Interviste Supplementi

Intervista 1. Acava MMaka, 2004

INTERVISTA A CURA DI VALENTINA ACAVA MMAKA, PER “ALICE.IT”, MARZO 2004:

Il convegno di Ferrara è al suo terzo appuntamento, qual’è la valenza e il significato di un evento che metta a confronto diverse esperienze letterarie migranti?

Il Convegno di Ferrara, così come quello della Sagarana ad ogni mese di luglio, è un’opportunità per fare il punto della situazione della cosiddetta “letteratura migrante” in Italia, che non è altro che un’etichetta molto generica all’interno della quale sono inclusi scrittori diversissimi tra di loro. Essi hanno in comune solo il fatto di aver scelto la lingua italiana, una lingua a loro straniera, come idioma di espressione letteraria. Si tratta di un universo altrettanto variegato dello stesso universo letterario internazionale, una sorta di “miniatura” della letteratura mondiale prodotta in lingua italiana. Il fenomeno è senz’altro originalissimo, una fioritura quasi miracolosa, apparsa dove meno ci si poteva aspettare: un paese che ancora fa fatica a trovare una sua unità linguistica, con una scarsa storia coloniale e un modesto richiamo come rifugio – paragonato ad esempio alla Francia o all’Inghilterra – per gli intellettuali stranieri. Eppure, proprio all’Italia è capitato di fare posare questo stormo di talenti dispersi, ognuno un ottimo scrittore sottratto alla sua cultura d’origine, a volte a suo danno. E tutto questo nell’arco di un unico decennio. Chissà perché è successo in questo modo. Sono forse i misteri dell’inconscio collettivo, che questi convegni provano di interpretare, probabilmente invano. E chissà perché proprio l’Italia è stata scelta come il primo serio laboratorio della futura (o presente) letteratura mondiale, quella destinata a rimpiazzare nel nuovo secolo le così dette “letterature post-coloniali”.

Come si può parlare di Letteratura della Migrazione senza ghettizzarla o marginalizzarla?

Non credo veramente nel rischio di una “ghettizzazione” nel lungo periodo. Queste etichette generiche, del tipo “scrittori migranti”, servono solo all’inizio per identificare i soggetti di un fenomeno nuovo e sconosciuto, sono una sorta di contenitore a uso dei media e di una certa editoria periferica. Ma questi autori possiedono valori, origini, stili, generazioni, ideologie, tematiche e disegni così diversi che nessuna etichetta potrà mai contenerli per molto. Il pubblico stesso, con l’eccezione magari di quello coatto, formato da studenti delle medie, non ha mai consentito a queste etichette. Nelle sue valutazioni, così come la stragrande maggioranza dei critici, non le adopera quasi mai. Le recensioni sui miei libri, per esempio, raramente prendono in considerazione questa dimensione “migrante”, ma piuttosto analizzano l’opera per quello che propone, per il suo impatto, la sua novità, il suo linguaggio, la sua idea dell’Italia odierna e dell’atmosfera che incombe su questo funesto momento storico. E potrei dire lo stesso riguardo agli altri scrittori. Quindi, è già abbastanza evidente che questo contenitore concettuale fragile e artificiale, “scrittori migranti”, ha i giorni contati, ed è molto vicino a un’esplosione liberatoria, che alla fine permetterà che ognuno abbia giustamente una sua identità e ci faccia conoscere con autonomia la sua visione di mondo, conquistando l’affetto dei suoi lettori e il rispetto dei suoi pari. Ma non è proprio questo che fanno gli scrittori da quando esiste la letteratura, da Omero ai giorni nostri?

Come scrittore migrante ti senti marginalizzato? In che modo viene letta e “vissuta” la tua opera?

