Narrativa transnazionale

Due amiche

I testi segnati con asterisco sono inediti

*Due amiche

Mio padre… è della famiglia dell’aratro
e non di una stirpe di signori
e mio nonno, un contadino
senza alberi genelogici!
Mi ha insegnato il moto degli astri
prima di leggere i libri

Mahmud Darwish, La carta d’identità

 

Almaz era una donna alta, robusta e con un viso terso, nonostante avesse da tempo varcato la soglia degli ottant’anni. Ultima discendente di una stripe di sacerdotesse, era nata all’inizio degli anni ‘20 in un villaggio nel nord dell’Etiopia e cresciuta dalla madre e dalla nonna, rispettate guide spirituali della comunità. Ispirata dalla saggezza delle due donne, Almaz si sentiva fortunata e ringraziava ogni giorno di poter godere dei loro insegnamenti.

Il flusso sereno della sua esistenza subì una brusca interruzione il giorno in cui, alla fine degli anni ’30, si presentarono al villaggio individui dall’aspetto curioso e dal temperamento insolito, venuti da una terra lontana della quale Almaz ricordava a malapena il nome. Gli intrusi si facevano chiamare “italiani” e la nonna e la madre le avevano raccontato storie agghiaccianti sulle atrocità compiute alcuni decenni prima da questi uomini nelle regioni confinanti.

Erano ritornati e, proprio come allora, si rivelarono presto degli assassini. Nel giro di pochi giorni compirono una carneficina: tutti gli adulti del villaggio, inculse la madre e la nonna di Almaz, furono ammazzati a sangue freddo e solo i più giovani furono risparmiati per essere utilizzati in lavori forzati o, nel caso delle ragazze, come schiave obbligate a prostituirsi.

Almaz scampò miracolosamente a quell’infame destino per la sola ragione che nei giorni immediatamente precedenti al massacro era stata mandata dalla nonna e dalla madre a far visita agli zii in una regione a un centinaio di chilometri di distanza dal loro villaggio. Non si saprà mai se le due donne visionarie avessero previsto in maniera lungirimrante l’arrivo dei sicari e per tale motivo avessero voluto mettere in salvo Almaz, o se il suo allontanamento sia stato solo una fortuita coincidenza. Quello che si sa con certezza è che quel giorno la vita di Almaz prese una piega inattesa e definitiva: non avrebbe mai più rivisto sua madre, sua nonna, il suo villaggio e la gente con cui era cresciuta.

Viaggiatrice per cultura, vocazione e perché costretta dalle circostanze, Almaz passò i successivi due anni in Kenya, presso una comunità di missionari. Questi da un lato le offrirono un ambiente sicuro in cui vivere; dall’altro la obbligarono a rinnegare tutto ciò che aveva appreso dalla nonna e dalla madre, imponendole di riassestare la sua spiritualità e di ricalibrarla secondo i sacri ed indiscutibili precetti del cristianesimo. Do ut des recita il detto latino: io ti offro un letto e un piatto di fagioli, in cambio mi prendo il tuo lavoro quotidiano, la tua storia e la tua anima. Questa era l’essenza di uno scambio equo, secondo la logica dei missionari. Prendere o lasciare. Almaz, valutata con attenzione la fragilità della sua situazione, decise di prendere. E si gettò a capofitto in questa tanto inattesa e indesiderata quanto ineludibile avventura.

Nel periodo in cui visse con i missionari, seguì alla lettera i dettami dei suoi educatori e diventò una cristiana modello. Lavoratice infaticabile, svolgeva con diligenza i compiti che le venivano assegnati dalle suore durante il giorno. Oltre che per la sua serietà e abnegazione, la giovane educanda si distinse per le fenomenali doti di apprendimento. Studentessa dotata di un’ intelligenza e di una memoria fuori dal comune, aveva imparato a memoria tutta la Bibbia, l’unico testo che era permesso leggere agli ospiti della missione.

Almaz pareva aver trovato una certa serenità in questa vita confortante, che la vedeva costantemente impegnata tra lavoro, studio e preghiera; ciononostante, questa situazione dopo alcuni anni cominciò a stare stretta alla giovane etiope, che aveva nel suo dna la passione per l’erranza. Adducendo l’inattaccabile ragione di voler viaggiare per poter fare proseliti, Almaz abbandonò la missione, baciata dalla benedizione dell’anziano cappellano, delle suore e di tutti gli altri membri della comunità.

