Interviste Supplementi

Intervista 2. Acava MMaka

JULIO MONTEIRO MARTINS PER «STILOS»

DI VALENTINA ACAVA MMAKA

1) Julio, in questa tua seconda raccolta di racconti “La passione del vuoto” si riconferma una tua caratteristica, quella di lasciare in sospeso il lettore. Si ha la sensazione e la necessità di leggere ancora e di più per entrare nelle profondità delle cose. Che cosa demandi al lettore quando utilizzi il non detto, la sospensione?

La tua domanda si ricollega al recente commento di Carmine Gino Chiellino, dell‘Università di Augsburg: “ciò che accomuna di più i racconti brevi e a volta brevissimi di Julio Monteiro Martins e che conferisce unità estetica al volume è il fatto che essi in realtà sono degli incipit che annunciano tanti romanzi. Giunto alla fine di ogni suo racconto ho avuto la netta sensazione di entrare in un romanzo, che Monteiro Martins non racconta per non imbrigliare la fantasia dei suoi lettori. O si tratta di un raccontare tutto brasiliano che a me sfugge? In ogni caso il suo modo di raccontare realtà italiane era finora ignoto alla letteratura italiana.”

Devo dire però che vedo diversamente da Chiellino la strategia narrativa usata in gran parte di questi racconti . Essi non sono “incipit”, ma  “frammenti emblematici”, ognuno una parte significativa scelta da un universo fittizio più ampio, che il lettore sarà probabilmente in grado di immaginare, ma non dovrà necessariamente farlo per capire integralmente il testo. Sì, perché al contrario di un “incipit”, questa “parte” è autonoma, contiene al suo interno tutti i significati, l’atmosfera, le allegorie e le metafore estese dell’opera in questione, e nella sua integrità narrativa non dipende da un eventuale contributo immaginativo del lettore. Basterà quello solitamente richiesto per un testo letterario più convenzionale.

A un mio grande amico – lo scrittore brasiliano Caio Fernando Abreu, morto ancora giovane qualche anno fa – piaceva molto usare l’espressione “metamero”, che lui stesso aveva preso in prestito dalla biologia. Nel senso corrente, il metamero è ognuno di quegli “anelli” che fanno parte corpo di un verme o di una tenia, e che se tagliato e isolato è in grado di far crescere nuovamente l’intero verme, con tutti i suoi organi interni ed esterni, come una sorta di clone ante litteram. Lui chiamava “metameri” a certi racconti brevissimi, frammenti estratti da una trama più lunga, più complessa, magari da un romanzo ipotetico (da scrivere in futuro, o da non scrivere mai, non importa), che allo stesso tempo che presentino l’autonomia caratteristica di un genere molto praticato dalle nostre parti, il miniracconto latino-americano, servano come “appunto” per un’opera di più largo respiro (o meglio, questo è ciò che diceva lui, e i racconti presentavano chiaramente questo potenziale di sviluppo narrativo, ma non l’ho mai visto trasformare uno di essi più tardi in una novella o in un romanzo. Probabilmente gli piaceva solo sapere che contenevano questo “codice genetico” al loro interno, anche se sterile).

I miei racconti in un certo senso fanno parte della famiglia dei “metameri” tanto cari ad Abreu, ma al contrario di lui non ho mai nemmeno immaginato di farli sdoppiare in romanzi (o in sceneggiature, o in pièce teatrali). Sono nati per essere racconti e basta. Il genere massimo della narrativa, la sua sfida più audace, secondo me: la ricerca simultanea e indivisibile del significato e della sintesi, nella prosa. Il prodotto di un romanziere posseduto da un poeta.

2) Anche se tutti gli scrittori lo sono, in una forma più tangibile direi che sei uno sperimentatore di linguaggi, da dove nasce questo interesse e che tipo di percorso esperienziale ti permette?

