Recensioni

Luoghi incerti 1

Stefanie Golisch
Luoghi incerti
Cosmo Iannone      2010

Mimma Albini

 

Che cosa è Luoghi incerti?

Romanzo? Pagine di diario? Appunti di viaggio? Autobiografia? Flusso di memoria?

Del romanzo non ha una storia ma ha un intreccio, direi l’intreccio per eccellenza. Quello della vita. Al centro della sua scrittura c’è infatti il desiderio, che diventa bisogno profondo, di andare oltre la  scorza di vicende, viaggi, incontri, letture, ricordi, che la vita offre per capire qualcosa di più del proprio passato e potersene finalmente congedare, come scrive a pag. 15:

 “Non si può assolutamente essere allo stesso tempo chi si è stato e chi si è. Deciditi: o permetti alla paura di trattenerti o prendi coraggio e ti butti nelle braccia del caldo vivere”.

Come in un romanzo ci sono storie nella storia, ci sono frammenti di piccole storie, come quelle dei nonni e dei genitori che si intrecciano con la grande storia della Germania delle guerre e dei dopo guerra, e personaggi, delineati con pochi tratti ma subito visibili al lettore, perché colti ognuno nella propria peculiare essenza. Non importa se essi siano familiari, conoscenti, amici, oppure personaggi letterari, o addirittura scrittori e poeti. Il mondo di Stefanie è generoso e accogliente, non valuta con il metro del successo ma con quello dell’umanità e descrive persone o personaggi, creatori o creature, vivi o morti, con la stessa partecipe e intensa sensibilità per andare oltre l’apparenza e cogliere, magari da dettagli insignificanti, il nucleo di un’esistenza, l’ombra dietro la luce, il dramma inespresso di una vita. 

Diario di viaggio

Ci sono molti luoghi a fare da sfondo e non solo (a volte acquisiscono essi stessi lo status di protagonisti) alla narrazione di Stefanie. Luoghi con un nome preciso e unico, come Lemgo, la piccola città nel nord-ovest della Germania dove è nata e da cui sente che deve allontanarsi al più presto, Marsiglia, meta improvvisata di una prima vacanza finalmente senza la famiglia, insieme a un gruppo di amici, Parigi, dove trascorre un lungo periodo dopo la maturità come ragazza alla pari, spinta dal desiderio di liberarsi dalla provincialità della sua origine, che sente come una trappola, gli Stati Uniti, tappa ulteriore della necessità di prendere le distanze definitive, Berlino, città cui approda nella maturità e nelle cui ferite e contraddizioni riconosce quasi come in uno specchio le proprie, e l’Italia, declinata in una molteplicità di luoghi, dove risiede da più di vent’anni. Tutti questi luoghi (e molti altri), oltre ad essere quello che sono, rappresentano luoghi interiori, mappe di sentimenti, emozioni, intenzioni già presenti in un tempo passato ma che solo la parola che scava riesce a cogliere oggi nella loro intrecciata e ambivalente complessità.

Già, perché è proprio la venerazione della “parola”, (non penso di esagerare se affermo che per Stefanie si tratta di una devozione quasi religiosa), in nome della quale ripercorre le proprie esperienze, che le permette di giungere al nucleo di esse, e di trovarlo, in alcuni casi, ancora incandescente, e in altri caldo, ma mai, invece raffreddato. Qui, in questo centro la letteratura e la vita si congiungono. 

Letteratura e vita

La scrittura di Stefanie è continuamente costellata da riferimenti letterari, da versi di poesie a lei particolarmente care, da aneddoti sulla vita dei suoi autori preferiti. Nei suoi scritti si avverte fortissima la presenza della letteratura nella vita, che non è presenza accessoria bensì necessità vitale, percepita e assecondata dall’autrice fin dall’adolescenza. Dunque un intreccio fitto di letteratura e vita, che non rappresenta lo sfoggio intellettuale di uno scrittore che vuole stupire o far pesare una sua presunta superiorità. Dietro ogni citazione è immediato sentire la passione che l’ha, come dice lei stessa, istintivamente guidata verso le opere di quegli scrittori nei quali coglieva delle ferite, le medesime che riconosceva in sé. E a questi incontri, letterari, ma proprio per questo ancora più intensi perché agiti in una dimensione ideale, si presenta con tutta se stessa, senza risparmiarsi, con una devozione e un’attenzione all’altro, come ci si presenta ad un appuntamento amoroso.

In questo modo nascono molte relazioni, con Uwe Johnson, su cui imposta la sua tesi di dottorato, Ingeborg Bachmann, Nabokov, e poi tanti poeti, Rilke, Benn, nessuna in conflitto con l’altra, poiché, a differenza della vita, nella dimensione letteraria amori plurimi possono convivere felicemente, senza timori di gelosia o sospetti di tradimento.

E la citazione quindi diviene, anch’essa, un luogo incerto, il punto d’incontro tra due esseri simili, il terreno su cui la letteratura e la vita si riconoscono e si parlano.

A dimostrazione dell’importanza di questa frequentazione con la letteratura, che è iniziata per S. molto presto e continua con una sempre maggiore consapevolezza, è il capitolo dal titolo Leggere, non a caso preceduto dal capitolo intitolato Vivere. Tra leggere e vivere non c’è alcuna differenza: con i libri ci si avvicina e ci si allontana, si esulta e si soffre, ci si innamora e ci si delude, ci si lascia e ci si trova, si gioisce e ci si annoia, in un’inesauribile alternanza, esattamente come nella vita.