Gli anni spesi al capezzale dei missionari e gli insegnamenti impartiti dalla madre e dalla nonna prima del suo incontro con Gesù, avevano insegnato ad Almaz a mantenere in ogni occasione un decoro estremo, quasi cerimonioso, e a mostrare un rigore inflessibile nei comportamenti pubblici. Posata e riservata per carattere, non aveva fatto fatica a far propri questi principi, e in tutte le terre nelle quali visse negli anni a seguire (Sudan, Senegal, Mali, Marocco, Corsica, Svizzera e Italia) venne sempre ammirata e rispettata per la sua proverbiale aplomb, per il suoi costumi morigerati e integerrimi e per il suo linguaggio sempre misurato. Fu in Svizzera, che Almaz conobbe suo marito, che un beffardo caso del destino volle fosse italiano. Egidio era un muratore originario di Ovaro, un paesino della Carnia, una poverissima regione montuosa di quel lembo d’Italia chiamato Friuli. Come tanti suoi conterranei in lotta contro fame e povertà, Egidio era partito alla volta della Svizzera negli anni Cinquanta, e in quella terra aveva trovato un lavoro e l’amore di Almaz. I due convolarono a nozze nel 1952 e la cerimonia fu celebrata nella chiesetta del loro quartiere di Zurigo. Ogni anno trascorrevano la stagione estiva a Ovaro, che in quel periodo risplende rigoglioso. Erano quelli i mesi più attesi ed emozionanti del calendario, nei quali i due coniugi si dedicavano alle loro attività preferite: Egidio riposava sotto il castagno all’ingresso della vigna, faceva lunghe passeggiate nei boschi ma, da buon friulano, non perdeva occasione per lavorare. Lavorava nella casa che era stata dei suoi genitori e prima ancora dei suoi nonni e che ora era la dimora sua e della moglie. Ogni estate ristrutturava una stanza oppure aggiungeva un nuovo spazio all’edificio. Anno dopo anno, la cascina ad un piano con la latrina nel cortile si era trasformata in una solida villetta su due piani, con uno spazioso terrazzo con vista sul fiume, un garage e ben due bagni interni.

Almaz condivideva con Egidio la passione per le lunghe camminate negli incantevoli boschi alpini che abbracciano il paese, ma al contrario del marito, nei giorni di quiete delle ferie preferiva evitare i lavori pesanti. Il lavoro alla fabbrica di dolci di Zurigo la stremava per dieci mesi all’anno e visto che quello era l’unico periodo nel quale poteva concedersi un po’ di meritato relax, se lo voleva godere fino in fondo. Adorava cucinare e lavorare nell’orto, ma il suo passatempo preferito era la lettura. Le piaceva sedersi sulla panchina all’ombra della grande quercia che sorgeva nella piazza antistante la chiesetta del paese e leggere i suoi libri preferiti. Vorace lettrice, ne possedeva diversi, tutti stipati in una libreria nel salottino di casa: le poesie di Rilke, l’antologia di Spoon River, Il Gattopardo, Don Chisciotte, Canne al vento e molti altri. Li aveva letti tutti, più e più volte. Ma un autore era penetrato nel suo cuore e vi aveva trovato rifugio permanente: Henry Miller.

In particolare, un’opera di Miller aveva fatto breccia nella sua anima: il romanzo Opus Pistorum, nella sua edizione francese. Almaz ne aveva acquistata una copia nella bottega di libri di seconda mano che frequentava quando viveva a Calvi, antico porto corso di mercenari. Da allora quel truculento memoriale di incontri sessuali sotto i tetti di Parigi era diventato il suo romanzo preferito. Come aveva fatto con la Bibbia molti anni prima, Almaz lo aveva imparato quasi tutto a memoria, ed era capace di citare brani interi con la disnvoltura di un attore consumato. Questa sua abilità, tuttavia, non era vista di buon occhio da Egidio il quale, forte della rigida morale religiosa con la quale era stato cresciuto, non gradiva affatto che la moglie se ne andasse in giro a decantare le acrobatiche imprese sessuali di Miller e compagni nelle decadenti notti della capitale francese.

