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La passione del vuoto – Piersandro Pallavicini

“LA STAMPA”, APRILE  2004

Gli scrittori allofoni – gli scrittori stranieri che scrivono in italiano – sembrano avere un’ossessione: l’attenuazione, in quel che scrivono, della centralità dell’esperienza migratoria. Di certo questa ossessione ha a che fare con l’orgoglio e l’anticonformismo che dovrebbe possedere ogni scrittore, e da cui discende l’evitare ciò che è ovvio, il ribellarsi ai clichè, lo sfuggire agli schemi … Così fa anche Julio Monteiro Martins, brasiliano, autore di una decina di libri in portoghese ed ora, con i racconti de La passione del vuoto, già al terzo volume di narrativa scritto nella nostra lingua. E lo fa con una soluzione radicale: il suo strumento di attenuazione è  l’eliminazione dei luoghi. O per meglio dire l’eliminazione della scenografia, delle quinte e dei fondali, e di conseguenza del folklore, del colore e della facile commozione che viene dalla cronaca del disagio e dal quotidiano sperimentare la diversità. In questa nuova raccolta prevalgono i racconti epistolari, le conversazioni telefoniche, i dialoghi, la narrazione mascherata da saggio, e anche quando c’è azione in presa diretta poco importa a Martins di ciò che sta attorno: contano solo i suoi personaggi, le loro vicende, e in particolare il pregresso articolato e labirintico delle loro vite cui, al lettore, lo scrittore concede solo un’occhiata accecante, un assaggio dal sapore intenso, e nulla in più. Anzi, della rapida immersione-emersione da una storia che si immagina complessa e conchiusa, Monteiro Martins fa la sua arma più efficace per prendere all’amo la curiosità del lettore: la ventina di racconti de La passione del vuoto sembrano infatti campionamenti di altrettanti romanzi, di cui, a chi legge, non è concesso, un po’ crudelmente e un po’ furbescamente, di conoscere il resto. E di che raccontano questi romanzi soggetti a carotaggio, quali sono queste storie-lampo espunte da architetture più stratificate? Sono storie che hanno a che fare con amori e politica, storie che spaziano dall’ascesa di dittatori tanto globali quanto ridicoli (come nel bel racconto apocalittico che da il titolo alla raccolta), a un matrimonio messo in crisi dal progetto economicamente fallimentare di un marito-regista, alle prese con un documentario sulla vita degli artisti maledetti degli anni 70 – quelli martiri e “santi tossicomani”, quelli che “non hanno tradito i loro sogni” e che per non abbandonare un’idea totale di arte sono finiti nella trappola autodistruttiva che porta alla morte. Ma va detto che non c’è solo questo: sebbene prevalga il senso di oppressione per le occasioni perdute, per un passato giocato male e non più correggibile e per la minaccia sociale-politica (la deriva verso una destra abborracciata e volgare) che oggi incombe sul mondo occidentale, la raccolta comprende anche racconti screziati di una garbata leggerezza e ironia, di un tipo né europeo né sudamericano, che lasciano il lettore con un sorriso spiazzato. È la chiave del libro: i luoghi sono stati rimossi, di quel che viene raccontato non si conosce il prima e non si conoscerà il dopo, il sense of humour non è italiano ma nemmeno brasiliano… Già, l’ossessione dello scrittore allofono ha prodotto i suoi effetti, ma, ugualmente, il bruciante punto di svolta dell’esperienza migratoria torna, e coi sottili modi dello “scrittore tout-court”, col suo talento e il suo mestiere: non urlata, dunque, non dichiarata, ma tutta qui, in questo non essere da nessuna parte, in questo non conoscere più il passato ed essere ciechi sul futuro. In questo non appartenere più al luogo che si è lasciato e non ancora a quello dove si è approdati.

L'autore

Piersandro Pallavicini