Gabriele Del Grande
Roma senza fissa dimora
Infinito 2009
raffaele taddeo
Gabriele Del Grande, dopo il noto “Mamadou va a morire” con cui metteva in evidenza le travagliate, pericolose vie percorse da coloro che fuggono dal sud del mondo per cercare di arrivare in Europa, ha pubblicato recentemente per l’edizione “infinito” il testo “Roma senza fissa dimora”. Si tratta di un reportage su coloro che hanno “scelto”, si sono trovati sulla strada e ci vivono tutti i giorni.
Il luogo scelto per questa singolare esperienza è stata Roma.
Intanto una dichiarazione di onestà professionale perché nel riferire un colloquio avuto, nel pieno dell’esperienza con un’operatrice sociale riporta: “ha ragione nel dire che la mia scelta è del tutto personale e niente affatto necessaria né tanto meno sufficiente alla comprensione della complessità dei mondi della strada…ha ragione infine a dire che comunque non potrò mai comprendere che cosa significa essere sbattuti su una strada da un bastardo destino, perché non è questo il mio caso, non è il mio vissuto”.
Dalla lettura delle pagine del testo, affascinanti e trascinanti, sempre più si evince l’insondabilità delle ragioni ultime per cui dopo una prima volta che si è stati costretti a dormire su una panchina, su un gradone coperti da cartone, poi si rimane come inchiodati in questa situazione e non si riesce quasi mai più ad uscirne vivendo solo momenti e aspetti di sopravvivenza , fra il dormire, il mangiare in mense di carità, o in compagnia di bicchieri di vino che annebbiano e fanno dimenticare.
Ma è più di un reportage perché non è un’indagine fatta dall’esterno con le lenti dell’osservatore, con tanto di interviste o cineprese, ma è quello di chi si è sporcato le mani direttamente, perché per una quindicina di giorni ha voluto vivere insieme a coloro che hanno come loro abitazione la strada, come giaciglio selciato, gradoni, grate, protetti da cartoni.
E tuttavia alcuni elementi strutturali insiti nella vita di strada emergono dal reportage di Gabriele Del Grande: la scomparsa delle dimensioni temporali; la solitudine.
In più di un’occasione, di racconto di storie vissute in questa esperienza l’autore insiste nel fatto che si vive alla giornata, il tempo passato si tende a dimenticarlo perché a volte ferisce ancora, si tende a rimuoverlo, ma specialmente non c’è futuro. L’assenza di questo tempo, vuol dire aver rinunciato a tutto, a progettare, a sperare, a intravedere una via d’uscita dalla propria situazione.
Rimasi colpito tanti anni fa quando leggendo un testo del linguista britannico Basil Bernstein, venni a conoscenza del fatto che le classi operaie nel loro uso quotidiano della lingua ignorano il futuro. Qui non è solo la mancanza di utilizzo di una forma temporale, ma l’assenza di questa dimensione temporale dall’orizzonte della propria vita. Ma probabilmente è la condizione della subalternità che elimina dalla propria dimensione di vita il tempo e l’immagine del futuro.
Chi si trova a lottare per la sopravvivenza non può organizzare le proprie forze per qualcosa d’altro, non può permettersi di sviare la propria mente per altre occupazioni.
Il secondo aspetto strutturale della condizione dei senza tetto è la solitudine. C’è una bella pagina del testo del giornalista toscano che descrive questo stato d’animo. “E’ dura la solitudine. Non tanto il fatto di stare da soli, quanto piuttosto avvertire la propria assenza…In una parola, (si è privati)della memoria di sé”.
Solitudine (nessun uomo è un’isola scriveva nel 1700 Jonn Donne) che porta alla degradazione più nera. “Il fatto cioè di non lavarsi, di puzzare di piedi marci, piscio e tabacco…concorre a proteggersi da un contatto che si teme e allo stesso momento si desidera…Dopo tutto perché prendersi cura di sé quando si è completamente soli? O, meglio, per chi prendersi cura di sé, quando non rimane più nessuno di cui prendersi cura?”
Il comportamento umano si rivela nella sua crudeltà quando si è costretti alla vita della strada senza nessun filtro di buoncostume. In più d’una occasione Gabriele Del Grande afferma che anche nella strada si ripresentano gli schemi della gerarchia sociale, dei conflitti sociali esistenti nelle classi agiate, superiori. Il mondo dei degradati è mimetico del conflitto sociale delle classi “assicurate”. A margine di questo c’è la constatazione che “la solidarietà è un lusso” e non esiste in chi è costretto alla sopravvivenza.
Il testo del giornalista non vuole essere qualcosa di scientifico, una puntualizzazione esaustiva del problema, assume invece spesso la forma narrativa, quasi di un romanzo. Si legge con intensa partecipazione senza alcuna identificazione con alcun personaggio così che è possibile poi riuscire ad evincere reali elementi di consapevolezza e conoscenza.
05-02-2010