Interviste Supplementi

Intervista. Laura Barile

INTERVISTA CON JULIO MONTEIRO MARTINS:

DI LAURA BARILE

 1) Hai parlato dell’emigrazione, dell’esperienza di emigrare, come di una esperienza di morte: vuoi dirci meglio che cosa intendi dire?

Per prima cosa, pensiamo al significato di  “essere vivo”, per noi umani. Non è un mero senso di integrità corporea, di respiro e di circolazione. È soprattutto un senso di identità, l’appartenenza ad una rete invisibile di collegamenti affettivi e sociali, un’auto immagine che dialoga ogni giorno con un’immagine pubblica, l’intreccio di una storia personale, la storia di uno sviluppo coerente. Proprio per questo, in una sua poesia del 1975, Caduta, Czeslaw Milosz ci avverte che “la morte di un uomo è come la caduta d’uno stato potente”, che trascina con sé nel nulla un completo sistema di rapporti. Direi che si tratta più di un fatto “narrativo” che di un fatto biologico. Dunque, quando l’emigrato taglia per sempre tutti i legami con gli altri e con uno stantio sé stesso e sfascia quella rete di rapporti, cancellando in un solo colpo la propria storia, sperimenta qualcosa di molto simile alla morte reale. Una sorta di “suicidio amministrato”, addomesticato.  E non si tratta di una “morte provvisoria”, visto che la rottura è definitiva e irrimediabile, ma di una morte con caratteristiche particolari, che permette al corpo, alla “conchiglia vuota”, di riempirsi nuovamente altrove, di ospitare un nuovo spirito e di ricostruirsi come personaggio con una nuova identità.

Negli anni che seguono immediatamente l’atto migratorio – ma non di rado per un tempo ben più lungo – il migrante è vittima di un lutto diffuso, oscuro, di sé stesso e del mondo scomparso. Penso che per lui lo scrivere sia anche parte di uno sforzo inconscio di metabolizzare questo lutto e, se possibile, di capirlo. Il lutto è vissuto da chi è partito ma anche – e a volte drammaticamente – da tutti quelli che sono rimasti, e che dietro il sipario delle illusioni autoimposte vivono quel distacco come una perdita irreparabile. Tanto l’uno quanto gli altri, nel processo di elaborazione del lutto, cominciano a pensare e a sentire la persona assente come soggetto di un percorso concluso, postumo.

Ricordiamo che è parte della natura profonda dell’uomo dividere inconsciamente l’umanità in “vivi” e “morti”. Il migrante rientra nella seconda categoria. Rappresenta “lo scomparso” per tutti i personaggi della sua vita precedente, ma soprattutto, oscuramente, per sé stesso.

2. Il tuo titolo “Letteratura migrante: letteratura mondiale”  fa pensare alla possibilità che dall’integrazione/interazione di varie culture, più che una somma di più elementi, possa nascere qualcosa di nuovo: una terza cosa, per così dire. E’ questo che pensi? potresti parlarci di questo?

Era perfettamente prevedibile che la mondializzazione della soggettività collettiva – in corso attraverso i media almeno fin dagli anni ’50 del secolo scorso – dopo la world music, il cinema, lo sport, sarebbe arrivata anche alla creazione letteraria, come accade da un ventennio a questa parte soprattutto in Europa. La letteratura è una materializzazione, o un epifenomeno se preferisci, di una data sensibilità individuale e storica, e quando questa sensibilità si trasforma e si standardizza, come nella società globalizzata, è naturale che anche la letteratura segua questa tendenza. Per fortuna la standardizzazione finisce per produrre, almeno in questa sfera, i propri anticorpi, e fa sì che una porzione della produzione letteraria si lanci verso territori inesplorati e originali.