Non mi vedo come uno “sperimentatore di linguaggi”. Lo sono molto più di me i poeti della poesia concreta brasiliana, come Augusto de Campos, o in Italia quelli del Gruppo ’63, per dire. Loro amano la sperimentazione in sé come un valore. Quello che succede con il mio lavoro, invece, è qualcosa di diverso. La sperimentazione è uno strumento del dire, il tentativo di costruire un “arnese” particolare per poi utilizzarlo nella stesura dei racconti o della poesia, così come un fabbro potrebbe crearsi prima certe pinze che aveva in mente, per poi, con esse, fabbricare le spade o le pentole che voleva. La sperimentazione stilistica o strutturale nella letteratura è condizionata al risultato espressivo da ottenere, deve servire all’espressione ideale di un contenuto, di un significato, di un’atmosfera. Personalmente, non sarei mai motivato abbastanza a perseguire le sperimentazioni come un fenomeno estetico puro, fine a se stessa. In questo caso mi sentirei immerso in una sorta di “onanismo letterario”,  quando ci sarebbero sicuramente altre attività più interessanti per occuparmi il tempo.

3) Il dialogo che spesso contraddistingue i tuoi racconti, riconduce a memorie cinematografiche. Cosa identifichi nel dialogo e in che modo il cinema influenzano la tua scrittura?

Il linguaggio cinematografico ha influenzato la letteratura del ventesimo secolo complessivamente, ha condizionato fortemente le aspettative di ricezione e di fruizione dello spettatore/lettore, e di conseguenza anche le strategie narrative degli scrittori. C’è una curiosa simbiosi, ormai un’interdipendenza, anche simbolica, tra cinema e letteratura, al punto che alcuni critici più spinti, non senza ragione, considerano il cinema un genere letterario, insieme alla poesia, al racconto e al romanzo. La mia opera non sfugge a questa simbiosi, e se pensi che negli anni Settanta ho studiato proprio Cinema all’Università, a Rio, in un corso diretto da un professore di eccezione, il regista Nelson Pereira dos Santos, che ha creato negli anni ’50 il movimento  del Cinema Novo, il nostro “Neorealismo”, avrai ancora più ragione per crederlo.

Ma in verità letteratura e cinema sono cose molto diverse, anche quando un determinato stile letterario sembra associarsi al linguaggio cinematografico, come nel caso dei dialoghi dei miei racconti a cui fai riferimento. Sono diversi, tra l’altro, perché il cinema mostra – e deve mostrare – mentre la letteratura evoca, spinge l‘idea verso un percorso che inizia nella parola, elabora concetti, risveglia emozioni, intreccia collegamenti sottili, modella soggettività, ma non mostra mai, non offre immagini – non lo deve proprio fare, non deve mai distrarsi dai concetti, i veri tasselli da giustapporre all’interno della cornice del racconto.

4) In racconti come “La notte” o “Oltre” rimandano ad una dimensione surreale del narrare. E’ una scelta per esplorare i luoghi dell’inconscio ?

Sono racconti che utilizzano una tecnica più volte utilizzate dai surrealisti (stranamente, più dai pittori e dai registi di quel movimento che dagli scrittori ), quella dello “spostamento”. La narrativa segue un filo logico formale riconosciuto dal lettore, un territorio fittizio a lui familiare, un’atmosfera nella quale lui si può lasciare coinvolgere senza difficoltà, ma c’è qualcosa in quella struttura che non torna, che è spostato da questa logica, “un’idea fuori luogo” direi. Questo elemento, inserito con naturalezza, “posato” nell’intreccio, fa sì che tutto cambi, che una nuova alchimia prevalga all’interno del racconto, e il lettore, che allo stesso tempo sente un “disagio concettuale” motivato dallo “spostamento”, assapora le rivelazioni che questo gli procura: gli elementi conosciuti del suo quotidiano sono ora illuminati da una luce inedita, e presentano una dimensione insospettata, sorprendente. Ma non sarebbe proprio questo uno dei compiti importanti della letteratura? Quello di smascherare il reale (e la letteratura stessa), quello di segnalare nuovi percorsi alla conoscenza? Nuove ipotesi interpretative di vecchi fenomeni, anche di quelli più banali? Insomma, di materializzare “esseri” alternativi a quelli consueti?