“Ma questo è un grande romanzo” ribatteva Almaz alle critiche del marito, “e ciò che è scritto bene non può essere volgare”.

Egidio, uomo di poche parole, non era solito replicare ai commenti di Almaz e quando la vedeva veleggiare per la stanza recitando passi di quel testo sconcio, si spostava un po’ imbronciato in un’altra zona della casa e si teneva occupato con qualche lavoro di ristrutturazione.

Fu in un assolato pomeriggio del luglio 1952, la prima estate spesa a Ovaro, che Almaz fece la conoscenza di Mamma Maria, una ragazza del paese che non aveva figli e non si chiamava nemmeno Maria, bensì Federica. Le due donne si piacquero a prima vista.

Federica era nata durante la prima guerra mondiale. Suo padre, spedito giovanissimo al fronte, era deceduto in battaglia. La madre, profondamente innamorata del marito, morì di crepacuore pochi mesi dopo aver appreso la notizia, lasciando la bimba orfana. Federica fu cresciuta dallo zio Tarcisio, fratello della madre e unico parente rimasto in vita dopo che la falce della guerrra si era scagliata impietosa sulla loro famiglia. Coltivatore di canapa, uomo di fatica e ateo, anzi pagano (come gli piaceva definirsi), zio Tarcisio era un uomo tutto d’un pezzo, cresciuto alla vecchia scuola del sudore: un lavoratore solitamente tacitruno ma, ciononostante, in possesso di un vocabolario piuttosto colorito.

Zio Tarcisio passava le giornate al lavoro, e non potendo permettersi di lasciare la nipote a casa, la portava con sé nei campi. I loro sporadici colloqui erano sempre fonte di gran ilarità per Federica (o “Ica” come lui la chiamava affettuosamente). Sebbene non fosse un compagno di fatiche tra i più loquaci, zio Tarcisio sapeva sempre come generare il buon umore e far nascere un sorriso sul volto della nipote. Le sue rare esternazioni verbali erano regolarmente punteggiate di improperi, sempre differenti e di varia natura, nei confronti di quell’ingrato creatore che gli aveva regalato una vita con molte spine e poche rose. “Vedi Ica, andare a messa è tempo buttato nel cesso. Quei pupazzi che la domenica si schiacciano come sardine in chiesa per farsi abbindolare dalle balle del prete non hanno capito niente e si lasciano prendere per i fondelli senza nemmeno accorgeresene. Eppure, anche loro lavorano la terra… Se solo riflettessero con la loro zucca quadrata, e non con quella ancora più quadrata del prete, capirebbero subito che quel Dio misterioso che cercano e al quale regalano denaro a ogni piè sospinto, non lo troveranno mai. Non lo troveranno mai perché si nasconde nell’ultimo luogo dove penserebbero di andare a cercarlo: davanti ai loro occhi”.

E così dicendo zio Tarcisio indicava a Ica il sole.

Zio Tarcisio, sebbene pagano fondamentalista, possedeva una copia della Bibbia. Non solo: era l’unico libro che fosse mai entrato in casa sua. Aveva invitato Ica a leggerlo, a patto che non si dimenticasse mai della sua ferrea raccomandazione. Quando la formulava, zio Tarcisio, solitamente sboccato, acquisiva d’improvviso un tono aulico e solenne:

“Ica, quando apri questo libro” ammoniva serio, accarezzando il testo sacro, “non dimenticarti mai che queste storie non parlano di persone vere, ma delle stelle, dei pianeti, del sole e della luna. Chi lo ha scritto ha dato al cielo e ai suoi abitanti dei nomi di persona perché sapeva che così avrebbe potuto ingannare più facilmente i suoi lettori”.

Questo, ricordava sempre zio Tarcisio, era un segreto che gli era stato tramandato da sua nonna Santina (che la leggenda narra fosse una strega), che a sua volta lo aveva appreso da sua nonna Maria, che a sua volta l’aveva appreso da sua nonna Clelia. Quando veniva interrogato al riguardo, zio Tarcisio rispondeva che questa era un’antica tradizione di famiglia, le cui radici sprofondavano nelle acque torbide e increspate del passato.

