In un’intervista del 1979, a proposito dell’allora recente pubblicazione di Centuria, opera dai 100 “romanzi fiume”, Giorgio Manganelli dichiarava che quei racconti erano “come romanzi cui sia stata tolta tutta l’aria” e aggiungeva caustico, in aperta polemica con il romanzo tradizionale: “vuole sapere una mia definizione del romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe”.
Ciò a dare ragione dell’originalità de L’amore scritto e in termini strutturali – in Italia è genere poco praticato perché poco apprezzato – e per la sostanza rarefatta dei pezzi che lo compongono, cui s’accompagna la vasta gamma delle impressioni che va dalla sospensione al disorientamento totale e straniante.
Le sezioni in cui si articola il libro, “Oro”, “Incenso” e “Mirra”, si propongono più che come i doni biblici della rivelazione divina, come modalità della fenomenologia amorosa: tre tipologie epifaniche, nell’ambito della sensualità, della devozione e della malinconia.
Su questa macrostruttura tripartita s’innestano i quarantaquattro frammenti, schegge di un tutto non scritto, particelle di un universo amoroso che include ipotesi e contro ipotesi, sconosciute ma ipotizzabili: “una vita non è un intreccio, e ciò che è vero ha buone possibilità di non essere verosimile”. A partire da “Benessere”: Fabrizio si crogiola al sole, nello spaccato di normalità nella villa dei futuri suoceri; un benessere che vive all’interno del quadretto fatto di oggetti quotidiani visti e rivisti – “c’erano il gatto, il cane sempre alla catena, i funghi bianchi sotto la siepe, le formiche, i sassi, il cassetto dell’immondizia sulla curva della strada sterrata, e ancora i tappi di bottiglia, i mozziconi di sigarette fumate a metà. I gusci marroni delle uova, i cadaveri dei chewing-gum – e di stanche consuetudini domenicali, dal gelato di fine pasto alla pennichella pomeridiana. Su questa cornice s’inserisce, improvvisa, la riflessione sulla malattia, la solitudine e la morte ormai prossima, d’una vecchia bisnonna chiusa in una stanza discosta della grande casa; un pensiero che imprime una subitanea sterzata dell’angolatura è tale che il placido sfondo borghese tratteggiato muta. Così “alle undici di sera, con l’alito appesantito dalle emanazioni del chianti, Fabrizio fu pilotato da Chiara verso il fuoristrada. La ragazza voleva solo sbaciucchiarlo un po’ dietro i vetri appannati e soffiare sulle braci dei suoi ormoni”. Di qui s’avverte il repentino cambio di prospettiva affettiva da parte di Fabrizio nell’epifania che stravolge la percezione dell’intero brano racconto: “Ma stavolta non ci furono né linfe né sospiri. Guardando il volto della biondina illuminato dalla fioca luce ambrata, la banda di sintonizzazione della radio, Fabrizio sobbalzò all’improvvisa rivelazione di un panico melmoso, ristagnato, che lasciava uno strascico di nausea. Quella ragazza aveva una faccia sconosciuta, anche se vagamente familiare. Chi poteva essere? che voleva da lui? La fissò con uno sguardo gelido, dietro le palpebre semicalate. Lei ne sentì paura per la prima volta in vita sua. ‘Scendi dalla macchina’. ‘Cosa?’. ‘Hai sentito. Scendi dalla macchina’.
I racconti non superano quasi mai la misura media delle quattro-cinque pagine e includono spesso diversi gradi delle manifestazioni dell’eros. Vi si presentano istantanei lampi di una verità che gela, per la durezza dello sguardo, come in “Liberazione” ove un uomo scopre, durante un appuntamento “in chiaro”, dopo due anni di incontri amorosi al buio con la giovane compagna, una particolarità che lo lascia interdetto: “E’ stato quella sera, guardando il suo viso giovane e franco illuminato dalla lampada da cento watt, che ho scoperto in lei, la mia amante, tutti i denti, tra i due canini superiori, falsi. Ed era così serena. Non era giusto”.