5) Uno dei fil rouge dei tuoi racconti è il malessere dell’uomo moderno, la necessità di definire  uno spazio accettabile dove potersi rispecchiare. Da cosa deriva questo malessere dell’Uomo del Terzo Millennio?

Quello che so su questo “malessere” è più o meno quello che sappiamo tutti. Quello che sento al riguardo è forse qualcosa di diverso. Ed è soprattutto impregnato di questo mio sentire che scrivo i miei racconti e le mie poesie. Provo a dirlo: il mondo si è disincantato, molte delle vesti – ideologiche, religiose, filosofiche e anche estetiche – con cui si presentava da sempre sono cadute una dopo l’altra ai suoi piedi, come veli di polvere, e l’hanno lasciato nudo. Il mondo nudo non è folgorante, e nemmeno nitido, lo intravediamo nel buio solamente. Questa oscurità lo rende spaventoso. E le sue forme nude somigliano a forme conosciute, ma sono stranamente diverse, e scopriamo allora che si tratta dell’altro, un altro che non abbiamo mai incontrato o concepito prima. E questo lo rende ancora più spaventoso. Siamo già dentro qualcosa di innominabile, e non  possiamo sottrarrlo al nostro sguardo, a tutto il nostro corpo, anch’esso nudo, una carne cruda e esposta. Possiamo solo intuire ora che è la vita stessa ad essere stata sequestrata, per soddisfare questi incomprensibili e  inaccettabili progetti.

6) Rispetto ad altri scrittori migranti, che scrivono quasi esclusivamente del proprio paese tu racconti scorci di vita italiana, ambientazioni italiane viste sempre con uno sguardo critico, impegnato. Da uomo e da scrittore come vivi l’Italia da brasiliano? In che modo il Brasile ti permette di “leggere”l’Italia e viceversa?

In una bella canzone, Aquele abraço, composta da Gilberto Gil quando era in esilio a Londra, c’è un verso che dice “Il mio  percorso nel mondo io stesso lo traccio / Bahia mi già ha dato la riga e il compasso” (Meu percurso pelo mundo eu mesmo traço / A Bahia já me deu régua e compasso). Be’, amplificando geograficamente questa “Bahia”, potrei dire che la vita brasiliana prepara come poche altre la presente cittadinanza mondiale, perché è sintesi di mondi contrastanti, di storie, di razze, di fedi e di sensibilità in apparenza incompatibili. Uno scrittore brasiliano che arriva in Italia scopre forse prima di tutto ciò che abbiamo in comune: il sentimento mediterraneo (diceva Blaise Cendras che il Mediterraneo cominciava a Istanbul e finiva a Rio de Janeiro), l’eredità greco-romana, un’attenzione privilegiata ai piaceri della carne, letto o fornello, e la lingua latina, che sorprendentemente per tanti versi è rimasta più intatta nel portoghese che nell’Italiano, isolata in quella propaggine atlantica dell’Europa per venti secoli, come si vede in parole portoghesi come “deus”, o “aliás”. Ma poi accende il suo sguardo verso le differenze, e con questo sguardo acceso e trasparente, senza luoghi comuni o partiti presi, senza saudade né risentimento, una vera pellicola vergine, vede gli “esseri alternativi” di cui parlavo prima negli stessi spazi in cui un italiano DOC non vede niente. E probabilmente qualcosa di simile accade a un italiano che arriva in Brasile o altrove con lo sguardo, diciamo, già lucidato dalle carezze abituali delle colline toscane.

7) Spesso la letteratura italiana degli ultimi anni è uno sguardo su realtà non italiane. Da dove nasce, secondo te, il disinteresse o la “distrazione” degli scrittori italiani verso la propria realtà? C’è sempre di mezzo la cultura esterofila che continuiamo a coltivare?