Federica non era sicura di comprendere fino in fondo il senso delle parole dello zio, ma per non deluderlo annuiva, e ogni volta che leggeva la Bibbia si riproponeva di obbedire al suo accorato consiglio.

Inoltre, si divertiva come una matta ad ascoltare i brevi ma infuocati monologhi sacrileghi e le storie che lo zio le raccontava quando, durante la pausa per il pranzo, si sedevano sotto un albero a mangiare pane e formaggio e a passarsi il fiasco di vino rosso che lui portava sempre a tracolla. Con un tale oratore a farle da maestro, Federica crebbe sviluppando un vocabolario alquanto variopinto, e conservò con tenacia il segno distintivo di colui che l’aveva cresciuta anche dopo la sua morte (avvenuta nell’osteria del paese dopo una notte in cui aveva alzato il gomito un po’ più del solito. “A presto”, aveva esclamato l’oste Titta, dopo essersi accorto del trapasso dell’amico sul bancone che era stato teatro d’innumerevoli siparietti).

Come detto, zio Tarcisio era un coltivatore di canapa. Agli inizi del secolo, infatti, pur tra enormi difficoltà, la fragile economia della regione si reggeva sull’allevamento di animali da pascolo, su piccole attività artigianali (tra le quali spiccava la lavorazione della lana) e sulla coltivazione della canapa. Formatasi fisicamente e spiritualmente tra le dure zolle dei campi di zio Tarcisio e da lui educata all’arte della coltivazione di questa pianta, Federica aveva appreso tutti i segreti che un buon coltivatore deve conoscere per poter svolgere con professionalità il proprio lavoro. Negli anni aveva sviluppato un amore viscerale per il suo mestiere. Questa passione, unita ad un innato spirito creativo e ad un’etica del lavoro certosina, aveva reso Federica la più famosa e abile coltivatrice di canapa della vallata. Ciò accadeva a dispetto del fatto che questa pianta era stata ad un certo punto resa illegale. Nonostante la sua improvvisa criminalizzazione, messa in atto da un manipolo di legislatori ignoranti e corrotti, Federica continuò a coltivare canapa con il virtuosismo che l’aveva sempre contraddistinta. Ogni volta che rifletteva su questa infausta vicenda, non poteva fare a meno di sorridere sarcasticamente e pronunciare tra sé e sé un commento caustico e velato della verve polemica che aveva ereditato dallo zio: “Canaglie al soldo di criminali… Che teste di cazzo questi politici! … Che venduti! … Che vadano a farsi fottere!”

Gli insegnamenti di zio Tarcisio erano stati fondamentali per la crescita di Federica, sia come donna che come coltivatrice. Anche dopo la sua morte aveva continuato a guardare al mondo con occhi da contadina, ovvero con uno sguardo allo stesso tempo distante e critico, disincantato e acuto. Inoltre, non aveva mai mancato un raccolto. Questo avveniva perché, grazie ai preziosissimi precetti dello zio, aveva imparato a mantenere sempre un contatto fisico, carnale con la natura, che le aveva permesso di conoscere alla perfezione la composizione dei terreni, i cicli lunari, i tempi e le stagioni giuste per la semina, l’irrigazione, il raccolto, la conservazione.

Oltre all’arte del coltivar canapa, aveva appreso dallo zio anche quella della vendita. Pur ignorando l’esistenza di concetti come mercato, libero scambio, capitalismo e altre simili farneticazioni, Federica aveva imparato dal suo mentore una lezione fondamentale, e a distanza di decenni ricordava ancora il suo saggio ammonimento: “Se vuoi che le persone apprezzino te e il tuo lavoro devi essere in grado di offrire loro qualcosa di speciale, di unico”.

Forte di questo prezioso consiglio, era riuscita negli anni a crescere piante sempre più raffinate e resistenti e in quantità sempre più abbondanti, e la sua canapa si era affermata come la migliore della zona. A conferma della teoria di zio Tracisio, questa era stata ragione sufficiente per attrarre verso casa sua acquirenti da tutta la vallata. Nel corso delle generazioni erano cambiati i volti e le professioni dei suoi clienti, ma la sua canapa era rimasta sempre la migliore. Dalle massaie ai contadini dei primi anni, ai poliziotti e agli studenti dei tempi più recenti, tutti conoscevano Federica, la quale era stata da tempo soprannominata dai suoi compaesani “Mamma Maria”, in onore alla sua devozione alla sacra pianta.

