Stanza degli ospiti

Sotto l’Arengario

racconto di Clementina Coppini

Emma non amava parlare in pubblico, o forse sì. Dipingeva. L’avevano invitata come esperta d’arte in quella sala in centro dove organizzano eventi interessanti. Quella volta però si trattava di un incontro noioso con pochissima gente. Ovvio, altrimenti non avrebbero chiamato lei.
Pietro alla fine si era avvicinato. Si era presentato e le aveva detto che era innamorato dei suoi lavori. Non aveva detto proprio innamorato, ma si capiva che lo era. Era innamorato dei suoi quadri e ora anche di lei. Emma l’aveva capito subito. Lui era elegante, profumato e ben educato. Le piacevano gli uomini in giacca e cravatta che sapevano di Dior, ma lui non l’aveva colpita più di tanto.
Si ricordava di avere avuto un aspetto migliore, ma ora stava appassendo e l’età l’aveva liberata infine dagli sguardi degli uomini. Pietro era arrivato davvero troppo tardi.
Prima di salutarla le aveva dato il suo biglietto da visita e l’aveva invitata a pranzo per un giorno da definirsi. Presente quegli appuntamenti che si possono evitare per sempre? Ecco, quello. Emma aveva messo in borsa quel cartoncino ineccepibile come il suo proprietario: l’avrebbe buttato con calma in seguito. La sua biografia pullulava di spasimanti ricchi che non avevano lasciato traccia.
Pietro non sapeva perché era andato quella mattina a sentire la conferenza più inutile del mondo. Sì, invece, lo sapeva: era andato per Emma. Senza saperlo aveva acquistato un suo quadro a una vendita di beneficenza. Comprato solo per fare del bene, perché un uomo nella sua posizione non poteva mostrarsi spilorcio. L’aveva posizionato in un angolo del corridoio che portava al suo ufficio, in modo che si notasse il meno possibile. Lui amava le cose belle e quel coso, per quanto gli fosse arrivato da un bel gesto, non apparteneva certo alla categoria. Ogni volta che ci passava davanti gli dava una sbirciata e alla fine, a furia di infinitesimali sguardi, ne era rimasto prima attratto e poi sedotto. Era come se quel dipinto astratto avesse occhi che lo guardavano. Non in numero di due, ma molti di più. Così si era informato su chi fosse l’autore. Una donna. Brava. Aveva acquistato un’altra opera in una piccola galleria in via Garibaldi (non sapeva perché, ma l’aveva fatto) e quando aveva saputo della conferenza aveva pensato di andarci. Non avrebbe mai ammesso che voleva incontrarla, ma era così.
Emma era stata bella, si vedeva. Ora era un po’ appesantita, poco curata e vestita in modo discutibile. Ma il suo sguardo era come quello del quadro astratto in anticamera. Ti tagliava a metà.
Era stata gentile con Pietro ma non gli aveva lasciato nessun recapito. Lui era troppo raffinato, lei non l’avrebbe mai cercato ed era meglio così. Cominciava l’estate: Emma quella sera cambiò borsa e il biglietto finì in fondo all’armadio.

Saltò fuori l’autunno successivo, in uno di quei giorni in cui lei si sentiva così depressa che aveva bisogno di una conferma qualsiasi, da qualsiasi parte arrivasse. Di solito in queste circostanze preferiva gli estranei, che sono meno impegnativi. Si ricordò il profumo, la camicia con le iniziali ricamate e la cravatta rosa. Pietro. Gli scrisse una mail. Perché no? Tanto lei era un artista, poteva comportarsi in modo imprevedibile. Disse se gli andava di vedersi giovedì per mangare un boccone.
Pietro non pensava mai a lei, se non nel millesimo di secondo in cui passava davanti al quadro. Più un’impressione che un pensiero, di quelle che passano prima di fissarsi nella mente. Aveva un’azienda da mandare avanti e zero tempo per una imbrattatele in disarmo. Comunque doveva mangiare e giovedì non aveva impegni. Quindi perché no?
Iniziarono a incontrarsi ogni tanto. Stesso posto, stesso giorno, stessa ora. Pietro era metodico ed Emma trovava la cosa originale. Ordinavano cose diverse e lei prendeva due bicchieri di vino. Lui no, doveva restare lucido per il pomeriggio. Lei non ci provava nemmeno, a restare lucida, tanto era inutile.
Pagava sempre lui, per una forma di cortesia antica come le sue camicie fatte a mano, come il suo odore di pulito. Parlavano del mondo, dei massimi sistemi, di politica, del destino, dei cretini che conoscevano. Soprattutto dei cretini. Ogni volta dopo pranzo lei lo riaccompagnava in ufficio e lo salutava con un bacio sulla guancia. Non aveva nessun problema a lasciarlo. Lui dal terzo pranzo in poi sì, ma non l’avrebbe mai confessato nemmeno sotto tortura.
Con gli anni avevano cominciato a ordinare gli stessi piatti e a raccontarsi questioni familiari e private. Erano entrati in una confidenza profonda e il mondo aveva preso a eclissarsi intorno a loro, quando erano insieme.
Lui non avrebbe mai fatto nulla per cambiare la situazione. Aveva una famiglia, regole da rispettare, un lavoro da svolgere e camicie stirate da indossare ogni mattina. Ogni tanto pensava un po’ troppo a Emma, soprattutto quando lei gli scriveva quelle frasi che per lei non significavano niente ma per lui sì, ma subito si costringeva a ricordare che lei era fatta così, che esagerava come tutti quelli che hanno talento. Pensare al talento di Emma gli faceva stringere lo stomaco. Era la causa di quel sentimento illogico e compresso che gli si era trasmesso attraverso quel maledetto quadro.

