Barbara Pumhösel
La voce nella neve
Rizzoli 2013
Barbara D’Alessandro
La voce della neve[1] è un lungo racconto che si presenta già dalla veste grafica, che mette in primo piano le parole e non cerca l’ausilio delle illustrazioni, come rivolto a un pubblico di bambini intorno ai dieci anni. Questo testo, vincitore del premio Pippi 2012 «per l’originalità della storia, per la ricca esplorazione di un mondo reale che diventa fantastico e che si trasforma anche in sogno, per le interessanti citazioni letterarie all’inizio di ogni capitolo, per lo sguardo intelligente dell’autrice verso i bambini»[2], offre lo spunto per trattare una tematica che torna costantemente all’interno della produzione di Pumhösel: quella della neve, collegata inevitabilmente al freddo, all’inverno, al nord. Questo libro sembra inoltre essere strettamente connesso a una fiaba scritta in precedenza dall’autrice, nel 2009, e pubblicata sulla rivista «Kúmá», dal titolo L’orso bianco e la pupazza di neve.[3] Ma procediamo con ordine: la protagonista del libro è Filo, abbreviazione dello strano nome Filomela, una bambina che nelle intenzioni della mamma sarebbe dovuta diventare una grande cantante e che invece ha una passione smodata per la neve, e in particolare per i pupazzi di neve, anche se, come afferma la narratrice:
Filo non faceva soltanto pupazzi di neve maschi, faceva anche pupazze femmine e pupazzini, piccoli pupazzi di neve bambini. E poi faceva animali di neve. Perciò Filo aveva cominciato a chiamarle sculture o figure di neve. Gliel’aveva consigliato il nonno. All’inizio aveva detto statue di neve, ma secondo Filo sculture e figure suonavano più artistiche e più vive. Statua era una parola troppo ferma. Quando una figura era pronta, Filo si immaginava una vita per lei e le dava un nome.[4]
Questa passione per le sculture di neve sembra speculare a quella di un’altra piccola protagonista uscita dalla penna di Pumhösel, che però amava costruire castelli di sabbia, ovvero la prinicipessa Sabbiadoro[5]. Ma, al contrario delle sculture di sabbia che possono essere fatte in qualsiasi stagione dell’anno, la neve necessaria a costruire i pupazzi nel giardino di Filo, si trova solo in inverno, e solo in alcuni casi, quando la consistenza della neve è abbastanza dura per poter costruire. Quella della bambina non è una semplice passione, si tratta di una vera e propria collezione, ma dal momento che i pupazzi non possono conservarsi in eterno, il papà si occupa di scattare una serie di fotografie che saranno poi messe in un album. Gli altri personaggi di questo racconto sono proprio la mamma e il papà di Filo (che non compare mai in realtà, perché lavora molto e spesso non ha tempo di fare le foto che la bambina tanto desidera), il fratellino Florian, che tutti chiamano Momo per via della sua grande passione per le more, e la nonna, che svolge un ruolo fondamentale di mediazione tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, essendo «una persona molto pratica che accettava i fatti che non poteva cambiare e preferiva impiegare le proprie energie in quelli che poteva cambiare».[6] La storia è semplice, ma molto intensa: dopo un intero anno di attesa arriva finalmente a Vienna (dove non casualmente è ambientata questa storia, essendo un luogo caro allo scrittrice e spesso associato da lei all’inverno), la neve “giusta”, e Filo si affretta a costruire una bellissima pupazza di neve, a cui mette in testa un fazzoletto bianco e che le sembra fin da subito speciale, diversa dalle altre. Talmente speciale che il nome da darle non può essere un nome qualunque, scelto a caso, ma deve essere un nome adatto alla sua natura, alla sua personalità, che secondo la bambina è quella di una cantastorie:
Filo ci pensò un po’ su e poi prese la sua decisione. Sarebbe stata una donna di neve. Una cantastorie. E avrebbe raccontato le avventure dei fiocchi di neve. O i sogni che faceva nelle lunghe ore notturne immobile in piedi nel giardino, senza mai potersi sdraiare.
