Interviste Supplementi

Intervista. Il Segnale

INTERVISTA PUBBLICATA SU «IL SEGNALE», a cura della Redazione

1) Se dovesse scrivere un incipit di un romanzo sull’Italia di oggi, come inizierebbe?

JMM – “Essendo uomo e non avendo potuto allattare, mi sono dedicato alla politica. Ma siccome mi piace stare a casa e non mi posso permettere spese extra, mi sono dedicato alla politica on-line. Ed è meraviglioso! È un successo! Sono sicuro che prima o poi anche il latte mi verrà copioso!”

2) E un incipit sull’Italia del 1995, anno in cui quarantenne è arrivato nel nostro paese?

JMM – “ ‘Uno è un deficiente. L’altro è un cretino assoluto, una capra. E non è una mia opinione. Questo l’hanno già capito tutti, ma basta guardarli quelli lì…’ sbraitava il critico d’arte fattosi politico, dalla tv in altissimo volume posata sulla credenza del tinello di mio suocero mezzo sordo. Non ce la facevo più. Sono sgusciato via verso la salvezza della finestra del salotto deserto.

Nella piazzetta di fronte si vedeva la sede dell’ex-PCI. Dalla porta mezza aperta si scorgeva il corridoio quasi buio e la lampada fiocca che ingialliva ogni cosa. Fuori due altoparlanti suonavano un motivetto da ballo liscio, forse una polca. La piazza era illuminata da lampadine colorate penzolanti sopra il cerchio formato dalle sedie di plastica. In un angolo alcuni anziani, con i loro berretti grigi o a scacchi, formavano un capannello, e uno di loro gesticolava con entusiasmo. Parlavano di politica? Più probabilmente parlavano della vita in città: divorzi, rapine, parcheggi, eccessi e decessi.

Al centro del circolo un’anziana robusta ballava con una ragazzina, sua nipote forse, e a ogni suo passo corrispondevano due passi della bambina. Quel piccolo ballo solitario nella penombra, si capiva, era ciò che era rimasto di un immenso secolo che si stava squagliando. Pensavo: tra una ventina d’anni la nonna non ci sarà più e la ragazza, fattasi donna, non si ricorderà più dei passi di quella polca.

La musica si fermò. La coppia si sciolse e la piazza rimase silenziosa, quasi abbandonata. Dalla mia finestra si udiva allora solo il turpiloquio del critico. Ogni altra finestra intorno alla piazza effondeva il bagliore fantasmagorico di una tv accesa, e chissà forse tutte sintonizzate sullo stesso canale.

Chiusi la finestra e non ebbi mai più voglia di riaprirla.”

3) Qual è il filo rosso tra la sua produzione in lingua portoghese e quella in lingua italiana?

JMM – Più che un filo, si tratta di vero tessuto rosso, spesso e resistente. Lo scrittore è lo stesso, in portoghese o in italiano è sopravvissuto alla sua infanzia (e come diceva Flannery O’Connor, se uno riesce a sopravvivere all’infanzia, può fare qualsiasi cosa nella vita). Le ossessioni, i leitmotiv presenti nei libri brasiliani sono sempre gli stessi: la questione del potere e della libertà, le impossibilità dell’amore, la beffa della morte inappellabile, la società crudelmente divisa in caste, la solitudine intrinseca, ineluttabile, di ciascuno di noi, le trappole della contemporaneità, lo scherzo di cattivo gusto in cui può trasformarsi la vita, il senso del sublime, l’estasi che emerge, a volte esplosivamente, all’interno della vita stessa.

Non bisogna sopravvalutare cosa significhi per uno scrittore cambiare lingua letteraria. È vero che è un’operazione che ha del prodigioso e del miracoloso, ed è vero che avviene una sorta di sdoppiamento spirituale e artistico, ma è anche vero che gli esseri nati a partire da questo sdoppiamento sono molto simili, gemelli cresciuti insieme ma poi sposati con idiomi diversi.

4) Lei spazia dal racconto, al romanzo, alla poesia anche se quest’ultima rimane su un livello di pubblicazioni più limitato. La scelta di genere da cosa è data? Dai temi, dai contenuti o dal tempo della scrittura in sé?

JMM – La poesia è più difficile da essere pubblicata nel mio caso e credo anche nel caso di tutti. Ma questo non significa che abbia un’importanza minore all’interno dell’opera complessiva, ma soltanto una minore opportunità di visibilità riguardo alla narrativa, ma soprattutto riguardo alla saggistica e agli articoli di opinione, il genere che ha preso il sopravvento negli ultimi anni e che continua a crescere (sarà per l’urgenza di capire per sopravvivere? Forse, ma spesso con la poesia e il racconto si capisce meglio e di più ogni cosa).