Ciò che invece non era affatto prevedibile, e che costituisce secondo me un germoglio quasi miracoloso, è il fatto che sia stata proprio la provinciale, retorica e conservatrice Italia letteraria ad ospitare per prima questo fenomeno di importanza epocale. Bisogna ricordare che quello che potrebbe sembrare, in Francia o in Inghilterra, un panorama precursore delle letteratura italiana della migrazione non è altro che la manifestazione della letteratura postcoloniale in queste nazioni, prodotta dall’élite francofona o anglofona delle loro ex-colonie, dall’Algeria al Pakistan, da Haiti allo Sri Lanka. Invece il fenomeno italiano presenta delle caratteristiche molto diverse, originalissime, che abilitano l’Italia a presentarsi a buon diritto come la culla di questa nuova letteratura mondiale del XXI secolo, una realtà che dischiude potenzialmente un immenso futuro per la letteratura stessa.

Si tratta di una produzione narrativa e poetica reale, spontanea e vigorosa, che va ben oltre le idee utopiche e le divagazioni teoriche di Goethe o di Susan Sontag sulla “letteratura mondiale” . Un’arte che non è stata plasmata in un laboratorio né ordita in misteriose operazioni di marketing editoriale, ma che invece compare sulla scena con la sua verità e la sua forza dirompente, proprio laddove meno si presumerebbe, in Italia, e con opere scritte in lingua italiana. Una letteratura costruita da scrittori venuti da tutte le parti del mondo, dai cinque continenti, dal Sud come dal Nord del pianeta, che hanno riempito le loro valigie e sono approdati tutti nella patria letteraria liberamente scelta da loro, tutti negli stessi anni, per inserirsi felicemente in una tradizione a loro totalmente estranea e poi trasformarla in qualcosa di diverso. Come spiegarlo? Non saprei. Fenomeni migratori collettivi e spontanei di questo genere sono piuttosto difficili di penetrare, sono dei veri e propri enigmi, che a volte sembrano mossi da una sorta di “sincronicità metafisica”. Si potrebbe pensare ai fenomeni “biblici”, come l’Esodo, o come sono stati definiti a loro tempo i grandi Festival degli anni ’60, come Woodstock, nei quali agisce una sorta di potente “forza magnetica” della cultura, nel senso antropologico della parola. Una risposta a questo non potrà venire dai critici letterari o da uno scrittore come me, ma dev’essere proposta a partire dall’intuizione dei sociologi o degli studiosi delle manifestazioni dell’inconscio collettivo.

Il fatto è che oggi, a poco più di un decennio dall’apice di questi spostamenti, l’Italia riunisce nel suo territorio un’invidiabile pletora di più di un centinaio di poeti e romanzieri, qualcuno di grande spessore, e pertanto deve tener testa alla sfida e prepararsi a presentare concettualmente al pubblico interno ma anche a quello internazionale i risultati più espressivi di questa straordinaria fioritura.

So bene che questa visione può sembrare eccessiva, esagerata, ma è questa l’essenza del fenomeno, il suo significato globale, che va oltre il significato a volte modesto di questa o quell’opera. Nei suoi momenti più alti però questo movimento è riuscito a superare le pesanti barriere iniziali di preconcetti, trascuratezza e persino derisione che gli sono state imposte dal sistema letterario italiano. Mi ricordo per esempio di un critico, il poeta Giovanni Raboni, che in un suo articolo del 1998 scrisse a tal proposito che nessuno avrebbe mai letto “questi libri scritti in pig Italian”. E giù di lì. La realtà, tuttavia, si è mostrata ben diversa negli anni successivi, e gli ampi meriti di queste opere stanno iniziando ad emergere e ad essere largamente riconosciuti.

3. In un’occasione hai detto che per te l’italiano è la lingua dell’amore. Cosa significa questa tua bella affermazione?

In uno dei “Seminari degli Scrittori Migranti” promosso dalla Sagarana qualche anno fa, ho chiesto agli scrittori presenti all’incontro, venuti in Italia dal Sudamerica, dall’Algeria, dalla Polonia, dagli USA e dall’Albania, qual era stato il vero motivo per cui si erano trasferiti qui. Le loro risposte, sorprendentemente, non menzionavano difficoltà professionali o economiche, né tanto meno persecuzioni politiche o ricongiungimenti familiari. Parlavano invece, e con grande trasporto, della poesia di Dante e di Petrarca, che leggevano nei loro paesi d’origine, dell’opera lirica, di Puccini e di Verdi, dell’arte di Michelangelo e di Leonardo – uno di questi scrittori era anche artista plastico . In sintesi, parlavano della Bellezza, dell’amore per la lingua e per la cultura, per l’arte e per la storia. A chi li ascoltasse, l’Italia di oggi, con tutti i problemi che conosciamo, potrebbe sembrare una sorta di Eldorado, un luogo magico, un nido di bellezza e di senso del sublime a partire dal quale il loro potenziale, il volto più nobile e delicato del loro spirito martoriato dalle oppressive circostanze che precedettero la loro partenza, avrebbe potuto rinascere e compiere il suo destino.