Prevalgono fantasmi di storie difficili, o impossibili come in “Sulla battigia” che propone, in guise mai ordinarie, un amore tuttaltro che platonico fra Altimari, anziano e brillante professore universitario, e una sua studentessa. Stupisce qui la sensualità e la passione che aggredisce ambi i soggetti e piace la franchezza dell’esito sociale di questo amore. Il docente sacrifica affetto e considerazione di moglie, figli e nipoti, “per non abbandonare se stesso”, nella piena percezione di azzerare una vita intera e di spingersi verso le incognite che la storia con una giovane donna comporta per un uomo sulla soglia del nulla: “Altimari è rimasto silenzioso, con un’ombra sul viso. Ha portato la sedia sulla veranda ed è rimasto lì a guardare il riflesso della luna sul mare. Il motivo della sua tristezza non era il rimorso o la nostalgia di casa, ma la presa di coscienza del vero prezzo che avrebbe dovuto pagare per quello slancio di vita, per quella sfida alle regole della nostra società, per aver mostrato più simpatia per Cupido che per l’Angelo vendicatore che lo stava cercando”. S’intrecciano poi, in un continuo alternarsi, effetti emotivamente spiazzanti in cui “il brivido dura più dell’impressione”, epifanie interiori in foggia di “fulmini mentali, velocissimi squilibri come il ‘déjà-vu’ o come un improvviso straniamento dalla banale realtà” in quei momenti, a volte, “lo spazio si curva, il tempo si contrae, tutto scompare al di là dell’orizzonte degli eventi”. In tal senso è forte la percezione di spaesamento, di casualità e di disordine del mondo, delle cose, dei rapporti amorosi e, in uno scenario del genere, “il tempo ti gira e ti rigira così, con gli occhi bendati, e se in un momento una situazione come questa di stasera ti leva la benda all’improvviso, ecco che non sai più dove sei, né dove sei stato tutti questi anni, né chi sei e nemmeno in quale direzione guardare” (I boccoli dei cherubini). Tempo e percezione del reale vengono meno ancora in “Il richiamo”: ivi sono inserite, dopo le battute di un banalissimo dialogo marito-moglie, nella penombra onirica della camera da letto, le apparizioni di Carmela, Patrizia ed Emilia, voci di donne che furono e ipotetiche storie amorose che sarebbero potute essere, se Luigi non avesse sposato Susanna.
Alcune considerazioni sul titolo del libro che suggerisce la connessione di amore e scrittura. Ciò comporta da una parte riferimenti e citazioni, in una intertestualità che sfiora Shakespeare e Rilke, e che tocca Pessoa. Il confronto produce passaggi di quelle che potremmo definire la pagine di poetica dell’autore: “la poesia è l’output, l’espressione esteriore di un input, della captazione delle impressioni intellettive e della sensibilità quotidiana. Tra il mondo che feconda il poeta e la poesia costruita c’è la più raffinata e complessa metamorfosi, la sintesi più straordinaria che l’essere umano sia in grado di produrre: creare prima di tutto un’arte propria, il linguaggio, e con il risultato di quest’arte, creare un’altra arte ancor più sublime e depurata, la poesia”. Ma efficace e d’effetto risulta soprattutto quest’altro passaggio, in “Seppoku”: “C’è un nuovo abisso, fatto di discorsi, tra il mondo e il poeta. Il mondo è caos che si vuole intreccio, è libera associazione di idee che si spaccia per strategia. Il mondo è spinto dal caso. Il poeta è mosso dalla volontà. Sono incompatibili, ma si sono ingarbugliati l’uno nell’altro. Al poeta di fronte al mondo resta il richiamo dell’ordine di fronte al caos. L’estetica dell’impotenza dinanzi al mostruoso arbitrio dei fatti”. Dall’altra il rapporto scrittura-amore assume le forme della nominazione in “Il nome smarrito” che s’apre con l’io narrante dimentico del nome di una donna amata dieci anni prima. La riflessione si sviluppa quindi sulla sensazione di insicurezza e di perdita che tale dimenticanza gli ha procurato: “Dopotutto le persone non sono il loro nome, e poco o nulla vi hanno a vedere […] il nome non è altro che una registrazione anagrafica, un semplice riferimento, un’etichetta. La ragione del mio sconforto è che io conosco benissimo il contenuto simbolico e affettivo del nome della persona amata durante l’innamoramento”, un vero e proprio “’abracadabra’, come per potersi appropriare cabalisticamente della persona che esso evoca”.