La mia poesia e la mia narrativa, anche se scaturiscono da una stessa soggettività e da uno stesso tempo storico, che è il nostro, hanno compiti diversi e complementari. La poesia parte dal confine dove si ferma la narrativa. Si avventura per regioni dell’inconscio dove niente è più chiaro o definito, naviga dentro la nebbia, raccoglie impressioni, intuizioni, emozioni diffuse e indistinte; rinuncia alla chiarezza della prosa, con le sue metafore estese, i suoi monologhi interiori e il “chiaro enigma” dei suoi simboli, per perdersi in un mondo più oscuro e più pericoloso, in cui le idee sono fugacemente illuminate da lampi d’intuizione, da insight improvvisi e spaventosi. È possibile che proprio per questo la mia poesia sia impregnata di una verità più essenziale, anche se meno nitida, che della verità imbrattata dalle circostanze che emerge dalla narrativa. Non esiste tuttavia un passaggio nitido tra la prosa e la poesia, entrambe coabitano in una zona grigia, e all’interno di un testo di narrativa non di rado compare l’espressione poetica per accrescerlo in profondità, in essenzialità e in mistero.

Durante la stesura della mia prosa a volte sento il venir meno della razionalità e la comparsa della voce dirompente della poesia, come in una vertigine, o come il taglio di una lama affilata. C’è un titolo di un romanzo di Clarice Lispector che mi piace molto, “Vicino al cuore selvaggio”. Ecco, è come se la scrittura fosse improvvisamente allontanata dal cuore abituale per avvicinarsi a un secondo cuore, più “selvaggio”, quello da dove proviene la poesia, che palpita diversamente e fa circolare un sangue diverso, più fluido e più veloce. La vertigine deriva da questo “sbalzo circolatorio” improvviso.

5) La struttura dei suoi racconti segue anche quella della storia minima, del racconto molto breve. Semplici fotografie di scene e situazioni quotidiane…

JMM – È sì. Se pensi, anche i due “incipit” che ho scritto per questa intervista sono racconti completi. Io li pubblicherei così, senza aggiungere nient’altro.

Questo sarà forse il segno più evidente delle mie origini letterarie sudamericane, della tradizione che ha influito sulla mia scrittura europea: quella del racconto brevissimo di Cortázar, di Augusto Monterroso, di Dalton Trevisan e di Borges.

Un’immagine può bastare per illuminare una potente idea narrativa, o per evocare un universo alternativo. Così come lo può fare uno scatto fotografico, basta guardare quelli del mio compaesano Sebastião Salgado.

Non dimentichiamo che grande parte dei lettori di narrativa rimasti sono anche loro scrittori, si annoiano con la retorica narrativa tradizionale, con giudizi soggettivi che possono facilmente intuire, con percorsi e strategie narrative che magari erano stimolanti per i lettori del passato, o per i lettori “da spiaggia”, ma che per i primi sono scontate e soporifere. E così, sta cambiando in modo naturale e graduale l’economia interna dei racconti, diventati più visivi, di maggior impatto e più veloci, come flash, come lampi. Molto di quello che il racconto non palesa sarà riempito dalla fantasia e dalle conoscenze del nuovo lettore, che diventa così una sorta di “co-autore”.

Anche all’interno di un racconto lungo o di un romanzo, nelle sue multiple parti articolate attorno a un intreccio o a un leitmotiv, questa forma potrà essere utilizzata, e il romanzo-fiume ereditato dalla narrativa ottocentesca soffrirà una mutazione e somiglierà piuttosto a un mosaico, o a un puzzle, un romanzo che, nella sua organizzazione interna e a partire dai frammenti espressivi, formerà un quadro complessivo. I miei romanzi più recenti, il brasiliano “O Espaço Imaginário” e gli italiani “madrelingua” e l’inedito “L’offuscamento”, rispecchiano questa strategia narrativa.

6) Appunto, c’è il romanzo, non romanzo, metaromanzo, romanzo incompiuto Madrelingua. Da dove nasce l’esigenza di scrivere un testo come questo? Che meta lettura oggi ne possiamo fare?

JMM – La metaletteratura è forse oggi la narrativa più vicina all’esperienza dei lettori-scrittori del nostro tempo, quelli appartenenti a una generazione che ha una grande dimestichezza con le questioni che affiorano nello scrivere.

