Racconti e poesie

Letterati e disperati

julio monteiro martins

Era inizio dicembre e pioveva a dirotto, una pioggia prepotente, soffiata da un vento freddo. Olga non aveva portato l’ombrello e non aveva il tempo per comprarne uno. Corse per via Santa Maria, cercando di proteggere il quaderno con gli appunti e dei fogli sciolti all’interno della giacca, imboccò via dei Mille e si fermò per qualche minuto a riprendere fiato sotto l’arco della Biblioteca. La piazza era vuota, solo la statua di Cosimo dei Medici sembrava approfittare della pioggia per lavare il ginocchio scoperto che spuntava da sotto la cappa. Dall’altro lato della piazza, protetti dalla tettoia sporgente dell’edicola, altri tre studenti infreddoliti aspettavano il momento giusto per provare una corsa fino alle scale della Scuola Normale.
Olga si riprese, guardò l’orologio, era già cinque minuti in ritardo per il colloquio col professore Lamarca. Riprese la corsa, salì i gradini di tre in tre. Arrivò nell’atrio, si asciugò velocemente con il fazzoletto, almeno per non gocciolare per i corridoi, estrasse dalla pancia il suo quaderno ora tiepido e bussò allo studio del professore.
– Permesso?
– Venga pure. Si accomodi, signorina. – e proprio come lei credeva che avrebbe fatto, sospese un po’ la manica della giacca a quadretti e guardò l’orologio. – Bene! Ha portato tutto?
– Penso di sì. Ho stampato una copia dell’introduzione per lei, e ho degli appunti al riguardo che mi piacerebbe leggerle.
– Sì, ma cominciamo dall’introduzione. Legga pure e prenda appunti delle osservazioni che farò. Ci sarà da lavorarci sopra, sicuramente. Ha scelto il titolo?
– Ho un titolo provvisorio, “La letteratura della migrazione in Italia: I primi 20 anni di una rivoluzione silenziosa”.
– Un po’ troppo magniloquente, ma credo che possa andare. Comunque, continui a pensarci su.
– Lo farò.
– Bene. Inizi pure.
– Ho pensato di mettere in epigrafe una citazione della “Lettera a un giovane poeta”, di Rilke, un brano che mi piace e che mi è sembrato pertinente.
– Legga pure.
– “Per scrivere un verso, bisogna aver visto molte città, uomini e cose. Bisogna aver sperimentato molte strade di paesi sconosciuti, partenze lungamente presentite, misteri dell’infanzia non chiariti, mari e notti di viaggio.”
– Mi ricordo bene questo brano. Finisce con qualcosa come “e nemmeno basta avere ricordi, bisogna avere la grande pazienza di aspettare finché non tornano”, vero?
– Sì, penso di sì.
– Prosegua.
– L’introduzione non cita alcun scrittore o titolo delle loro opere. È un testo astratto, concettuale. L’ho pensato un po’ come una “favola”, la storia di un fenomeno.
– Uhm… vediamo.
– Pensavo di iniziarla così: “Il tempo di un’intera generazione è trascorso da quando i primi non italiani hanno fatto ricorso alla gelosamente custodita lingua di Dante e di Manzoni, per raccontare vicende di sfruttamento e di umiliazione, così come quelle caratterizzate da gesti di orgoglio e di coraggio, che dovevano essere lette e conosciute dai loro nuovi connazionali, dai vicini di casa, dai clienti abituali, dai genitori dei piccoli compagni di scuola dei loro figli italiani. Non molti anni erano passati da queste prime edizioni quando una seconda ondata di neo-italiani è arrivata da più parti del mondo, alla conquista dell’attenzione dei lettori italiani: stavolta erano scrittori veri, uomini e donne che nei loro paesi di origine avevano scritto e pubblicato libri, rispondendo a una vocazione profonda e immune alle circostanze, ma che per ragioni insite nella loro stessa opera, per le condizioni politiche o editoriali dei loro paesi, per il loro particolare profilo caratteriale, per realizzarsi hanno dovuto cercare altre terre e altre lingue, inseguire una sensibilità diversa per il loro linguaggio e per la loro visione di mondo.”