Immagino che il disinteresse – se esiste veramente, e non è piuttosto una “timidezza” motivata da troppi sguardi giudicativi o malevoli – nasca dal guazzabuglio dei discorsi e dei contenuti, dalla nebbia fitta di rumori, dotti o mediatici, che si interpongono tra l’uomo italiano e il suo specchio. Arrivando all’estero da solo, staccato del gregge e dai satelliti, i rumori cessano, l’aria diventa trasparente, e l’italiano ascolta questa musica che viene da una terra diversa, questo assolo pulito e melodioso, si lascia cullare dall’atmosfera che questa musica nuova gli propone, mentre per quelli che la suonano probabilmente non è altro che il solito miscuglio assordante che da sempre  sconvolge i loro giorni.

8) Chi sono i tuoi padri e le tue madri letterarie?

Per me è impossibile parlare dei “padri” e delle “madri”, perché da bambino sono stato un voracissimo lettore, ma, pensando esclusivamente alla poesia, mi viene in mente prima di tutto __ quella in lingua inglese, letta a voce alta da mia madre mentre studiava per le lezioni che doveva impartire presso la cattedra di Letteratura nordamericana all’Università (a quel tempo, i primi anni Sessanta, T. S. Eliot, Robert Frost, Emily Dickinson, Auden, e tanti altri). Poi, nella prima adolescenza, ci sono stati i grandi poeti brasiliani – Drummond, Bandeira, João Cabral, Vinícius, Cecília Meirelles, Osvald de Andrade, Castro Alves – i portoghesi, come Fernando Pessoa e Florbela Espanca, e subito dopo, gli ispanoamericani Neruda, Paz, Ruben Dario, José Marti, Violeta Parra. A quel tempo – erano gli anni più severi della dittatura militare in Brasile, ma anche i più fertili, i più “epici”, della musica popolare brasiliana, delle cosiddetta “canzoni di protesta” – la poesia presente nelle parole delle canzoni straordinarie di Chico Buarque, Caetano Veloso, Milton Nascimento, Gilberto Gil, Gonzaguinha e Tom Jobim è diventata senz’altro parte della nostra formazione poetica. E solo più tardi, a metà adolescenza, entrarono con più vigore i francesi, gli italiani, i tedeschi, i russi, gli inglesi… Oggi, alcuni dei miei poeti favoriti vengono dall’Europa dell’Est: la Szymborska, Brodskij, Milosz…

Poi, nella prosa, Borges, Kafka, Poe, Faulkner (sulle tecniche dell’uso del tempo in The time and the fury mia madre a scritto la sua tesi di dottorato negli anni Sessanta). Sono in tanti, è impossibile determinarli.

9) Che cosa significa la scrittura per te?

Avventura e sacerdozio. Il senso stesso della mia esistenza.

10) Dirigendo una scuola di scrittura puoi affermare che si può “imparare a scrivere” o si può imparare a “diventare scrittori”?

Si può senz’altro amplificare immensamente l’universo di conoscenza a riguardo, tastare le inclinazioni stilistiche e scoprire quelle che meglio si adattano alla struttura psicologica e alle pulsioni creative individuali, e stabilire le priorità giuste riguardo a questo mestiere/sacerdozio.

11) Chi sono gli studenti della Sagarana?

Sono soprattutto giovani tra il 24 e i 34 anni, che mentre concludevano gli studi universitari hanno scoperto questa impellente vocazione allo scrivere. Ma è ovvio che essa può manifestarsi con vigore in qualsiasi si altro periodo della vita, e sono tutti benvenuti alla Sagarana se la portano in sé.

12) Un testo che ti ha aperto il mondo della scrittura?

Non mi ricordo. È successo in un tempo ancora senza memoria, senza registri. Nel mio ricordo più antico quel mondo era già aperto.

13) Come e quando scrivi?

Ovunque, e se posso, in quei momenti cerco di isolarmi, di nascondermi. Uso una penna e dei fogli di carta sciolti. Occorre qualcos’altro? Non credo. Magari un’altra penna se l’inchiostro finisce.

L'autore

Acava MMaka