[…] Ora però aveva bisogno di un nome speciale. Andò in casa a prendere il giornale e scorse articoli e annunci. Poi guardò l’indice del suo libro di lettura, ma non trovò un nome che la convincesse del tutto. Alla fine decise di chiederlo alla mamma. [7]
Dopo essersi fatta descrivere il carattere della donna di neve («viene dal terzultimo secolo e racconta storie»[8]), la mamma propone a Filo un nome speciale: Arina Rodionovna, come la tata di Puškin, la serva della gleba che aveva raccontato allo scrittore durante la sua infanzia molte delle tradizionali fiabe russe poi confluite nei suoi libri. Si tratta di un nome perfetto, e in una foto conservata dalla mamma la njanja russa, con il suo fazzoletto di lana bianca in testa, sembra addirittura somigliare alla sua creazione. Ma i problemi per Filo iniziano a sorgere quando, sola a casa al rientro da scuola, ascolta le previsioni meteo, che annunciano un vento caldo in arrivo. Senza il papà, fuori per lavoro ancora per qualche giorno, la sua Arina non avrebbe potuto essere fotografata e quindi conservata per sempre. Sarebbe sparita così, da un giorno all’altro, senza lasciare traccia, cosa a cui la bambina non vuole proprio rassegnarsi, perché, come è scritto anche nella motivazione del premio Pippi, «è come fosse consapevole che l’esperienza dell’infanzia resta impressa per sempre in quel che diventeremo, che i segni a cui dedichiamo la nostra attenzione, si mantengono nel tempo, se riusciamo a conservarli».[9] Ed ecco che la fantasia inizia a lavorare e trova una soluzione perfetta: quella di trasferire la cantastorie di neve nel grande congelatore di casa di Filo. Dalle parole ai fatti nel mondo dei bambini basta davvero poco: con una telefonata ecco arrivare i due migliori amici di Filo, Aki e Aurora, che la aiutano nel complicato trasferimento, fino a quando Arina trova una nuova casa nel congelatore, pronta a essere fotografata dal papà. Il punto centrale della storia è sostanzialmente questo, seguito dalla rabbia della mamma, dalla complicità della nonna e dalle spiegazioni di Filo, aiutata da Momo che suggerisce alla fine di consumare tutti i cibi scongelati facendo una grande festa a casa.
Le tematiche affrontate nel libro, attraverso questa storia semplice e intelligente, sono in realtà molte di più di quelle che potrebbero sembrare a una prima lettura. Innanzi tutto la piccola Filo, che da grande vuole fare la sindaca, è il simbolo di tutti quei bambini che attraverso la fantasia e la passione vogliono cambiare le cose. Lei, nello specifico, vorrebbe inserire le sculture di neve tra le materie scolastiche, ma più in generale riflette spesso sulla scuola, e su come la sua funzione principale debba essere quella di incoraggiare i bambini a fare le cose nelle quali si sentono più a loro agio, e non obbligarli a svolgere attività a volte umilianti per loro (si racconta di come la mamma da piccola, pur essendo stonata, fosse obbligata a cantare davanti a tutti, cosa che a Filo sembra una crudeltà). Inoltre, il compagno di banco di Filo è Aki, un bambino ceceno rifugiatisi con la famiglia in Austria. Nello scrivere un tema su un argomento che le sta a cuore, la protagonista si ritrova inevitabilmente a parlare del suo amico, e di come abbia paura che un giorno possa essere costretto ad andarsene:
Prese un foglio e cominciò a fare un elenco di titoli possibili: “Il mio amico Aki” o “Aki e i pupazzi di neve” o “Aki da grande vuole fare disegni per i libri per bambini” o “Aki vuole rimanere a Vienna”. Filo si fermò e fissò le ultime parole, parole che non avrebbe voluto scrivere. Non le avrebbe volute scrivere perché non avrebbe nemmeno voluto pensarle. Queste parole le dovevano essere scivolate direttamente dalla pancia, o dal cuore, nelle dita e nella penna, senza passare dal cervello. Perché se c’era una cosa che lei non voleva nemmeno immaginare era il fatto che Aki sarebbe potuto andare via di nuovo. Così come era venuto all’improvviso, quattro anni prima. [10]