– Signorina, attenzione, questa distinzione iniziale tra i primi arrivati, immigratitout-court, seguiti poi dagli scrittori, non va bene. Semmai è vero il contrario. Dagli anni Cinquanta in poi i primi ad arrivare sono stati gli scrittori. Pensi a Murilo Mendes, a Edith Bruch, a Giorgio Pressburger, a Heleno Oliveira, a Jacqueline Risset, a Amelia Rosselli… e poi c’è stato nei primi anni Novanta l’inizio di quello che possiamo ormai chiamare “la Grande migrazione”, che però includeva disperati e anche scrittori spesso altrettanto o più disperati dei primi, e diciamolo pure, erano i letterati più disperati del pianeta, pensi a Božidar, a Wakkas, a Monteiro, a Hajdari. È come diceva Sinjavskij, quando tutto è perduto si può sempre emigrare verso il pezzo di carta. E poi, cosa sarebbe un “vero scrittore”? E allora chi sarebbero i “falsi scrittori”? Questo termine “vero” non definisce alcunché.
– Pensavo di adottare un criterio di letterarietà, di spessore letterario, se vuole, per distinguere un gruppo dall’altro.
– Mi sembra un’operazione troppo azzardata, lei così facendo rischia invece di adottare criteri di gusto letterario proprio, criteri più o meno arbitrari, soggettivi, senza accorgersene.
– Ok, prendo nota e poi ci penso con calma. Comunque, una differenza c’è, e secondo me non si può non menzionarla. Qualcuno l’ha già definita come la differenza tra “migranti scrittori” e “scrittori migranti”.
– La differenza ci sarà pure, ma i confini non sono così chiari, e c’è anche il caso di alcuni scrittori che si sono evoluti da una forma più testimoniale ad una più squisitamente narrativa. Penso a Butcovan, a Pap Khouma.
– Certo, ne terrò di conto.
– Avanti.
– “Così, alla fine degli anni ’90, scrittori di paesi distanti e diversi come l’India o il Brasile, la Slovacchia o l’Iraq, il Togo o gli Stati Uniti, sono approdati in Italia, si sono radicati in molte città dalla Puglia al Piemonte, e hanno iniziato a produrre – nonostante il rifiuto incondizionato delle case editrici per partito preso negativo, della critica e l’indifferenza snobistica dei colleghi nativi – una delle letterature più vigorose e originali che l’Europa del dopoguerra abbia prodotto.”
– Lei è dura con gli italiani, eh? Non so quanto sia giusta questa accusa di indifferenza snobistica. Qui ci sarà anche tanto di involontaria ignoranza e magari in molti casi c’è pure una simpatia mal espressa, una predisposizione positiva ma un po’ goffa, di chi vuole accogliere i compagni venuti dal freddo, o più probabilmente dal caldo, ma non sa bene cosa dire e ha paura di cadere negli stereotipi, di commettere delle gaffe. E poi, ci sono i malintesi. E forse anche un po’ di paranoia in certi casi, di un certo timore persecutorio preventivo. Prosegua pure.
– “Oggi, entrando nel terzo decennio di questo tesoro culturale ancora in piena effervescenza…”
– “Tesoro in effervescenza”! E questa metafora da dove l’ha presa? Immagino un forziere pieno di aspirine, e comincia a piovere… La metafora così è male assortita.
– “…è lecito fare un primo bilancio e domandarsi giustamente, al di là dei testi in sé, quali influenze abbiano avuto sulla letteratura italiana nel suo insieme, sulla cosiddetta mainstream letteraria. A partire da una lettura attenta delle opere della letteratura migrante e delle opere dello stesso periodo della letteratura italiana nativa, proporrei due campi conoscitivi in cui questa influenza è nitida e importante, quello storico-ideologico e quello stilistico-formale.”
– Al posto di “abbiano avuto” è meglio scrivere “potrebbero aver avuto”. È un’affermazione più prudente.
– Certo, “potrebbero aver avuto”… Allora, “Storicamente, si tratta dell’apertura di un nuovo sorprendente confine per la letteratura italiana (o ormai a questo punto per la letteratura mondiale scritta in lingua italiana), una vera “nuova frontiera”, un intero nuovo litorale che si affaccia su un oceano fino a qui sconosciuto, con le sue insenature, i suoi porti e certamente anche i suoi scogli.”