Mamma Maria aveva sviluppato una sapienza sciamanica sui poteri curativi della canapa e di moltre altre piante che crescevano nella vallata. Questa sua conoscenza le permetteva di operare spesso in qualità di erborista e guaritrice verso coloro i quali si rivolgevano a lei in casi di malessere. Il medico del paese, il Dott. Rinaldi, non la considerava una rivale o una potenziale concorrente. Al contrario, indaffarato com’era, si rallegrava tacitamente se qualche suo paziente ogni tanto deviava il suo cammino verso casa di Mamma Maria, evitando così di andare a ingrossare le già nutrite fila di malati, reali o immaginari, che ogni giorno si affollavano nella sala d’attesa del suo ambulatorio. Per tale ragione, nutriva anch’egli un profondo rispetto e un senso d’inconscia gratitudine nei confronti della compaesana.

Mamma Maria godeva di una posizione privilegiata all’interno della comunità, che aveva acquisito con fatica e direttamente sul campo, grazie a doti innate come la simpatia, la spontaneità, l’umiltà e l’integrità morale, coltivate nell’arco di tutta la vita. Ciò faceva di lei una sorta di monumento sacro del paese: in qualità di curatrice, nonché di massima esperta nella millenaria arte locale del coltivar canapa, Mamma Maria godeva dell’amore e del sostegno incondizionato di tutti i suoi concittadini. Vero e proprio patrimonio umano da venerare e proteggere, era ben voluta da tutti. Il suo era uno di quei rari casi in cui le forze dell’ordine, pur avendo la legge dalla loro parte, sanno che non potranno mai, per alcuna ragione al mondo, applicarla, pena la definitiva perdita di rispetto da parte della comunità in cui vivono e lavorano. Dunque, Mamma Maria si trovava elevata alla condizione di cittadina al di sopra e al di là delle leggi. Data la situazione, aveva buon gioco come coltivatrice e, sfruttando appieno questo vantaggio, aveva continuato a crescere canapa, perfezionando di raccolto in raccolto la tecnica e ottimizzando di anno in anno i risultati. “Che schifosi, ‘sti politici!”, esclamava quando si trovava a meditare sui provvedimenti che avevano reso illegale la coltivazione della pianta, per millenni ritenuta sacra da tutti i popoli del mondo. “Rendere illegale una pianta, ma come si fa, dico io!… È come dire che la natura ha sbagliato! Che idioti presuntuosi, ‘sti politici!”. Detto ciò, era solita scuotere il capo e dedicarsi ad altre faccende.

Federica non si era mai allontanata dal suo paesino. Le trasferte più lunghe erano quelle nei villaggi adiacenti ad Ovaro in occasione di fiere, mercati o feste popolari. La valle dove era nata e cresciuta e le montagne che la circondano erano l’unico orizzonte e l’unico paesaggio sui quali i suoi occhi si erano posati. Pur non essendo una viaggiatrice, a differenza della sua grande amica Almaz, Federica aveva appreso che si possono visitare luoghi e tempi distanti, anche quando il proprio corpo rimane immobile. Grazie ad un uso cerimoniale della pianta che tanto amava, aveva appreso che viaggiare può essere un’esperienza spirituale, oltre che fisica. La canapa le aveva infatti insegnato che la fantasia abitava dentro di lei e che bastavano dei semplici accorgimenti per stimolarla.