Innanzitutto bisogna sfatare un equivoco, quello di presentarla come un ipersofisticato e complesso esercizio di virtuosismo narrativo, una strategia narrativa messa in atto da alcuni writer’s writers, i maestri della forma e delle sperimentazioni, magari con lo scopo velleitario di esibire le loro doti. In Italia, ogni volta che si senti parlare di metaletteratura sembra che si parli di cose ermetiche, esoteriche e anche un po’ noiose, per una manciata di iniziati, come la teoria quantica o la fisica delle particelle. Invece la metaletteratura – quella presente per esempio in Pirandello, nel Borges di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, in Vila-Matas o nel madrelingua, che hai citato – non è altro che un modo contemporaneo di giocare con la struttura letteraria, di divertirsi portando a galla il dietro le quinte della scrittura, svelando la sua impalcatura, lo scheletro, come attraverso un raggio X. Nei casi più riusciti, riesce a trasmettere ai lettori non un senso di pedante erudizione ma al contrario una leggerezza che dice “dài, non prendete troppo sul serio il racconto, in fondo è solo un gioco”. Trasmette un sano scetticismo, che deride con buon umore la tradizionale “sospensione dell’incredulità” della narrativa, come nel gioco delle tre carte. La metaletteratura narra contemporaneamente in diversi livelli esegetici, e in 3D, si potrebbe dire, e può essere molto divertente. In essa tutti i ruoli sono scambiabili, come in un ballo in maschera, e il narratore che, attenzione, non è l’autore, diventa a sua volta un personaggio, fino a che compare dal nulla un altro narratore, che si presenta come il vero, e cioè travestito da autore, mentre i personaggi si ribellano a questo gioco che smaschera il loro ruolo consueto e rivendicano un atteggiamento più “autorale” da parte dell’autore.

7) Lei insegna tecniche di scrittura creativa. C’è ancora tanto bisogno di scrittura in Italia?

JMM – Non insegno solo le tecniche, il come scrivere, ma soprattutto ragiono insieme ai miei allievi su cosa scrivere e sul perché scrivere.

Se c’è bisogno di scrittura in Italia? Mai come ora la letteratura è una questione di “sicurezza nazionale”. L’identità del paese si è smarrita negli ultimi decenni. Altro che pensiero debole, c’è un pensiero agonizzante, che languisce mentre gironzola intorno alle mura esterne del labirinto in cui si è trasformata l’Italia del Duemila. Solo i migliori scrittori – proprio perché sono stati messi a margine, perché sono fuori dai giochi, perché per forza devono sviluppare un distacco critico dal caos – sono in grado, o dovranno esserlo, di svelare i misteri, chiarire l’oscurità, calmare gli afflitti, vedere il futuro, stanare o ricreare la nostra identità. Lo scrittore è uno dei pochi intellettuali-artisti che ha il compito di vedere e di interpretare complessivamente il mondo, e non di approfondire una sua parte ignorando le altre, e questo compito è assolutamente indispensabile se vogliamo uscire dal vortice che ci sta inghiottendo.

8) E di lettura?

JMM – L’esistenza di bravissimi lettori è qualcosa che sempre mi desta meraviglia. A volte mi sembra un miracolo che un’intelligenza così diversa dalla mia, quella di una persona di un altro continente e di un’altra generazione, sia in grado di ricreare dentro la sua testa, spesso fedelmente, il mio mondo immaginario, con i suoi personaggi ambigui e le sue atmosfere al contempo fantastiche e fumose, nebulose. E non è raro che un lettore o un critico chiariscano a me stesso elementi della mia opera di cui non mi ero mai accorto prima, e sono tutti elementi veri, metafore estese, simboli ed evocazioni effettivamente presenti nei miei libri.

Lo scrittore è grato e motivato da questi bravi lettori. In fondo, è per loro che scrivi, per quelle poche decine di lettori straordinari. Ogni volta che uno di loro posa il suo sguardo su un’opera, essa si sdoppia, si moltiplica, diventa fertile, semina.

9) Nella raccolta di racconti L’amore scritto indaga l’amore e l’eros. Scelta sempre difficile e rischiosa…

JMM – In letteratura, ogni cosa può essere difficile e rischiosa, ma può essere anche molto facile: basta che sia qualcosa che non può non essere scritta, che costituisca un imperativo creativo.