– Brava, stavolta ha azzeccato la metafora. Soprattutto per quel che riguarda gli scogli… Ma sto scherzando… Avanti.
– “Si tratta di una letteratura che in venti anni si è geneticamente sdoppiata, aggiungendo una nuovissima tradizione cosmopolita a un’ancestrale tradizione italica. Gli scrittori nativi hanno così acquisito una loro controparte con cui misurarsi e in cui eventualmente rispecchiarsi. È l’emersione di una dimensione autonoma, che disegna un percorso particolare, indipendente, e presenta ormai una storia a sé stante. Una storia a scadenza definita però, delimitata nel tempo, basta che si esaurisca questo ciclo migratorio, perché i loro figli non saranno più migranti ma italiani di seconda generazione. Una storia quindi ricca e intensa, a cavallo tra il XX e il XXI secolo.”
– Quest’ultima affermazione la lasci pure, ma la verità è che è presto per dirlo. E se arriverà un’altra ondata migratoria ancora più incisiva nei prossimi anni? E chi ci garantisce che non accadrà?
– È vero, professore. Se vuole, la cambio.
– No, la mantenga. Probabilmente le cose andranno come ha descritto lei.
– “Questo sdoppiamento transitorio della letteratura italiana è confermato dal fatto che ognuna di queste tradizioni ha oggi i suoi critici letterari, i suoi corsi universitari e le tesi che li nutrono…”
– Diciamo che c’è una carenza proteica diffusa. Ci sono dei corsi che non riescono ad alzarsi dal letto senza svenire subito!
– Eh già, vado avanti, “…le pubblicazioni specifiche e i relativi convegni e seminari. Nativi e migranti s’ignorano a vicenda o fingono di farlo per non concedere all’altra parte più riconoscimento e legittimazione del minimo necessario. E non è difficile prevedere che questa divisione assoluta, queste acque di colore diverso che scorrono lato a lato nello stesso fiume, durerà fino a che in una futura generazione confluiranno tutti in un’unica mainstreamletteraria, italiana forse, ma più probabilmente europea o mondiale.”
– Interessante questa metafora delle acque che scorrono lato a lato senza mischiarsi, nere e marroni, come nei fiumi amazzonici. Almeno così abbiamo evitato “come l’acqua e l’olio”, un luogo comune piuttosto stucchevole.
– “Già dal punto di vista formale, anche se difficilmente ammesse, le influenze sono notevoli. Esaminando il panorama generale della letteratura italiana doc…”
– Ha deciso di usare questa espressione, doc, come nei vini?
– Non lo so… è un po’ ironica, mi piace proprio per questo. Poi vedrò. “…della letteratura italiana doc di metà degli anni Novanta rispetto a quella di oggi, osserviamo innanzitutto il crescente protagonismo del genere racconto breve, il genere prevalente tra i migranti, nelle loro opere ma anche all’interno delle pubblicazioni da loro dirette, ossia una rivalutazione positiva e un rinnovato rispetto per un genere che, diversamente da quanto accade in quasi tutti gli altri paesi, era qui considerato minore, poco rilevante, quasi uno strumento di apprendistato e un allenamento per i futuri romanzieri. Questa visione anacronistica e riduttiva del racconto…”
– “Anacronistica e riduttiva” è un po’ troppo una sua opinione personale, signorina. La critica italiana ha un suo percorso, una sua storia, che deve essere presa in considerazione. Per esempio, la nostra visione attuale del racconto soffre l’influenza della nostra storia letteraria e deve fare i conti anche con Boccaccio e con Petrarca.
– Poi ci penso, ma secondo me un aggiornamento della visione del racconto in Italia è urgente, non crede? Anzi, mi ricordo che lei stesso l’ha detto in classe una volta.
– Sì, è possibile. Prosegua.
– “…del racconto persiste ancora però a livello istituzionale, e la prova più eloquente è il fatto che i grandi premi letterari italiani quasi mai contemplano una raccolta di racconti.”
– Lei è sicura di questo? Ha controllato?
– Sì. In passato ci sono stati alcuni casi, anche se rari, devo dire. Lo Strega ai racconti di Moravia nel 1952, Primo Levi nel 1979 con “La chiave a stella”, e poco più.