La “poetica della migrazione” si affaccia così anche in questo testo per bambini, portando alla luce la repulsione dell’autrice per i confini e le barriere, e facendo emergere ancora una volta problematiche già trattate in altri testi[11] e che le stanno molto a cuore come quella delle classi multiculturali, dei campi per rifugiati, delle difficoltà di integrazione in un Paese con una lingua diversa dalla propria, e della infinita ricchezza (e in questo caso amicizia) che può derivare dall’incontro tra due culture. Il cambiamento, i sogni, la migrazione: tra tutte queste tematiche ce n’è una che sembra fare da collegamento alle altre, che sembra riunirle sotto una sorta di cappello protettivo, quella del potere delle parole, della magia delle storie. Ed è questo il motivo per cui Arina è così importante da dover essere conservata nel congelatore. Nel pensiero di Filo sembrano essere riassunte anche le convinzioni personali di Barbara Pumhösel:
Nel letto, a occhi chiusi, capiva perché era importante la donna di neve. Era una cantastorie e da sempre le storie sono di tutti. Le stesse storie esistono anche nei paesi di guerra. Le storie sono senza confini, e quando incontrano le frontiere le annullano. O ci passano sopra, come gli uccelli. Le storie sono lo spazio sicuro in cui incontrarsi. [12]
Basti ricordare, per esempio, un passo dell’intervento dell’autrice al Settimo seminario per gli Scrittori e Scrittrici migranti, che sembra quasi essere l’ispirazione per le riflessioni della bambina:
Sono state create tante scacchiere di tante letterature nazionali con confini lineari e netti, ma mai le grandi storie, i grandi narratori, hanno osservato il loro diktat. Si potrebbe dire che le grandi storie sono come certi animali – e le loro incarnazioni metaforiche – che non rispettano confini politici, sto pensando ai lupi, alle volpi, agli orsi, agli uccelli migratori: se è stato creata una frontiera, se un certo tipo di politica ha marcato il terreno – scusate la metafora – questi animali fanno semplicemente la pipì sopra e vanno avanti. Gli uccelli poi non vedono nemmeno le frontiere che sorvolano, la distanza fa vedere soltanto l’essenziale, ciò che è necessario al volo.[13]
Le storie quindi, e i cantastorie (che potremmo vedere come alter-ego dell’autrice o degli scrittori migranti in generale) rivestono un ruolo fondamentale nel nostro mondo, e per questo vanno coccolate, vanno salvate dall’oblio e conservate in un luogo adatto, nella nostra memoria, dove non possano perdersi.
Questo testo, sebbene destinato a una fascia di lettori bambini, ha al suo interno molti richiami alla poetica dell’autrice, e collegamenti con le poesie per adulti. Innanzi tutto va segnalato il riferimento a Puškin, molto amato da Pumhösel, e che si può incontrare con la sua Sera d’inverno nella poesia Necrologio per una zanzara.[14] Ma anche il richiamo alla favolistica, alle fiabe tradizionali slave, in questo caso russe, non è casuale, in quanto costantemente presente nell’immaginario dell’autrice con i suoi animali fantastici, l’ambientazione nordica e il paesaggio imbiancato. Un personaggio estremamente caratteristico, presente anche nel folklore polacco, la strega Baba Jaga, è protagonista di una storia iniziata a raccontare dalla pupazza di neve Arina:
Era una notte fredda e la luna brillava alta e tonda nel cielo. I suoi raggi si rincorrevano e rimbalzavano sul suolo innevato della foresta. Quando la luce arrivava a toccare la neve, quasi a farle il solletico, i cristalli cominciavano a scintillare, a mandare piccoli bagliori colorati, in un gioco di domande e risposte. Così almeno sembrò alla volpe argentata che passava per uno dei suoi giri notturni e si fermò come incantata.[15]
L’incipit di questa fiaba, e in particolare la presenza della volpe (che spesso nei componimenti di Pumhösel assume il ruolo di alter-ego della voce narrante) oltre a quella della strega che verrà dichiarata più avanti, sembra essere intimamente collegato a una poesia scritta dall’autrice per lo spettacolo Novunque della Compagnia delle poete:
Nel mio libro preferito
ci ne sono due pagine
che non si staccano.