A volte la realtà entra di forza nei racconti; ed è quella attualissima della disoccupazione e dei conflitti sociali, dell’immigrazione e dell’intolleranza, della malattia e, in guise desuete, del rapporto fra amore e morte.“Il sentimento” e “La morte nel cuore” toccano diversamente l’argomento e ne analizzano varie connessioni. Il lutto è effettivo e separa dall’amore di una vita; o è simbolico, nella perdita della persona amata, e ad esso si pone rimedio grazie a una vera e propria elaborazione, come ne “La scatola nera”: una mail spedita da Mirko a Selena, la fidanzata che lo ha abbandonato senza traccia né parola. Alla fine della lettera la voce fuori campo afferma: “ voleva cercare di dormire. Voleva iniziare il lutto di quella storia finita male dormendo. (Aveva già deciso che era finita). La mattina dopo sarebbe stata comunque un storia accaduta in giorni passati, avrebbe potuto così nascondere la sua tristezza, il senso della perdita, dentro una scatola nera chiamata ‘memoria’”.
I tratti stilistici sono quelli di uno scrittore linguisticamente maturo: lessico e andamento risentono dell’oggetto linguistico che Martins propone, aggrappandosi alla musicalità della lingua madre ed imprimendovi ritmi nostrani. La lunga residenza in Italia concede naturalezza e linearità alla sintassi. Ma l’effetto finale è singolare. Alla suddetta essenzialità s’accosta un’inconsueta capacità combinatorio-lessicale: sia in termini di relazione espressiva nella pagina sia a livello ritmico-melodico negli insoliti accostamenti sostantivo/aggettivo.
Il libro è un bell’esempio di come si può costruire e proporre un testo di racconti in Italia seguendo impulsi e sprazzi d’un misurato ragionare amoroso: quello cioè che in apparenza assomiglia tanto a un ossimoro è in realtà la qualità fondante dell’esperimento di Martins. Un continuo calcolare l’intimità, proporre e misurare sensualità di varia specie, sempre squilibrate in un senso o nell’altro, psicologicamente interpretarle, viverle magari melanconicamente, come nel racconto finale “Uno spettacolo immenso”, che chiude i giochi con l’addio all’amore del mondo: “Oh, mondo, spettacolo immenso. Gli sguardi più belli se ne vanno mentre altri ancor più belli si presentano. Dove ti porteranno, mondo mio, in quale nulla? E poi, come farai senza di me? Chi ti guarderà come ti ho guardato io?”.
Un’ultima nota per il pezzo che, per forma e contenuto, dà ragione dell’introduzione manganelliana alla recensione e regala, nel breve spazio di due pagine, il senso più pieno de L’amore scritto: “Antenne” , serena e disperata fotografia del balenio mortale nella vita d’un antennista che, nel “piccolo bosco delle antenne” fra “gli alberelli secchi di metallo senza foglie né frutti”, s’accorge dell’imminente caduta che lo aspetta. Un attimo prima del vuoto riesce a chiamare: “’Amore, sono io. Ascoltami bene. Fra un minuto sarò portato via dal vento e precipiterò dal sesto piano di un palazzo, e non c’è niente che possa fare per evitarlo. Allora non dire niente e ascolta’. ‘Cosa?’. ‘stai zitta. Abbiamo fatto l’amore ieri sera e anche stamani, quindi se smetti con la pillola oggi stesso, potrai avere un bambino mio e mamma ti aiuterà a crescerlo’ […]. ‘Di’ a mamma che l’amo da morire e che dev’essere forte. Ora non ce la faccio più. Sii forte anche tu, amore mio! Ti amo tanto! Ma che ca-..’. Nonostante ciò l’indifferenza del mondo e delle cose al dolore all’amore e alla morte è totale e desolante, e la chiusa recita infatti: “Ed era quella una bellissima giornata , il sole attraversava impassibile l’azzurro pulito e faceva brillare tutte le cose”.