Vanna Cercenà
Non piangere, non ridere, non giocare
Lapis, 2014, pp.146 € 12,00
Anna Lisa Somma
“Papà, cosa vuol dire solitudine?”
[…] “Solitudine vuol dire essere soli, senza compagnia. […]
Noi non siamo soli: vedi, siamo io e te.”
“Ma allora, quando tu sei a lavorare, io sono insieme alla solitudine, vero?”
dal film Lo stagionale (1971) di Alvaro Bizzarri
Ci sono infanzie scandite da corse a perdifiato, onde da domare, sentieri da battere instancabilmente; e ce ne sono altre impastate di buio, nostalgia, sacrifici talvolta incomprensibili.
Teresa – la protagonista di Non piangere, non ridere, non giocare, ultima fatica di Vanna Cercenà – lo sa bene. Non riesce a capire sino in fondo quell’esistenza nuova e soffocante che l’accoglie in Svizzera nell’inverno del ’69, per seguire sua madre, vedova e operaia che cerca oltralpe un po’ di fortuna. Ha quasi dieci anni, e nel fondo degli occhi trattiene saldo il ricordo delle sue montagne pistoiesi, della scuola abbandonata a malincuore, della nonna amata che, ormai senza alcun parente ad accudirla, è stata costretta a trasferirsi in un ricovero.
Il destino di Teresa sembra essere lo stesso di migliaia e migliaia di minori entrati come lei illegalmente in territorio elvetico perché il permesso da lavoratori stagionali dei genitori immigrati non autorizza ricongiungimenti familiari. E per rimanere con i propri cari, dunque, ai bimbi e ai ragazzi non resta altra possibilità che vivere letteralmente nell’ombra, trascorrendo interminabili ore relegati fra quattro mura estranee, stretti nella morsa della noia e della desolazione. Le stime parlano di almeno dieci-quindicimila piccoli e adolescenti in queste condizioni negli anni Settanta, ma il problema persiste sin quasi alla fine del ventesimo secolo, sebbene già negli anni Ottanta consultori e organizzazioni denuncino la situazione, talmente preoccupante da far mobilitare l’Unicef, come racconta Marina Frigerio Martina nel suo Bambini proibiti.
La reclusione può durare settimane, mesi, talvolta persino anni, ed è bene imparare in fretta l’arte della prudenza: vietato affacciarsi alla finestra, rispondere al telefono, far scricchiolare l’impiantito o lasciarsi scappare un oggetto dalle mani. Persino il tintinnio delle posate sa rivelarsi traditore. D’altronde, chiunque – un vicino, un passante, un conoscente – può far la spiata che costerà l’espulsione.
Teresa è ubbidiente, accorta, ma sempre più abulica e pallida: lontana dai coetanei, dai giochi e pressoché da ogni tipo di stimolo, sprofonda in una routine avvilente. Occorrono un gatto, Tigro-Poppins il rosso, e il suo padroncino italo-svizzero Paul per rivoluzionare le lunghe giornate di isolamento: al mondo angusto del sottotetto, incrostato di paura e tristezza, si sostituisce così il regno sconfinato dei tetti e della libertà, sebbene momentanea. Quella vera, stabile, garantita dalla legge, potrà infatti affermarsi o svanire nel nulla col tanto temuto referendum Schwarzenbach (dal nome del suo promotore, politico fortemente contrario all’“inforestieramento” della Svizzera), che si terrà il 7 giugno 1970.
Vanna Cercenà, nel suo romanzo per ragazzi (assolutamente consigliato anche agli adulti), immagina le peripezie dei due amici, cucendo insieme con intelligenza gustose avventure e acuminati frammenti di realtà. Seppur delineato con pochi, densi tratti, il contesto storico-sociale di Non piangere, non ridere, non giocare si rivela tutt’altro che un semplice sfondo o un pretesto per innescare la trama, così come la levità dello stile non intacca la profondità dei temi toccati. Sono ben rappresentati – in modo sintetico, ma senza mai ricorrere a facili pietismi o slogan ideologici – il malessere di Teresa, le difficili condizioni di vita degli stagionali, i sensi di colpa di una madre obbligata quotidianamente dalle circostanze a lasciare la figlia a casa da sola, in costante stato d’allerta (purtroppo, come la letteratura medica insegna, non di rado bambini in queste condizioni sviluppano attacchi di panico, disturbi dell’apprendimento, gravi ritardi culturali).
E se l’intellettuale svizzero Max Frisch è riuscito a condensare i drammi esistenziali dell’emigrazione italiana nella celebre frase “cercavamo braccia, sono arrivati uomini”, Vanna Cercenà ci ricorda che questi lavoratori anonimi hanno a lungo trascinato con sé bisogni, desideri, speranze, nonché ombre pallide e mute: quelle dei figli relegati alla rassegnazione e all’inanità.
7 giugno 2014