Dopo la dotta introduzione redatta dal prof. Fulvio Pezzarossa alla silloge di Hajdari è difficile aggiungere qualcosa di nuovo e tuttavia dare solo notizia dell’uscita di questo testo senza un minimo di presentazione potrebbe sembrare cosa sgradita allo stesso poeta.
La silloge è divisa in due parti, la prima più complessa, articolata, la seconda più direttamente connessa al luogo geografico in cui Gëzim Hajdari sta trascorrendo ora la sua vita.
Incominciamo ad analizzare la prima parte. L’ordito poetico sembra svolgersi attraverso tre momenti o aspetti che assumono la funzione dipanatrice del vissuto poetico dell’autore.
Dapprima è la denuncia della sua condizione di disagio che spazia nel tempo. L’oggi: “Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa”, pur nella consapevolezza del valore del suo poetare: “Scavo le radici eterne del tempo per non morire”. Ma dall’oggi si rimanda al passato, alla sua infanzia continuamente dettata da povertà, dalla sofferenza, dalla continua precarietà. Sembrerebbe che una sorta di destino si sia accompagnato nel suo percorso di vita. La sua famiglia messa in difficoltà dal regime comunista, il padre incarcerato, il suo percorso di studi alternato alla vita di pastore.
Il destino non ha infierito solo sul suo nucleo familiare, ma sembra essersi accanito anche all’intero clan associando le traversie che si sono attraversate alla stessa crocifissione. In Chiodi dell’esilio il poeta opera questa relazione che viene fissata anche in un tempo significativo: il venerdì. “La mia stirpe di rapsodi muore di venerdì./ Venerdì, gli antichi romani usavano eseguire le condanne a morte./ Di venerdì è morto anche Gesù Cristo, crocifisso al posto di un assassino.” Una lunga serie di parenti morti il venerdì e anche il poeta si sente associato a questa comune sorte: “Di venerdì morirò anch’io, / crocifisso mani e piedi con i chiodi dell’esilio/ sulle spalle il peso di tutti i venerdì mortali/ di una stirpe severa”.
La sola dimensione temporale non può essere giustificativa della sua condizione di esule, immigrato inascoltato, della sua eterna condizione di precarietà. Lo spazio, allora, diventa l’altro elemento che determina la condizione di sofferenza del poeta.
E’ lo spazio che dapprima viene identificato dal Sud e poi si ferma alla sua terra d’appartenenza, cioè l’Albania, una novella Medea, che continua a uccidere i propri figli esiliando e misconoscendo il loro valore. Così: “Il Sud è ferita, eternità, arancia matura lasciata marcire/ a terra. Il Sud scorre nelle vene, abita nel sangue, è maledizione. /…/ti fa sentire uomo, / ti fa morire lentamente./…/…Il Sud è parto di dolore,/ peccato di Dio, figlio del caos”.
La sua condizione umana non solo è legata strettamente a quella della maledizione del clan familiare o dell’appartenenza ad un ambito geografico succube di un altro più emancipato, più dignitoso (Sud versus Nord), ma è associata, come detto, al territorio d’appartenenza al territorio di nascita, l’Albania. “C’era una volta un paese oltre l’Adriatico, / si chiamava Arbëri, /…/nutrita di leggende, / baciata dalla gloria./…/ C’era una volta un paese oltre l’Adriatico, / si chiamava Arbëri, / il valore degli uomini/ non era nella ricchezza/ ma nell’onestà./…/ C’è un paese oltre l’Adriatico, / si chiama Albania,/ mai un pentimento per i crimini del comunismo./…/ C’è un paese oltre l’Adriatico, / si chiama Albania, / con poeti, scrittori, artisti,/ corrotti e fottuti/ dalla A alla Z, / Hanno venduto all’asta/ la patria e le loro madri,/”. Per contrapposizione il poeta Gëzim Hajdari afferma: “Raccolgo la frutta dimenticata sugli alberi per le strade dei quartieri/ di Frosinone, susine, nespole, ciliegie, pere e fichi./ Non mi vergogno di essere povero”, perché il suo compito è quello di scavare “le radici eterne del tempo per non morire”.
Accanto all’Albania c’è l’altro tratto geografico più ristretto ma non meno corrotto. È Tirana: “Capitale buia dei lumi, / assassina, perfida. / Davanti alla sede governativa, al palazzo presidenziale / passeggiano poeti sorridenti, felici./ …/ Capitale infame, tiranna. Vedova nera. / …/ Non nascono più uomini/ ma figli di una meretrice.”
“Ventotto anni fa è annegato dentro di me un paese conosciuto, / qualcuno deve pregare per la mia innocenza / o per la mia maledizione”. Insistendo su questo rapporto di spazio e sua condizione aggiunge in un’altra poesia: “Ci dicono di amare la patria. Ti rendi conto? / Costretti all’esilio/ pane e cipolla”. Ancora una volta Hajdari si contrappone a chi sta con il potere, lo adula e mercifica la sua poesia. “La mia poesia un paese sovrano/ costruito pietra su pietra con fatica e tormenti/ con le mani ruvide da contadino/ a mia somiglianza argilla e sangue. Solenne”. In questa composizione, fra le poche che Hajdari dice qualcosa della sua poesia, alla fine afferma: “I miei versi eretici, condannati al silenzio in patria, / non conoscono padroni, vivono alla giornata, / crescono nelle periferie dei mondi violenti, / chiodi fissi nella fronte del secolo. Non riuscirete a strapparli”.
Non sfugge anche l’Italia in questa relazione spazio-poeta. “In Italia ho sempre vissuto/ nei quartieri popolari e malfamati,/ sporcizia, immondizia e squallore. /…/Sopra la mia stanza/ alla finestra di fronte/ urla, suicidi, gemiti d’amore/ dolori terribili della verginità./”.
L’ultima evoluzione che dall’io dell’oggi, passa a quello della storia, della memoria, per poi sfociare nello spazio che quest’io ha vissuto, è quella della condivisione sociale della precarietà di chi come lui ha cercato nell’amore della poesia la verità a costo di ogni cosa, dell’esilio, della povertà, della morte. È quanto emerge dal breve poemetto intitolato Elegia per i miei amici poeti esuli. “I miei amici poeti se ne andarono giovani, / morirono in povertà, / solitudine / e disperazione”. Sono tanti da Luigi Pacioni, ad Heleno Oliveira, a Thea Laitef ed ancora a Egidio Molinas Leiva, Hassan Atiya Al Nassar, Hakim Mohammed Akalay, Ali Mumin Ahad. “Io sono ancora vivo, resisto sulle colline della Ciociaria”.
La prima parte si chiude con una poesia che segna alcune tappe della sua vita di poeta in Italia e il cui ultimo verso prelude alla seconda parte: “2 agosto ho abbandonato l’Italia, dopo ventisei anni, per un altro esilio nella terra dei barbari”.
È questa costituita da 8 poesie variamente rimate ove si descrive il nuovo territorio, quello inglese. Il poeta pur avvertendone la dimensione storica, sociale, non lo sente ancora proprio. “Sento il Mediterraneo scorrere nelle vene / come alcool. Mistero della ferita./ Io ricordo”. E d’altra parte, pur stemperato nel tempo il poeta, non trovando reale ospitalità da nessuna parte e sentendo marcata la condizione di esule sulla propria pelle, aveva finito già per assumere come sua patria il proprio corpo, anche perché “sassi gettati contro vento” finivano per ricadere su di lui.