Recensioni

Lo sguardo del leone

Maaza Mengiste
Lo sguardo del leone
Neri Pozza 2010

Paola Zoppi

Anno 1974 e la storia di una famiglia che si intreccia alla storia dell’Etiopia. O meglio, la storia di una famiglia che è in realtà la storia di un paese.
Hailu, il capo famiglia, medico stimato ad Addis Abeba, padre e nonno, colui che è capace di “resuscitare i morti”, perlomeno è quello che credono, tenta di preservare coloro che ama dalle atrocità dei giorni. Combatte contro la propria etica, tradendo le promesse fatte, nel tentativo di salvare la moglie, Selam, dalla morte cui è destinata. Per trent’anni ha lavorato nel suo ospedale, e il Black Lion Hospital è ormai lo spettro di se stesso. Rincorre un’unità famigliare, che si sta dissolvendo, per non dover accettare ciò che si sta verificando attorno a lui. Fino a quando la realtà non busserà al suo studio, sotto forma di una giovane stuprata, torturata, in fin di vita, avvolta in un sacco di plastica, sfumando l’illusione di essere inattaccabili.
Yonas, il professore, figlio di Hailu, è colui che attende nell’ombra, non partecipa attivamente alle attività sovversive e non si capacita del coinvolgimento dei propri famigliari. Yonas, che apparentemente consegna il proprio padre nelle mani dei torturatori, non è esente dal dolore e con il rosario in mano, rifugia le proprie pene nella stanza delle preghiere. Così distante da Sara, sua moglie, che crede di essere vittima di un maleficio, di essere ella stessa distruttrice di ogni cosa buona vi sia sul suo cammino. Dalla morte dei propri genitori, attivi combattenti per la libertà dell’Etiopia, alla malattia che colpisce la figlia Tizzie, non si da pace. Dal suo senso di colpa cerca un po’ di pace ed è questo che la induce a partecipare alla resistenza clandestina.
Non restano che Dawit e Mickey. Due giovani uniti da un’infanzia in comune. Divisi dall’incedere della storia. Dawit aderisce alle idee rivoluzionarie che pongono fine all’era dell’Imperatore, che sconfisse l’occupazione italiana. Crede nella rinascita del paese all’ombra del comunismo, fino a quando non si vocifera sulle attività dei militari, fino a quando l’economia del paese viene razionata e razziata, fino a quando non riconosce il benessere dei potenti, nelle lettere di Mickey, a scapito del popolo. E che dire di Mickey. Non distante dai ritratti di giovani arruolati nelle fila militari per sconfiggere gli oppositori del regime, per imporre il silenzio del nemico, per mantenere l’ordine, la sicurezza. Per giungere alla carriera di sanguinario. Si intravede ancora il profilo del bimbo, che spinge fino in fondo le lenti degli occhiali per vedere meglio, nell’uomo che imbraccia il fucile, sotto minaccia, con un sacchetto di plastica in testa, e spazza via i funzionari imperiali con una scarica di pallottole. Le vite di Dawit e Mickey giungono ad un punto di non ritorno.
Maaza Mengiste racconta, “rievocando l’essenza di quegli anni tumultuosi attraverso
l’immaginazione”, come riportato nella nota dell’autrice, un paese che ha sconfitto l’occupazione italiana, che vede nascere uno stato fatto di resistenti, e ancora che viene sovvertito dai militari e che boccheggia nel tentativo di una controrivoluzione. Nel romanzo, la promessa che tutto si sarebbe svolto senza un bagno di sangue, viene smentita dai cadaveri di giovani, bambini, intellettuali e studenti, strappati alle proprie case, ai propri famigliari, abbandonati per le strade, con ancora le scritte oltraggianti sui corpi, apposte con il loro stesso sangue. Le stesse strade in cui la propaganda
militare si fa incessante, con parate sontuose, manifesti propagandistici e assemblee obbligatorie. La durezza dei significati è abbacinante.
La narrazione di Maaza Mengiste non chiede clemenza a nessuno, neanche alla scrittura. Il suo stile asciutto, distante dalla retorica, attento a non superare la soglia del facilmente impressionabile, pone l’accento sulla storia, solo sulla storia, senza discussioni. Il ruolo della violenza imprescindibile dall’accadimento degli eventi narrati, la tortura inflitta ai corpi increduli, l’abbandono dei cadaveri per le strade, l’escalation delle violenze l’indomani di un attentato, è spaventosamente calibrato e tangibile. E il leone è una costante, lasciando trasparire che lo sguardo del leone è forse lo sguardo di chi tenta di rialzarsi dopo un duro attacco, dopo le scariche elettriche, i pugni, i calci e le infamie, ma nonostante questo non cede.

25-05-2020

L'autore

Paola Zoppi