Avranno preso freddo, umido.
Forse mi ci è cascata un po’
di colla. Non le voglio separare
con la forza, ma capire il perché.
Mi era sembrato dal margine in alto
di veder sbirciare una civetta
per un attimo soltanto.
Sono sicura, anche, di aver visto
una volpe di carta
…….. veloce veloce
intrufolarsi
…….. tra i cespugli
del bosco di Baba Jaga e – sapete –
io so che prima in questa storia
la volpe non c’era.[16]
Della Compagnia viene ripresa anche l’operazione di lavoro sui sostantivi femminili, per creare una sorta di equilibrio e parità tra i generi e sottolineare come questo non debba mai essere dato per scontato: si parla infatti di una sindaca, e di una pupazza di neve. Proprio questo personaggio, un raro esempio di scultura di neve al femminile, era già presente nella produzione di Pumhösel, protagonista di un racconto in prosa pubblicato sulla rivista «Kumà» nel 2009[17]. Si tratta di una fiaba che racconta l’incontro di tre mondi differenti: quello della neve, quello animale e quello umano, a cui è intrecciata una storia d’amore e che sembra racchiudere in nuce proprio la genesi de La voce della neve. Questa volta la bambina che ha costruito la pupazza non è attenta come Filo alle esigenze della sua creazione (che vorrebbe passare il breve tempo che le resta a giocare) e così, con il suo cappello di paglia color rosa peonie, la pupazza decide di lasciare il giardino e andare in cerca di avventure, seguita da un orso bianco che nascosto tra i cespugli si era innamorato a prima vista di lei, scambiandola per un’orsa bianca. Il momento in cui la pupazza decide di muoversi da sola e guarda con un po’ di nostalgia la finestra della bambina è seguito da alcune frasi che ci fanno intravedere il futuro di Arina e di Filo:
Lei guardò indietro una volta soltanto e il suo sguardo andò alla finestra illuminata della stanza della bambina. Peccato! Avrebbero potuto diventare amiche. Le avrebbe raccontato storie del regno dei cristalli di neve e dei ghiaccioli. E avrebbe imparato particolari sul mondo degli umani, quegli esseri così strani e difficili da comprendere a cui tutti i pupazzi e le pupazze di neve, grandi e piccoli, devono la loro esistenza. [18]
Questa fiaba racconta però dell’incontro tra le diversità: l’essere umano, un senza tetto che la pupazza incontra e con cui si siede a chiacchierare su una panchina, si stupisce nel guardare il mondo con gli occhi di un essere tanto diverso da lui, e allo stesso tempo si sente pieno di voglia di vivere, almeno per un giorno, il Natale, donando un gelato alle fragole (tutto quello che può permettersi) ai suoi due nuovi amici, che ne sono entusiasti. Anche l’amore è trattato con semplicità ma in modo profondo: l’orso vorrebbe che la pupazza rimanesse con lui, ma ella sente dentro di sé la voglia di viaggiare, di vedere il mondo, nonostante questo sia rischioso per lei, e lui decide di non fermarla. Il viaggio è per questa strana creatura una ragione di vita, così come la trasformazione: «[…] a me non può succedere molto. Un essere di neve non muore, semmai si trasforma. Diventa ghiacciolo su una cascata ghiacciata, lastra di ghiaccio o parte di una nuvola e forse l’inverno dopo di nuovo pupazza o pupazzo di neve».