– Non mi sorprenderei se a breve concedessero uno di questi premi importanti a uno scrittore migrante. Daranno il premio purché l’autore sia uno scelto da loro, che risponda a certi stereotipi e sia già pronto e imballato per le loro campagne pubblicitarie.
– Ma lei poco fa diceva che agli italiani stanno forse simpatici questi autori, a modo loro…
– Sì, a modo loro… E cioè, in modo paternalistico. Anche i fratelli disagiati vanno sostenuti, no? Poverini…
– Capisco. Staremo a vedere. Continuo?
– Prego.
– “Un altro aspetto formale, che è un chiaro contributo degli scrittori della migrazione, è la presenza oggi frequente, e prima quasi inesistente, dei dialoghi diretti dei personaggi senza l’intervento del narratore, senza le descrizioni dell’ambiente, delle circostanze o dei personaggi che parlano. Il dialogo diretto e spoglio, adottato da certi autori italiani negli anni ’50 e ’60, come Pavesi, Manganelli, Calvino, Vittorini o Mastronardi, e poi abbandonato, da molto è parte rilevante delle strategie narrative in altre tradizioni letterarie, pensiamo al racconto sudamericano, ai testi teatrali, alle tradizioni orali o allashort-story statunitense, che sono state portate o rinforzate in Italia attraverso l’apporto degli scrittori migranti.”
– Brava a ricordare Mastronardi. “A casa tua ridono”. Bel libro. I racconti del boom economico, che poi gli sarebbero costati la vita, eh sì. Forse lei dovrebbe dire qualcosa sul perché i dialoghi diretti sono entrati in modo così deciso nella letteratura italiana di quel periodo. Era l’influenza degli Stati Uniti. Vittorini, che lei ha menzionato, è un caso classico di influenza americana. Lui curava le antologie degli scrittori americani. Cara mia, noi siamo una colonia culturale americana, non se lo dimentichi, e mi sembra che sia stato il massiccio arrivo di questi romanzi che hanno invaso le nostre librerie, e il cinema americano, a plasmare lo stile di quel decennio.
– Sì, sicuramente. Ma non ho voluto approfondire queste considerazioni per non appesantire il testo, magari aggiungo delle note a piè di pagina.
– Riguardo alla forma breve e alla forma dialogica penso che per alcune culture, come quella africana, ma anche quella araba, e in alcuni casi quella albanese, queste derivino da una tradizione prevalentemente orale. Si sviluppano quindi con modalità differenti, ma rientrano sempre in quella forma. Forse almeno questo lei dovrebbe approfondirlo già in questa sede. Avanti.
– “Un altro contributo formale importante riguarda la presenza del discorso frammentario, del “mosaico” narrativo, una tecnica prevalente nei romanzi “migranti” e anche all’interno dei loro racconti. Come una già tardiva contrapposizione alla tradizione italiana del romanzo “fiume”, coerente nei rapporti causa-effetto, nel flusso temporale continuo di stampo ottocentesco, manzoniano, la narrativa delle opere “migranti”, nelle loro complesse articolazioni di punti di vista narrativi, nella loro caleidoscopica concertazione dei discorsi, è responsabile dell’avvicinamento della narrativa italiana alla nuova sensibilità, alla soggettività frammentata, che risulta dallo ‘zapping’ e dal caotico ‘rumore di fondo’ della comunicazione contemporanea.”
– Questo aspetto della moltiplicazione delle voci narranti e la conseguente scomparsa del narratore unico e onnisciente è forse la cosa più importante, la novità più significativa. Sulle altre, il dialogo diretto e la forma breve, sono un po’ meno convinto che abbiano avuto qualche influenza sugli scrittori italiani. Non dobbiamo sopravvalutare queste ipotesi, d’accordo?
– Ma le riviste dirette da scrittori migranti, El-Ghibli e Sagarana per esempio, hanno sempre dato molto spazio al racconto breve, anche degli autori italiani. Qualche influenza nel lungo periodo…
– Ma chi ha detto che gli italiani le leggano? Secondo me non le leggono mica. Magari un po’ i poeti, perché ogni spazio concesso alla poesia è prezioso, già che sono rimasti così pochi, e queste riviste pubblicano sempre molta poesia.