Un giorno Emma, dopo averlo accompagnato in ufficio, mentre tornava era passata per sbaglio sotto l’Arengario. Era distratta perché stava pensando a lui. Quando si era accorta di dove si trovava lo stupore era stato tale che si era dovuta appoggiare a un pilastro. Non era possibile, non era mai passata lì sotto. Mai, per via della sua sciocca superstizione e di varie altre psicosi, ciascuna nata in una diversa età. Da ragazza perché credeva che, se fosse passata lì sotto, non si sarebbe diplomata, poi per paura di non laurearsi, poi di non trovare marito e in seguito di non avere figli. Aveva avuto tutto, infine, ma solo perché era sempre stata molto attenta a non infilarsi sotto quell’edificio. Come poteva adesso trovarsi lì? Come poteva continuare a pensare a Pietro dopo averlo salutato? Non era mai accaduto.
Non aveva alcun senso pensare a lui e forse passare sotto l’Arengario era il modo che il suo subconscio aveva trovato per farle archiviare in fretta la questione come uno sbaglio. Quel giorno Pietro non indossava la cravatta, ma aveva la camicia aperta su una collanina girocollo di caucciù con un piccolo monile a forma di tartaruga. Emma aveva passato tutto il pranzo a fissare l’animaletto d’acciaio. Lui se n’era accorto e le aveva spiegato che quell’animale era come lui: corazzato e saldo e forse per questo lento nei cambiamenti, amante della normalità e dell’organizzazione. Non avrebbe mai fatto un gesto assurdo e di questo si dispiaceva, ma lui era fatto così. Si stava giustificando? E di che?
Era un uomo rassicurante, buono, ragionevole, corretto, attento. Virtù che normalmente non distraggono nessuno e che non avevano mai distratto nemmeno lei. Invece quel giorno si era distratta e si era trovata sotto il portico. Si era distratta e quando ti distrai – Emma ne era sempre stata convinta – o ti ammali o ti innamori. Si trovava nel secondo caso e lo comprendeva in quell’istante, in una piazza dov’era stata miriadi di volte ma in un punto dove non aveva mai messo piede. Era rimasta appoggiata al pilastro per un sacco di tempo, riflettendo sui vari aspetti di quell’unico pensiero, folgorata da qualcosa che aveva sempre sottovalutato.
Mentre si avviava verso casa avrebbe voluto chiamarlo e dirgli subito della scoperta, ma sapeva che non poteva e che non sarebbe stato giusto. Doveva tacere e sparire.
Era giugno ed erano passati cinque anni da quando si erano incontrati. Emma lasciò finire l’estate e arrivare l’inverno. Quando hai una certa età niente è più così urgente. Tenne segreta la scoperta per rispetto nei confronti di Pietro, anche se in fondo sapeva che lui provava lo stesso sentimento.
Mancavano quattro giorni a Pasqua quando lui la chiamò per invitarla a pranzo. Solito posto solito giorno solita ora. Non le chiese spiegazioni sul perché lo aveva evitato per mesi perché lo sapeva benissimo. Emma non avrebbe voluto accettare, ma Pietro le mancava davvero troppo. Eppure quando si videro si limitarono a stringersi la mano.
Quel giorno anche Pietro ordinò un bicchiere di vino bianco. Non per trovare il coraggio di dire o fare qualcosa, solo per festeggiare. Dopo pranzo, mentre come al solito lei lo accompagnava verso l’ufficio mentre discutevano di politica (argomento su cui avevano opinioni assai discordanti), Emma all’improvviso gli chiese se voleva passare con lei sotto l’Arengario.
Pietro, che era troppo razionale per credere a pseudo-leggende, poiché sapeva della sua superstizione le chiese perché. Lei gli prese la mano e lo trascinò.
Due mani che si toccano possono creare alchimie impensabili. Emma e Pietro per la prima volta dopo secoli non pensarono a niente. Si sentivano leggeri. Per la prima volta non si sentirono costretti a parlare, ma rimasero ore a guardarsi intorno seduti sui gradini, mentre scendeva il buio e il centro si riempiva di gente che camminava, entrava e usciva dai negozi, si salutava, prendeva aperitivi, si lamentava. Loro stavano in silenzio, prendendosi ogni tanto per mano, trafitti dalla gioia di essere vicini. Vicini davvero, come raramente capita tra due individui.
Pietro chiamò in ufficio raccontando una scusa. Aveva fatto fatica ma c’era riuscito perché lei gli aveva insegnato a dire le bugie. Si sarebbero dovuti far bastare quel pomeriggio per tutta la vita e forse una vita non è sufficiente per contenere ciò che può esserci in un solo pomeriggio.
Emma non passò più sotto l’Arengario per non ricordarsi di quanto amava Pietro. Lui non era superstizioso ma da quel giorno, per la stessa ragione, prese l’abitudine di girare alla larga dal monumento. Nessuno dei due parlò più di quel pomeriggio. Non si videro più.

Marzo 2019

L'autore

Clementina Coppini

Laureata in lettere classiche dai tempi di Sofocle, ho dimenticato pressoché tutto quello che sapevo e in più non ho molto da dire su me stessa. Scrivo per il Giornale di Brescia, mondointasca.org, Il Cittadino di Monza. Traduco libri per bambini per il Battello a Vapore. Ho pubblicato un paio di romanzi, anzi tre, ma non li ha letti quasi nessuno. Per me è un grande onore scrivere su El-ghibli, che mi ha dato la soddisfazione di veder pubblicati i miei racconti ma soprattutto le mie poesie. Nessuno aveva mai fatto questo per me prima. Grazie.

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