[19] In un attimo, sul fiume, la pupazza cade in acqua, scomparendo alla vista dell’orso e lasciando intravedere solo il cappello di paglia rosa. Eppure, nonostante la tristezza dell’animale innamorato, proprio nel movimento, e nella continua trasformazione, risiede la bellezza della neve per Pumhösel, che nel più lungo testo per bambini la racconta in tutta la sua complessità e nelle sue sfaccettature anche attraverso un sapiente uso delle citazioni, utilizzando però, nella conclusione, quasi le stesse parole del racconto del 2009, a testimonianza del forte rapporto intertestuale che intercorre tra questo libro e le altre opere dell’autrice:
Gli esseri di neve non muoiono mai veramente. La neve diventa acqua, vapore, nuvola, e in inverno forse ghiacciolo, attaccata a una cascata, o una lastra di ghiaccio nel mare del nord. O di nuovo una molteplicità di cristalli di neve che prima o poi si trasforma ancora in uomo, donna o bambino di neve. [20]
La neve è quindi sinonimo di cambiamento, viaggio, ma allo stesso tempo di gioco, un gioco semplice e sincero, utilizzato in inverno anche da quei bambini che non hanno niente, come i piccoli del campo profughi da cui proviene Aki. La neve permette di spostarsi liberamente e di creare nuovi mondi con la fantasia. La neve rende liberi.
[1] Ead., La voce della neve, Milano, Rizzoli, 2013.
[2] La motivazione dell’assegnazione del premio è pubblicata online sul sito del comune di Casalecchio di Reno, sede del concorso: http://www.comune.casalecchio.bo.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=353&idCat=429&ID=39636 .
[3] B. Pumhösel, L’orso bianco e la pupazza di neve, fiaba, in «Kùmà», n. 16, Marzo 2009, (http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/narrativa/kuma16pumhosel.pdf.).
[4] ead., La voce della neve, cit. p 25.
[5] Mi riferisco al libro del 2007, ovvero B. Pumhösel, La principessa sabbiadoro, Milano, Giunti Junior, 2007.
[6] Ivi, p. 76.
[7] Ivi, pp. 39-40.
[8] Ivi, p. 40.
[9] Motivazione dell’assegnazione del premio, online sul sito: http://www.comune.casalecchio.bo.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=353&idCat=429&ID=39636.
[10] B. Pumhösel, La voce della neve, cit. p. 54.
[11] Per esempio nella serie, scritta a quattro mani con Anna Sarfatti, La calamitica III E, edita dalla Giralangolo di Torino dal 2007 al 2009.
[12] Ivi, p. 97.
[13] B. Pumhösel, Settimo Seminario degli Scrittori e delle Scrittrici Migranti, 2007, Lucca, in «Sagarana, Rivista Letteraria Trimestrale», www.sagarana.net/scuola/seminario7/seminariohome.html.
[14] Ead., prugni, Isernia, Cosmo Iannone editore, 2008, p. 90. (Il titolo è in minuscolo perché così riportato nel frontespizio).
[15] Ead., La voce della neve, cit. pp. 46-47.
[16] Ead., in Novunque, a cura della Compagnia delle poete, Roma, Aracne editrice, 2012, p. 15.
[17]Ead., L’orso bianco e la pupazza di neve, cit., online: http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/narrativa/kuma16pumhosel.pdf.
[18] Ivi, http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/narrativa/kuma16pumhosel.pdf.
[19] Ivi, http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/narrativa/kuma16pumhosel.pdf.
[20] Ead., La voce della neve, cit., pp. 99-100.