Nelle rare pause che il suo lavoro le concedeva, era solita sedersi sulla veranda di casa, sorseggiare un decotto alla canapa, accendersi uno spinello e leggere la Bibbia che zio Tarcisio le aveva lasciato in eredità. In quei momenti di ristoro andava in estasi, e assaporava le dolci evasioni dello spirito che si smarriva in territori inesplorati. In aggiunta, adorava la Bibbia, le sue storie, i suoi intrighi, le sue passioni, i responsi emotivi che certi passaggi narrativi altamente poetici suscitavano nel suo cuore. Memore del consiglio dello zio di interpretare sempre ciò che leggeva in senso astronomico, si perdeva tra le pagine di quel libro, che riteneva una porta aperta sul cosmo, uno strumento capace di condurre la sua immaginazione attraverso viaggi astrali. Le sue pagine preferite erano quelle dei Salmi. La appassionavano perché in essi, in maniera più seducente che altrove, veniva metaforicamente messo in scena l’eterno duello tra il male e il bene, tra le tenebre e la luce, tra la paura e l’amore… I tardi pomeriggi passati a leggere e meditare sulla veranda erano un rito sacro. Ciononostante, nei periodi che Almaz spendeva al paese, Federica rompeva di buon grado questa prassi quotidiana, per andare a incontrare l’amica sotto la quercia situata nel piazzale della chiesa. Questi loro incontri, all’inizio sporadici e casuali, si erano trasformati negli anni in un’abitudine, un’occasione irrinunciabile per incontrarsi, scambiare quattro chiacchiere e mantenere viva la propria passione per la lettura. Quando il vento fresco dell’imbrunire iniziava a soffiare sulla valle, le due amiche si ritrovavano sulla panchina situata sotto alla grande quercia. Arrivavano entrambe con un libro in mano: la prima con Opus Pistorius o qualche altro titolo della sua collezione, la seconda con la Bibbia. Federica era regolarmente munita anche di un paio di spinelli e di un fiasco di decotto alla canapa (edulcorato con il miele prodotto dalle api di Toni, suo vicino di casa nonché – si raccontava in paese – suo amante occasionale). Almaz non fumava, ma apprezzava enormemente il gusto soave e delicato che il decotto le lasciava in gola e sul palato. Tra il serio e il faceto, le due amiche passavano ore scambiandosi storie e battute, ma anche calandosi in momenti più introspettivi, nei quali ciascuna si immergeva nella lettura del proprio testo. Tra un aneddoto e l’altro, non dimenticavano però di passarsi il fiasco di decotto, che veniva regolarmente scolato fino all’ultima goccia.

Le due donne si erano conosciute in giovane età e si erano piaciute subito. A dispetto delle divergenze nell’uso del linguaggio e nella condotta generale di vita, e sebbene per oltre quarant’anni si fossero viste solamente per un paio di mesi all’anno (e anche in quel breve periodo, solo per poche ore al giorno) tra di esse si era creato un legame affettivo profondo e duraturo. A conferma di ciò stava il fatto che nei mesi in cui Almaz ed Egidio ritornavano a Zurigo, le due amiche si tenevano in contatto per via epistolare. Le missive di Almaz solevano essere romantiche e dettagliate descrizioni della sua vita di coppia e delle serate di divertimento passate con il marito al cinema o al teatro. Quelle di Federica erano resoconti brevi, ma intensi ed espliciti, di peripezie erotiche con i compaesani. Avventure che, scrisse una volta all’amica, meglio di qualsiasi fuoco ardente, erano in grado di riscaldare il suo corpo nel gelido inverno carnico. Le due amiche si crogiolavano nella lettura di queste lettere, che per entrambe avveniva davanti ad un caminetto acceso e in compagnia di una bottiglia di vino rosso. Rivedersi e riabbracciarsi ogni estate, dopo dieci mesi di lontananza l’una dall’altra, e passare nuovamente delle ore assieme all’ombra della grande quercia era motivo di grande felicità.