Mi succede non di rado di “trovare” il testo già pronto, addirittura nella sua forma definitiva, scavando nel mio inconscio. A volte mi viene durante un sogno, mi sveglio nel bel mezzo della notte e subito prendo appunti prima che il ricordo svanisca. Forse questo accade perché l’argomento è così impellente – e cosa ci può essere di più impellente dell’amore e della passione? – che la creatività letteraria aveva già cominciato a operare all’insaputa dell’autore, come succede con certe preoccupazioni e certi presentimenti collegati ai problemi della vita reale.

Il tema dell’amore, che insieme alla morte e al potere sono tra i grandi temi dell’arte da sempre, è presente fortemente nella mia opera sin dal mio primo libro, “Torpalium”, scritto nel 1976. Un suo racconto, “Casos de Amor” descrive, attraverso due monologhi, come l’innamoramento avviene in due classi sociali opposte, l’alta borghesia e il sottoproletariato del Brasile di allora.

Non c’è un unico libro mio in cui l’amore non abbia un ruolo fondamentale. Nel “madrelingua” per esempio descrivo i dieci tipi possibili di amore nel Ventunesimo secolo, in “La passione del vuoto” un adolescente svizzero sulle montagne brasiliane degli Aghi Neri è travolto dalla voluttà di una giovane domestica, selvaggia, sensualissima, il tutto in mezzo a degli ex-gerarchi nazisti fuggiti nel Sudamerica nell’operazione Odessa, e rifugiatisi lì.

Nel 2006, ho deciso di scrivere “L’amore scritto”, un libro esclusivamente su questo tema, con 52 storie brevi ciascuna ritraendo una forma complessa, ambigua o lacerante di amore nel nostro tempo. Il libro è diviso in tre parti, “oro”, “incenso” e “mirra”, i doni dei Re Maghi, che come succede con l’amore hanno realizzato un lungo viaggio con lo scopo di donare qualcosa di fondamentale a qualcuno.

Ma “L’amore scritto” è anche un libro che, attraverso i rapporti d’amore, svela un mosaico sulla vita moderna. Parla della paranoia del terrorismo, della malattia e della consapevolezza della morte vicina, delle trappole della memoria, del sovrannaturale, della pazzia, dell’estasi e della solitudine on-line. L’amore lì è soltanto la prospettiva generale attraverso la quale il nostro mondo e la nostra vita è filtrata dalla mia particolare sensibilità.

10) Quali sono i libri della letteratura italiana che ha letto con maggior piacere e che considera letture irrinunciabili.

JMM – La storia del mio rapporto con la letteratura italiana è curiosa, è capovolta secondo i canoni tradizionali. Ho cominciato dai contemporanei, considerati trasgressivi e modernissimi ai tempi della mia adolescenza, in piena dittatura militare: i racconti di Buzzati, che ho scoperto dopo aver letto i libri di Kafka e che ad essi sono rimasti indissolubilmente gemellati, i romanzi e i racconti di Moravia, pieni di un erotismo molto diverso dalla sensualità brasiliana, poi “Lessico familiare” della Ginzburg, Pirandello (di cui avevo visto diverse pièce teatrali a Rio), le impressionanti testimonianze di Primo Levi e i reportage di guerra di Curzio Malaparte. Di Pasolini, nel Brasile di allora, si conoscevano solo i film, a cui assistevamo di nascosto e con trepidazione nei piccoli cineclub delle Università. La sua poesia sarebbe arrivata soltanto decenni più tardi.

Solo negli anni ’80, ho conosciuto i grandi poeti italiani e la grande letteratura italiana del Rinascimento (Boccaccio però l’avevo già letto, qua e là), L’Ottocento di Manzoni e il primo Novecento di Svevo, Deledda e Verga, allora letti già in lingua originale, non più in traduzioni.

La letteratura italiana mi ha sempre colpito, forse perché i personaggi sono dotati di un’emozionalità superiore alla loro razionalità (non riesco a immaginare il “Fausto” o “La montagna incantata” scritti da un autore italiano), e questo l’avvicina molto al modo brasiliano di sentire. Anche i miei libri beneficiano di questa vicinanza per conquistare l’interesse dei lettori italiani. Può sembrare strano questo che dirò, ma il Brasile è culturalmente molto più vicino all’Italia di, per esempio, l’Austria o la Svizzera. I brasiliani l’hanno già capito da un po’ di tempo (addirittura alcune delle telenovelas recenti di maggior successo sono ambientate in Toscana). Gli italiani invece devono ancora scoprire questa profonda “affinità elettiva”.

L'autore

El Ghibli

El Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. E' il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa.