido dagli occhi brucianti che a chi gli domandava il come e il perché poteva solo rispondere: ” angústia “, angoscia. La morte fiutava di chi sta ” già sul limite del nulla che abbaia, soffia e ringhia ” e vorrebbe, ma non può, attendere sereno, appartato e placato, ” costruendo qualche filosofema, / lo schiudersi del velo di Maia “. La morte di chi ha ormai raggiunto tanta distaccata chiaroveggenza delle cose terrene da percepire quanto, ” prima di consegnarci alla ruota dell’Ade / dove gireremo, occhi spenti di pesci / che neppure un cane vuol guardare / la morte puttaneggia col sistema “. La morte del distacco irreversibile (” non andrò più con te “), la morte che ” ahimè (ultimo guizzo d’ironia) mi fa tremare le vene e i polsi “.
Ma questo volume è anche ipotesi di un mondo futuramente incomprensibile nel linguaggio di amianto (il sistema, la struttura, la cibernetica, il segno di Barthes e di Cassirer), nel modo di essere e di abitare (il cosmonauta che sale in orbita e dorme e mangia e veste panni, l’elicottero, il fotogramma, il motociclista che dopo aver bevuto il mio bicchiere di vino, mangiato il mio pane, subito mi investirà). Ed è, murilianamente, ipotesi di un museo ideale, arca di diluvi metaforici, capsula ovattata di silenzi ancestrali, ove rifugiare e custodire, come un drago del Reno, i velluti di Vermeer de Delft, il candeliere a sei bracci che sovrasta le nozze di Giovanni Arnolfini, le forme astrattamente durevoli dell’artigiano Magnelli, la geometria del fantastico di Klee, i manichini rosso e neri della piazza deserta del primo De Chirico, il sonno delle bottiglie di Morandi. Ma anche gli amici, scelti per inesplicate affinità nello spessore della storia: Melchisedec e Marianna, Ungaretti e Dino Campana. Su una galassia dove l’ippopotamo è solo, ragionevolmente, una seducente ipotesi di lavoro.

Settembre 2004

L'autore

luciana stegagno picchio