Autobiografia

Si potrebbe dire che Luoghi incerti sia un’autobiografia. E’ vero. Al centro del libro c’è sempre l’autrice, che ripercorre il proprio passato per congedarsi da esso e indaga, in misura minore, il presente. Ma, ad ispirare questo cammino a ritroso è il forte desiderio di spogliarsi di un io troppo ingombrante, di liberarsi dalle angustie di un’identità per abbracciarne tante, per dare spazio ai vinti, ai falliti, ai dimenticati. E così presta la parola a tante figure, uomini e donne che non hanno avuto la possibilità, perché vittime delle circostanze storiche, di un destino personale beffardo o semplicemente incurante, o del tempo di una vita, che si è conclusa troppo presto, come se volesse riscattarli e offrire loro la “vera” opportunità. Quella di esserci stato. Una vita, qualsiasi vita, non può trascorrere invano, scorrere come se fosse trasparente e non lasciare traccia. Attraverso la parola quell’uomo o quella donna tornerà ad esistere e grazie alla pagina conoscerà una visibilità sfuggita, in vita, a sé e agli altri, la sua umanità non andrà sprecata.

Conosco Stefanie da anni e trovo sempre sorprendente questa sua capacità di entrare con sensibilità e discrezione, ma anche con ferma consapevolezza, nelle vite degli altri per poi mettere al loro servizio la propria letteratura, la propria parola, con la medesima attenzione che rivolge a scrittori e poeti.

Il libro sfugge ad ogni tentativo di rinchiuderlo in una definizione, in un rassicurante recinto, come fosse un cavallo che non si piega ad essere domato, ma corre orgogliosamente libero in una prateria dai confini che si perdono alla vista. Luoghi incerti è tutto quello che si è detto ma anche molto altro.

L’autrice penetra e ci fa penetrare con lei nei suoi luoghi incerti che sono anche i nostri, nelle ferite ancora aperte e in quelle rimarginate di cui non nasconde le cicatrici, insomma ci offre il suo coraggio e la sua disponibile compagnia affinché ci possiamo sporgere sul suo abisso, che è il nostro, ma sul quale ognuno decide quanto è in grado di resistere prima di perdere l’equilibrio. Stefanie si/ci propone quest’avventura, che inquieta più che rassicura e a volte tormenta, non per trovare a tutti i costi una soluzione conciliatrice ma nemmeno per abbandonarsi/ci spaventati e insicuri sul ciglio del burrone, incapaci di avanzare così come di retrocedere.

Nell’ultimo capitolo “Il mio testimone”, scritto in una prosa che si fa sempre più astratta e poetica, i fili s’incontrano e s’intrecciano di nuovo, i vari rivoli andati nelle più diverse direzioni, riaffluiscono nel fiume da cui si erano allontanati, tornano alla narrazione centrale, a quell’intreccio della vita, nelle cui oscurità e meandri l’autrice, nel primo capitolo, rivelava il timore e, al contempo, il desiderio di inoltrarsi.

Tutti gli strati che ha indagato e tutti quelli che ancora, e forse per sempre, restano impenetrabili, raccontano la complessità avvincente, fatta di contraddizioni e ambivalenze, di collegamenti e casualità, di necessità e volubilità, della vita, la cui logica sfugge. Pur tuttavia in questo groviglio incomprensibile riesce a cogliere una certezza: la sua forza inarrestabile che procede, malgrado tutto e che investe di sé ogni essere della terra e che, in ogni essere, dà luogo a infinite trasformazioni e metamorfosi, generandosi e rigenerandosi continuamente.

“Quante voci, maschere, travestimenti, oltraggi e fiacche parole d’amore, quanta vita in un singolo uomo, quanti uomini in un uomo, donne in una donna, quante possibilità e quante occasioni perse, parole non dette, gesti dimenticati, progetti lasciati a metà.”

Svelati.

Senza palpebre ti voglio, pronto a riconoscerti negli occhi del tuo peggior nemico che è sempre al tuo fianco, che ti ama e ti protegge, il tuo testimone.”

Questo è un invito a tutti noi: guardare e guardarsi senza troppe certezze, senza rassicuranti pregiudizi, andare oltre la soglia che ci fa percepire la realtà come tale, per scoprire nuove terre, alla ricerca di altri luoghi incerti, aiutati dalla presenza, tra le altre, di un’ insostituibile compagna cui non dovremmo mai permettere di abbandonarci: l’immaginazione.

Vorrei segnalare due caratteristiche sul piano formale: il ritmo, sempre concentrato e l’originalità della lingua.

Non ci sono mai momenti di noia, indipendentemente dal tema trattato. Il ritmo sempre incalzante, senza interruzioni produce una narrazione tesa e densa. Sono convinta che ciò sia la naturale conseguenza della perfetta adesione tra l’interiorità sempre all’erta dell’autrice e la parola che la descrive. Per usare una metafora mi viene in mente l’arco teso, dove prima della mano è la concentrazione di chi lo imbraccia a scoccare a segno la parola-freccia.

La lingua, forse perché l’imprinting linguistico non è avvenuto con l’italiano, che, pur essendo la sua lingua da vent’anni, è comunque una lingua d’arrivo, è caratterizzata da un’originalità di fondo. Il lessico scelto, le coppie di nomi ed aggettivi non appaiono mai banali o scontati. E’ come se Stefanie, scegliendo l’italiano, abbia scelto una libertà, oltre che psicologica, anche linguistica, fuori dai canoni che la cultura e la tradizione del proprio paese impongono di rispettare. Come se, da straniera, abbia ancora a disposizione una lingua “innocente”, non ancora abusata o logorata, che perciò mantiene, al tempo stesso, freschezza e pregnanza.

 13-06-2011

L'autore

Mimma Albini