La notizia, pubblicata nella primavera del 1996 su un giornale locale, che la panchina dove erano solite incontrarsi sarebbe stata rasa al suolo e la quercia abbattuta, fu per entrambe uno choc. La decisione era stata ufficializzata in una seduta del consiglio comunale presieduta dal neosindaco leghista Oreste Bozzolini il quale, su ordine della segreteria nazionale del partito, voleva erigere su quel terreno una statua in marmo bianco di Bergimus, dio celtico delle alture e delle montagne. Il prete, don Domenico, era stato rapidamente convinto a concedere l’utilizzo del terreno (di proprietà della diocesi), grazie a una busta regalo consegnatagli di persona dal sindaco qualche giorno prima della suddetta seduta consiliare. Nell’aprire la busta, don Domenico aveva realizzato che conteneva una ragguardevole somma di denaro in contante. Sebbene la costruzione della statua della divinità celtica voluta dal sindaco avrebbe determinato un evidente cortocircuito simbolico e teologico in seno al sagrato, la vista di banconote di grosso taglio era stato motivo sufficiente per concedere via libera ai lavori. Nonostante la rapida capitolazione del parroco, la notizia che la quercia secolare sarebbe stata abbattuta per far spazio ad una statua dal gusto opinabile aveva spaccato in due la comunità di Ovaro: da un lato vi erano i sostenitori in camicia verde del sindaco Bozzolini, che consideravano quell’atto un omaggio dovuto alle loro radici celtiche e longobarde; dall’altro, una frangia numericamente sparuta, ma rumorosa, di ambientalisti e militanti anti-leghisti che denunciavano la barbarie di tale atto, ritenuto un volgare sopruso. Nel giro di alcune settimane, i toni dello scontro si fecero così aspri che la notizia approdò sui giornali e sulle televisioni. Il “caso Bergimus” fece accorrere sul luogo numerosi reporter provenienti dalle sedi delle redazioni di tutta Italia. Venuti a conoscenza della presenza delle telecamere, molti rappresentanti di partiti, associazioni, movimenti e sindacati che fino al giorno prima non avevano la più pallida idea dell’esistenza non solo della quercia gigante, ma dello stesso Ovaro, erano accorsi sul luogo per rendere pubbliche le loro sentite rimostranze nei confronti dell’“atto incivile” della giunta Bozzolini. Tre attivisti di un’organizzazione ambientalista triestina si erano persino incatenati alla quercia, ed erano scesi in sciopero della fame e della sete. Lo sciopero fu revocato all’unanimità ventiquattro ore più tardi, dopo che uno dei tre militanti aveva perso i sensi. Sciolte le catene, i due sopravvissuti avevano trasportato il moribondo al pronto soccorso e, dopo essere stati rassicurati del medico di guardia che non era in pericolo di vita, lo avevano parcheggiato in una lettiga e se l’erano svignata. Temendo una sorte simile a quella del compagno, i due si erano tempestivamente fiondati alla rinomata trattoria “da Alceo”, dove avevano fatto man bassa di specialità locali: polenta coi funghi, spezzatino di cinghiale, gubana, merlot e grappe.

La vicenda della quercia e della statua del dio celtico divenne di settimana in settimana più spinosa e tenne col fiato sospeso milioni di lettori e telespettatori.

Una sera, sul finire dell’estate, sulla collina sulla quale si ergeva la chiesa, si stagliava il profilo di due donne, due amiche, che si allontanavano dalla piazza tenendosi a braccetto. Sullo sfondo si intravedeva una selva di individui indaffarati che si sbracciavano, urlavano, si scannavano in una bolgia di telecamere, insulti, slogan e minacce reciproche.

Dirigendosi verso casa di Federica, Almaz sussurrò al cielo queste parole: “Signore, ti prego perdona Bozzolini, perché non sa quello che fa”. Invocazione alla quale l’amica replicò: “Quel Bozzolini è un povero coglione. E il prete pure”.

Giunte a destinazione, le due donne si sedettero al tavolino di vimini posto al centro della veranda e aprirono i loro due libri preferiti. Dopo un paio di minuti Almaz interruppe la lettura e cominciò a fissare il crepuscolo con occhi velati di tristezza. Non volle dividere con la sua amica le ragioni di quella sua improvvisa malinconia. Forse pensava all’Etiopia, a sua madre, a sua nonna, alla sua gente, al suo villaggio… O forse alla grande quercia e alla sua probabile, imminente, triste sorte.

Lei che non aveva mai fumato in vita sua, chiese all’amica uno spinello. Questa ne estrasse uno dalla tasca del grembiule, lo accese, tirò un paio di profonde boccate e glielo passò.

Vedendo l’amica immersa in profonde meditazioni, le disse: “Vado a preparare il decotto”. Si alzò e scomparve dietro le tende in fibra di canapa da lei dipinte a mano, che abbellivano l’ingresso di casa.

L'autore

Raphael D’Abdon

Raphael d’Abdon è nato a Udine e vive a Pretoria (Sudafrica) dal 2008. È uno scrittore, traduttore e studioso di letteratura africana, e ha pubblicato articoli, saggi, racconti e poesie in antologie, raccolte, riviste e volumi. La sua ultima pubblicazione è la raccolta di poesie salt water (Poetree Publishing, Johannesburg, 2016).

Lascia un commento