A quel punto Lamarca alzò due dita della manica e sbirciò l’orologio una seconda volta. Era il segno della conclusione del colloquio.
– Avanti, signorina.
– “Infine, dal punto di vista tematico, il cambiamento è straordinario, un vero spostamento dello sguardo dall’interno, le famiglie italiane, la gioventù, il mondo contadino, lo scontro ideologico, il divario nord-sud del paese, verso l’esterno, la presenza cospicua di personaggi non italiani, le esperienze all’estero o il sogno per molti ancora impossibile di viverle, la soggettività amplificata dalle nuove ideologie, l’attenzione verso le questioni internazionali e un’inedita messa in dubbio della stessa identità italiana, la titubante rivelazione di un ‘sé’ visto da uno sguardo esterno, estraneo alle consuetudini locali, che trasforma quello che erano dati scontati e luoghi comuni in valori e comportamenti squisitamente italiani.”
– Uhm… Forse esageriamo un pochino? Sarà vero magari per i giovanissimi, o per qualcuno interessato a cavalcare l’onda, ma la maggioranza continua come sempre a girare attorno alle loro solite ossessioni, sempre la stessa zuppa, basta dare un’occhiata ai libri che hanno vinto recentemente i premi che lei ha citato.
– Io su questo ero addirittura più enfatica, figurarsi… Avevo fatto questo appunto sul quaderno per svilupparlo più avanti, ma forse lei non sarà d’accordo: “si tratta di un’inedita intersezione tra le modalità narrative tipiche italiane e quelle degli altri paesi e continenti, conducendo a forme ibride e variegate mai sviluppatesi fino ad oggi”.
– Per la letteratura migrante va benissimo, è anche una bella riflessione, ma quanto a includere anche quella stanziale non direi proprio.
– Ora l’ultimo paragrafo. “Dopo vent’anni di presenza spesso silenziosa, eppure attivissima, di questi corpi e di queste menti straniere in terra italiana possiamo dire che si sta compiendo una discreta ma efficace rivoluzione, nel senso di cui parlava Octavio Paz, un’operazione capace di trasformare il mondo, dalla quale la letteratura, rivoluzionaria per natura, è forse la punta di diamante, ma che sicuramente non si limita ad essa, rimodellando l’intera società, superando stereotipi, preconcetti e resistenze varie e a volte persino violente, ma offrendo agli italiani tutti un orizzonte più ampio, un’esistenza più variegata e ricca culturalmente e una prospettiva di inclusione nella società mondializzata che si avvicina, in un processo irreversibile che ha i suoi rischi ma al contempo è pieno di risvolti promettenti e positivi.”
– Va bene, poi pensi a quelle cose che ho detto, soprattutto a quella frase sui “veri scrittori”, elabori un po’ meglio la storia di questi approdi, e magari anche la preistoria del fenomeno, perché secondo me la cosa non è iniziata vent’anni fa ma forse addirittura quaranta o cinquanta. Me la porti corretta insieme al primo capitolo, d’accordo? Anzi, questo potrebbe essere già il primo capitolo, perché no? Se lei riuscirà a raccogliere abbastanza materiale sul periodo precedente agli anni Novanta. Ora devo andare, ho una lezione. Lei può rimanere se vuole. In quello scaffale lì ci sono altri articoli e tesi recenti sull’argomento, sicuramente le interesseranno.
– Grazie, professore, ma preferisco andare in biblioteca a cercare quegli autori che lei ha menzionato, Oliveira, Mendes, la Risset, che non conosco. Amalia Rosselli la conosco un po’ ma ho bisogno di rileggerla.
– Benissimo. Arrivederci.
– Arrivederci, professore.