A questo punto ci terrei a non essere più citato come un “scrittore migrante”, anche se organizzo un seminario che ancora fa uso di questa definizione. Cominciamo a rifiutare il “ghetto”, o la “nicchia”, non permettendo che nessuna etichetta si “appiccichi” alla nostra identità. Direi che sono scrittore e basta. Anzi, sono una coscienza che sfocia nella scrittura, e che l’avrebbe fatto anche se “scrittore” non fosse stato. Migrare invece è una condizione umana sempre più generalizzata, un esodo universale, il marchio di quest’epoca, e magari insieme alle sue cause sociologiche si potrebbe associare uno strano miscuglio di cause esistenziali. E anche chi sta fermo “migra” a ritroso, in contromano alla Storia. Migrano tutti, chi scrive e chi non scrive né scriverà mai. Migrare è un nuovo imperativo universale. Per quello che riguarda la condizione di “marginale”, penso che la scelta o la fatalità di fare lo “scrittore” è già di per sé un progetto di marginalità, la stessa che sarà in grado di offrire il distacco critico senza il quale un’opera letteraria si ridurrà a un misero insieme di preconcetti, banalità e luoghi comuni. Lo scrittore non deve, e non può in nessun modo, essere un “integrato” nella società, condividere in modo acritico il consenso dominante al suo interno. Lo scrittore deve sfruttare la marginalità come una risorsa, uno strumento utile per il suo lavoro. E forse per questo il fatto di aver deciso di vivere in un paese diverso da quello dov’era nato può essere per lui un vantaggio aggiuntivo: in questo modo si accresce e si rileva la sua precedente marginalità. Per uno scrittore, insomma, è molto meglio fare l’extracomunitario che il comunitario. Probabilmente meglio ancora sarebbe diventare un extraterrestre, ma questo è già un tantino più difficile.

È riduttivo parlare di una unica identità della letteratura migrante?

Penso di aver già risposto a questa domanda. Comunque potrei aggiungere che questa letteratura presenta un’inedita ampiezza ed è in grado non solo di rispecchiare i modi di esistere più variegati ma anche di seguire i loro cambiamenti lungo il tempo, le crisi che scaturiscono da crisi precedenti, di realizzare insomma, a partire dall’Italia, un ritratto fedele del processo mondiale della globalizzazione e delle resistenze ad essa, di raccontare la dialettica della Storia di domani.

Che cosa valorizza la letteratura migrante?

Innanzitutto la sua profonda umanità, il fatto che questa è nata da una lacerazione drammatica, l’emigrazione, l’esilio, che sono, insieme alla morte, le uniche esperienze umane in cui uno deve congedarsi definitivamente da se stesso per non esistere mai più dov’è sempre esistito. E i personaggi presentati da autori con tali “fratture” tendono ad avvicinarsi molto all’essenza dell’uomo contemporaneo, alle “fratture” generali, alle contraddizioni insanabili di tutti, del tessuto fibroso che si forma solo per rompersi nuovamente, dentro una ferita che non può rimarginare e che nessuno può nascondere: lo sfregio della condizione umana in balia di circostanze disumane, che si aggravano sempre, ovunque si guardi.

Come viene percepito (editorialmente parlando) il lavoro degli autori migranti?

Per ora non viene percepito, almeno non da quelle case editrici che sarebbero in grado di pubblicizzare e distribuire efficacemente questi libri. Ma si tratta di un tale prezioso, promettente e inesauribile filone che fra poco, vedrai, le più grandi case editrici disputaranno a ferro e fuoco questi autori. Spero solo che allora gli scrittori si comportino da veri professionisti e non si lascino abbindolare in cambio di specchietti, ossia che nei loro contratti ci sia una clausola di pagamento di un anticipo che permetta  loro di campare dalla propria letteratura, almeno ai più bravi. È sempre meglio un anticipo consistente al momento della firma del contratto di un imprevedibile e incontrollabile bilancio delle vendite annue a posteriori.

Quali sono i tuoi obiettivi di direttore della rivista Sagarana, attenta alle voci migranti?

La Sagarana, come sai, è una Scuola di Scrittura Letteraria, a Lucca, alla quale è stata abbinata una rivista on-line. La rivista ha una sezione chiamata “Ibridazioni”, che è come una rivista dentro la rivista, dedicata esclusivamente a questa nuova letteratura, non solo a opere creative di tutti i generi, ma anche ai saggi che cercano di conoscerla meglio. Ma sappiamo che questa sezione si arricchisce quando articolata con tutto il resto della rivista, a integrare una sorta di “ecosistema” letterario, basato sulla “biodiversità”, proprio come gli ecosistemi più esuberanti, quelli delle foreste del mio Brasile, in cui una pianta per crescere, o addirittura per sopravvivere, dipende della contiguità delle altre specie. Così, ad ogni nuova edizione della Sagarana, questo “giardino botanico” è riproposto. Si coltivano lì piante fiorenti da tutto il mondo.

L’abitare più lingue caratterizza lo scrittore migrante più d’altri. Come ci si sente a muoversi, letterariamente parlando, in un plurilinguismo attivo e a intervalorizzare tali lingue tra loro?

Fino ad oggi, per quello che riguarda gli scrittori che praticano più lingue nella loro opera, c’è sempre da parte della critica ancora non smaliziata questo desiderio mal celato di vederli ritornare alla loro lingua madre, il ritorno del figliolo prodigo. L’adozione di una lingua letteraria straniera è vista con diffidenza, come se fosse un tradimento o un’aberrazione, oppure come una vana presunzione. Solo quei casi considerati “classici” di plurilisguismo, sempre gli stessi – Conrad, Nabokov, Beckett – sono visti con vera meraviglia, come se questi autori fossero stati dei geni miracolati dalla dea Minerva, e quindi fuori dalla portata dei suoi “imitatori” contemporanei, miseri mortali.

Ora però le cose stanno cambiando rapidamente. La proliferazione e l’alto livello degli scrittori che, in tutto il mondo, praticano il plurilinguismo letterario condurrà sicuramente la critica a considerarli sempre più un fenomeno “normale”, dentro alle aspettative di quello che dovrà accadere in un mondo culturalmente globalizzato. E i migliori tra  loro, spero, dovranno godere subito di un rispetto e di una ricettività attenta e libera da diffidenze e da preconcetti. Questo non è solo un mio augurio, ma qualcosa che accadrà per forza nell’ordine naturale della comparsa e dello sviluppo della letteratura mondiale. Mi chiedi come mi sento personalmente nel mio plurilinguismo letterario… Mah… mi sento molto bene, mi sono sempre sentito a mio agio scrivendo in italiano, per esempio. Tanto il portoghese, la mia madre lingua, quanto poi il francese e l’inglese, nel quale ho scritto un romanzo alla fine degli anni ’70, e ora l’italiano, sono, uno alla volta, le lingue del mio presente, del tempo reale per eccellenza, anche dal punto di vista della creatività. Non potrei vivere ogni giornata in una lingua, leggere, discutere, ragionare, emozionarmi e sognare in quella lingua, e poi scrivere in un altra perché è l’unica “autorizzata”, la madre lingua. Sarebbe ridicolo.

Per me, gli idiomi non presenti, o poco presenti nel mio quotidiano attuale sono gli idiomi del passato, incluso quello originale. La lingua del presente invece, la lingua della vita, è a fior di pelle, scotta, prude, rabbrividisce, e in questo modo si presta idealmente alla creazione letteraria.

Il convegno prevede come spettatori eccellenti gli studenti delle scuole superiori, quanto è importante questa scelta nel contesto di una società italiana sempre più multiculturale ma che fatica ad attuare un progetto etico di interculturalità?

Dev’essere chiaro per tutti a questo punto che non esiste altra scelta per l’Italia che l’interculturalità. O meglio ancora, la trasculturalità, quel fenomeno di ricca e indistinta fusione di culture diverse. L’Italia è in procinto di inserirsi pienamente nel mondo contemporaneo, si è avviata già da parecchi anni in questa direzione. E come si dice in Brasile, “o que deve ser é muito forte”, ciò che dev’essere è molto forte. Questo percorso di modernizzazione può essere ostacolato e deriso dalle forze retrograde, che infieriscono l’ultima zampata prima della loro definitiva dissoluzione. Ma è solo una questione di tempo. Da quando sono arrivato in questo paese, nel 1995, fino a ora, il cambiamento è notevole, e non si è lasciato svigorire nemmeno dalle forze meschine e mediocri che si sono impadronite del potere politico più recentemente. La spinta verso ciò che è giusto e ragionevole, verso ciò che sembra promettere una vita meno insulsa per tutti,  è incontenibile. La “fatica” a cui fai riferimento, la vedo più a livello istituzionale. A livello privato, in quello che Foucault chiamava “la microfisica del potere”, l’interculturalità si mostra una pratica già estesa e vincente nella società italiana, soprattutto tra i giovani, che crescono in un ambiente più rilassato e naturale per quello che riguarda le differenze. Loro cominciano a intuire, nella pratica del contatto personale, ma anche attraverso i film, libri, canzoni che ascoltano, che l’altro non esiste come entità assoluta, che ognuno sarà l’altro dell’altro. E che questo viene per arricchirci la vita, per riempirla di nuove emozioni e di nuove opportunità. Tutto questo è presente anche nelle storie e poesie scritte a partire da questo nuovo mondo. Come non essere fiducioso che saranno accolte con entusiasmo?

L'autore

Acava MMaka