Julio Monteiro Martins
Il mio caso, credo, è un po’ sui generis. Nonostante già allora, quando sono emigrato in Italia, fossi uno scrittore e un professore di letteratura e di creative writing, non ho portato con me, dentro la mia grande valigia di cartone grigio, nessun altro libro fuorché una copia di ciascuno dei miei libri, e l’ho fatto forse per poter dimostrare più avanti di non essere un neonato, un bugiardo o un’apparizione ultraterrena come il fantasma del padre di Hamlet, nel caso qualcuno lo avesse messo in dubbio. A proposito, la valigia, comprata in un negozio popolare di Rua São José, a Rio de Janeiro, all’equivalente oggi di dieci euro, aveva stampata una fantasia di roccia, di granito lucidato, e sembrava una piccola lapide portatile, perciò non è fuori luogo il paragone con il fantasma del vecchio sovrano! Ed è meglio fermare qui il discorso funereo, ché queste metafore sono tanto fertili quanto pericolose: non sarà l’immigrazione una sorta di “piccola morte”? Un “suicidio amministrato” dell’identità di sempre per, in questo modo, acquisire la chance di rinascere altrove?
Dicevo, non ho portato alcun libro con me, e non perché la valigia fosse piccola – anzi, era enorme, un vero sarcofago quadrato – ma perché non era una valigia per libri. Per capirlo bisogna comprendere bene che cos’è la valigia dell’emigrazione, al contrario per esempio della valigia delle vacanze. È l’ultima opportunità che uno ha per racimolare gli oggetti che davvero conteranno, che sono allo stesso tempo corpo e storia. E non sono prodotti industriali, fatti in serie, come libri o poster o cd, o frullatori o calcolatrici. Sono cose uniche, insostituibili, mai più ritrovabili, che concentrano in sé un’essenza di memoria, di emozioni incancellabili, oggetti che in futuro dovranno essere alla portata dello sguardo e delle mani quando la morte in esilio – espressione magniloquente solo in apparenza, ma che descrive una circostanza ineludibile nella sua banalità – si accosterà all’esiliato, oggetti che dovranno meritare la curiosità dei figli e dei nipoti quando avrai già lasciato questo mondo (stavolta sotto una lapide vera, mica di cartone).
Qualche esempio dei miei oggetti? Una conchiglia della spiaggia dove sono cresciuto, che mi è stata regalata da una bambina conosciuta in una mattina di sole; una fotografia ingiallita della mia bisnonna Isaura, morta a soli 27 anni nell’epidemia Spagnola che nel 1918 ha sterminato nei cinque continenti tutte le donne incinte; la testa di legno di un indiano che avevo scolpito io con un coltellino, sotto la luce fioca di una lampada al cherosene, quando avevo 13 anni e vivevo con i miei nonni in una fattoria nelle montagne di Agulhas Negras (per sei mesi ho lavorato su quel cubo di legno durissimo, probabilmente di quebra-foice, per ragioni squisitamente inconsce, che non capivo allora come oggi); la lettera scritta da mia madre ai suoi due figli quando ha realizzato che la sua malattia era fatale – e aveva solo 49 anni quando è morta. Questa lettera è poi misteriosamente scomparsa, o fatta scomparire – da me stesso? – in un lapsus che mi turba e mi sommerge di rimpianto ogni volta che ci penso. Che altro? Due piccole sculture in bronzo di Xico Stockinger, raffigurando un uomo e una donna che si accoppiano, che mi sono state regalate per il mio 20° compleanno da una donna che mi assicurava di aver scoperto l’amore con me, il più bel regalo di tutti; una silografia di Rubem Grilo che riproduce la testa di un uomo pensieroso, con la guancia appoggiata sul proprio pugno, intento da così tanto tempo nelle sue fantasticherie che la testa, sciogliendosi, ha preso la forma del pugno stesso: un pensatore scotto e sfatto, altro che Rodin… Così ho riempito il mio mausoleo con manico di oggetti d’arte, quaderni e diari, lettere già allora ingiallite, vecchie cartoline e fotografie, feticci, talismani, minimi frammenti della natura, oltre a qualche camicia e un paio di pantaloni, ovviamente. Un bagaglio tipico di chi parte non dalla patria, ma dalla vita.
I libri poi li avrei ritrovati tutti, o quasi, in italiano, la mia nuova lingua di lettura e di scrittura, la lingua dei miei figli e dei miei nuovi libri. E più tardi sono arrivati anche i libri in portoghese, Machado de Assis, Guimarães Rosa, Clarice Lispector, Drummond, Rubem Fonseca, portati a mandate dagli amici e dagli allievi. Il portoghese, la lingua della mia memoria, la lingua madre, è rimasta appunto insieme a mia madre: se sono stato l’anello che ha collegato lei, Selma, alla piccola Beatrice, perché non potrei essere anche l’anello che connette il suo portoghese all’italiano ancora incerto di mia figlia?
Scrivendo in Italia nuove opere, piacevolmente bastarde, in un idioma che echeggia musicalmente il portoghese e ripropone acute metafore brasiliane, sono stato alla fine io stesso la valigia, quando credevo di portarne una. E come il fantasma del padre di Hamlet, sono giunto in questo mondo da un altro mondo, in cerca di pace e di giustizia (ma poi è venuto Berlusconi, e gli esami non finiscono mai…).
Lucca, 13 e 14 Maggio 2010