Per qualche minuto Olga rimase seduta immobile, pensando al colloquio appena terminato, rimuginando alcune frasi, evidenziandone altre nella memoria, poi rivolse l’attenzione allo studio di Carlo Lamarca, la pila di tesi e manoscritti sul tavolo e sulla sedia vicina, il mappamondo ingiallito accanto alla libreria, che recava ancora l’Unione Sovietica in color rosa, gigantesca, la Jugoslavia e le due Germanie in colori diversi, le foto dei figli bambini che ormai dovevano essere grandi almeno quanto lei, e chissà cosa facevano o cosa pensavano del loro padre, i quadretti con cavalli di razza e castelli inglesi, di uno stile Inghilterra prima del rock-and-roll (quello spiegava la giacca a scacchi, e Olga poteva scommettere che il suo orientatore fumava anche la pipa a casa, dopo cena, mentre ascoltava una sonata di Purcell). Tutto così vecchia Europa – la migliore vecchia Europa, forse, ma sempre vecchia e sempre Europa –, tutto così diverso dai mondi degli scrittori che cominciava a conoscere – tanti profumi nell’aria notturna, tante cadenze musicali, tante storie di vite troncate come libri strappati a metà. Tutte cose che erano già Europa, un continente in divenire, incerto e affascinante, e in mezzo, lei, la piccola Olga, a fare da mediatrice tra il passato e il futuro di sé stessa.
Poi il suo sguardo si rivolse fuori, alla piazza. La pioggia si era trasformata in una pioggerellina quasi invisibile, e già qualcuno l’attraversava senza fretta. La luce però era ancora più crepuscolare, un’incursione della notte dentro il giorno, e una colossale nuvola nera si librava sui palazzi e sulle torri, carica di nuove tempeste. Ma Olga a quel punto si era già disimpegnata dalle metafore. E poi, le metafore non avevano più bisogno di lei. Altre mani, venute da lontano, se ne stavano già occupando, a modo loro.

L'autore

Julio Monteiro Martins

Julio Monteiro Martins è nato nel 1955 a Niterói, Brasile. “Honorary Fellow in Writing” presso l’Università di Iowa, Stati Uniti, ha insegnato Scrittura Creativa al Goddard College, nel Vermont (1979-82), l’Oficina Literária Afrânio Coutinho, Rio de Janeiro (1982-91), l’Instituto Camões, Lisbona (1994), la Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (1995), e tra il 1996 e il 2000 ha tenuto corsi in diverse città della Toscana. E’ stato uno dei fondatori del Partito Verde brasiliano e del movimento ambientalista “Os Verdes”. Avvocato dei diritti umani a Rio de Janeiro, è stato responsabile dell’incolumità dei meninos de rua. Nel paese d’origine ha pubblicato nove libri tra raccolte di racconti, romanzi e saggi, tra cui Torpalium (Ática, São Paulo 1977), Sabe quem dançou? (Codecri, Rio 1978), A oeste de nada (Civilização Brasileira, Rio 1981) e O espaço imaginário (Anima, Rio 1987). In Italia Il percorso dell’idea (petits poèmes en prose, con foto originali di Enzo Cei, Vivaldi & Baldecchi, Pontedera 1998), le raccolte di racconti Racconti italiani (Besa, Lecce 2000),La passione del vuoto (Besa, Lecce 2003), madrelingua (Besa, Lecce 2005),L’amore scritto (Besa, Lecce, 2008) e L’irruzione, racconto incluso nell’antologia Non siamo in vendita – Voci contro il regime (a cura di Stefania Scateni e Beppe Sebaste, prefazione di Furio Colombo, Arcana Libri / L’Unità, Roma 2002). Le sue poesie sono state pubblicate su varie riviste, fra cui il quadrimestrale di poesia internazionale “Pagine” e la rivista online “El Ghibli”, e nelle antologie i confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (Firenze, Le Lettere 2006) e A New Map: the Poetry of Migrant Writers in Italy (Los Angeles, Green Integer 2006). È stato ideatore dell’evento “Scrivere Oltre le Mura”. Attualmente vive in Toscana dove, oltre a insegnare Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria presso l’Università degli Studi di Pisa, dirige e insegna nel Laboratorio di Narrativa, che è parte del Master della Scuola Sagarana, a Lucca, ed è direttore della rivista letteraria on-line “Sagarana”. Nel 2011 è stata pubblicata la monografia sulla sua opera Un mare così ampio: I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, di Rosanna Morace, per la Libertà edizioni, di Lucca. Nel dicembre 2013 è stata pubblicata la sua raccolta poetica “La grazia di casa mia” (Milano, Rediviva).