…quello infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno.
(Giacomo Leopardi, L’infinito)
Erano le otto del mattino ma il nonno era già in piedi da almeno un paio di ore. Sembrava non dormire mai, il nonno di Ivano. Prima dell’alba aveva già messo la giacca e la cravatta. Elegante, distinto, autorevole e mai autoritario, parlava sempre basso ma con una tale fermezza nella voce da farla sembrare amplificata. L’ambiente vibrava e quella voce permaneva, una lunga eco inaudibile.
Chiese se avesse bisogno di soldi e Ivano gli rispose di no. Come se non l’avesse udito infilò la mano in tasca e gli porse una moneta da dieci lire. È per la merenda, disse. E Ivano la prese e la mise in tasca, poi lo baciò sulla guancia e uscì con la sua cartella nera, chiudendo la porta-finestra del salotto e a seguire il vecchio portone di legno del muro di cinta.
Uscì di casa già nervoso, spaventato dalle esplosioni, stordito dal brusio del mondo, con tutte quelle manifestazioni per strada, le insidie nascoste ad ogni passo. Uno sapeva di partire ma non era sicuro di arrivare a destinazione o di tornare a casa dal lavoro.
Prima o poi. Presto o tardi. O né presto né tardi: sempre, pensò.
Le strade erano ancora semideserte a quell’ora, ma poco prima dell’ora di pranzo si sarebbero di sicuro riempite, e quando sarebbe stato il momento di prendere sua moglie all’ingresso dell’università sarebbero state già pericolosamente affollate.
Non la trovò nel solito posto ad aspettarlo, ma guardandosi intorno la scorse dall’altro lato della strada, che mangiava un’insalata insieme a delle nuove amiche, tutte madri di ragazzi e ragazze adolescenti, che parlavano della loro paura degli incidenti mortali il sabato sera, all’uscita dalle discoteche.
Era una giornata frenetica per Ivano. E le giornate frenetiche erano trasparenti, inafferrabili, scomparivano senza lasciare traccia. Aspettò che le donne finissero il loro pranzo e diede un passaggio alla moglie fino a casa. Poi tornò subito al lavoro. Era in ritardo, e forse proprio per questo era in affanno e si dimenticò di premere il tasto del 6° piano dell’ascensore. Allora dovette aspettare che si fermasse a tutti i piani dov’era stato chiamato fino al 25°, una vera scocciatura. Quell’ascensore per di più non si fermava a nessun piano mentre scendeva, bisognava arrivare fino al pianoterra per poi poter risalire fino al 6°. Così Ivano, dieci minuti più tardi, si ritrovò nella hall di marmo nero luccicante. Uscirono tutti, tranne lui. Quel sali e scendi, sali e scendi, ci confonde e quando uno se ne accorge la giornata è già bell’e che andata dentro quel carosello blindato.
Entrarono altri impiegati nell’ascensore fino a riempirlo nuovamente e Ivano dovette faticare per raggiungere con le dita il panello e premere il 6° piano. Quando riuscì finalmente ad arrivare al suo ufficio la sala d’attesa era già affollata da tutti quelli che avevano appuntamento con lui quel pomeriggio, e il malumore era generalizzato.
Allora, respirò profondamente e pensò: fra poco sarà domenica.
Domenica, domenica, e ancora domenica. Si collegavano una all’altra come piccoli anelli di una stessa catena. E Ivano dovette saltare da una domenica all’altra, dovette cercare i sassi che spuntavano dalla palude.
Altri pochi anni però e non avrebbe più dovuto lavorare. E così ogni giorno sarà domenica, pensò. Ma chissà perché non riuscì a rallegrarsi a quel pensiero.
Mancava un ultimo cliente, una signora grassottella dai capelli rossi di nome Grazia. O era la figlia? Erano così uguali! Mah. Sembravano proprio un copia/incolla da una generazione all’altra.
Finita la giornata, dovette correre a riprendere il bambino e portarlo dal nonno. Il nipote di Ivano, Marco, aveva avuto quel bellissimo bambino, che si chiamava Marco come il padre. Ora aveva quattro anni, capiva tutto e diceva le cose più buffe! Lo chiamava nonno-grande e voleva sempre che gli comprasse la ‘melendina’.
– Ma è già quasi ora di cena, gli dico. Ma lui insiste che vuole la sua ‘melenda’.
E va be’. Dài. Perché non soddisfare ogni tanto il capriccio di un bambino? Allora lo porto in panetteria a prendere la ‘melenda’ che vuole con i soldi che il nonno mi aveva dato la mattina e lo riporto a casa insieme a me.
Entriamo e troviamo mio nonno ancora sveglio, vestito di tutto punto. Non è ancora l’ora di indossare il suo pigiama di flanella a righe. Ci riceve come se fossimo ospiti di riguardo, e si vede che è felice di averci lì con lui. È sorpreso della crescita del bambino, che credeva ancora un neonato e invece è già diventato un ragazzino molto sveglio.
Andiamo tutti in cucina e do al nonno il resto delle dieci lire, che lui come sempre non vuole accettare. Metto in tasca le monetine e li guardo per un po’. Che bello, quei due insieme! Poi lascio i due amici assorti a raccontarsi le loro storie e dalla porta di dietro della vecchia casa, che è appena socchiusa come se mi aspettasse, esco senza farmi notare verso il buio della notte e oltre.
Il brusio del mondo è stato pubblicato in “Un mare così ampio”. I racconti in romanzo di Julio Monteiro Martins, Lucca, Libertà edizioni, 2011.