Quella successione di risposte “elevate” è stata per me allora una vera sorpresa, ma poi, facendo a me stesso la stessa domanda, la risposta mi è sembrata più logica e naturale, perché il fascino in grado di mobilitare fortemente un artista al punto di farlo cambiare vita non può scaturire dalla mera sopravvivenza, dal superamento immediato delle vicissitudini materiali. Dev’essere per forza qualcosa in più, la musica del pifferaio, la prospettiva della felicità, dell’essere in pienezza, del riconoscersi finalmente trasformato in qualcosa che in fondo si è sempre stato.

L’”innamoramento” per la lingua e la cultura italiana mi ricorda un po’ la “patria alternativa” che il Francese ha rappresentato per tanti popoli del mondo fino a un secolo fa, e anche oltre. Si diceva allora che tutti gli uomini avevano due patrie, la propria e la Francia, che era una sorta di “patria dello spirito”, un’immagine che Mitterrand cercò di rinverdire quando era già troppo tardi e la globalizzazione di stampo nordamericano era già egemonica. Ora, quando vedo questo entusiasmo per l’Italiano in tanti paesi del mondo, dal Brasile al Camerun, dalla Cina agli stessi Stati Uniti, dove l’Italiano l’anno scorso è stato il quarto idioma straniero più insegnato nelle università, riconosco nelle risposte degli scrittori della migrazione segni che non appartengono solo a loro, ma che configurano, chissà per quale ragione, una tendenza globale. Forse il mondo ha bisogno di più delicatezza e di emozioni più “alte”? Forse c’è una voglia di ripresa di certi valori classici, della ricerca della bellezza e dell’eterno, in un periodo in cui i punti di riferimento si sono smarriti? È possibile. Comunque sia, è certo che solo una lingua con forte prestigio e carisma, una lingua amata, può diventare il veicolo di una letteratura che migra ostinatamente verso di essa.

4) Vorremmo capire meglio cosa è per te la differenza di cui talvolta hai parlato fra “scrittori migranti” e “migranti scrittori”.

In passato si è creata una polemica inutile intorno a quest’osservazione. Si tratta della constatazione di un fatto semplice e piuttosto ovvio, il fatto che tra le diverse tipologie di scrittori migranti in Italia c’è anche questa possibile distinzione tra quelli per cui l’immigrazione è il fattore scatenante e determinante della loro scrittura – e che quindi hanno cominciato a produrre le loro opere dopo il loro arrivo in Italia -, che sarebbero migranti divenuti scrittori, e coloro che sono emigrati a causa della loro scrittura, la cui identità precedente al loro trasferimento era ormai quella dello scrittore, che avevano già un’opera letteraria evoluta in lingua originale e, in un certo momento del loro percorso letterario, hanno avvertito l’urgenza di trasferirsi altrove, in un altro ambiente con un idioma diverso, proprio per dare proseguimento alle loro aspirazioni, che spesso erano bloccate per motivi di ordine interno, creativo, o ancora più frequentemente di ordine esterno, editoriale, di rapporto con i media, ecc. Questi ultimi sarebbero scrittori migranti. Sono fenomeni molto diversi, per origine, motivazione e percorso, ma entrambi hanno prodotto testi importanti e originali. Bisogna essere ben chiaro sul fatto che in questa mia analisi, nello sforzo di capire queste diverse tipologie, non c’è, e non potrebbe mai esserci, nessun giudizio di valore e nessuna “gerarchia” letteraria o di altro tipo. Si tratta solo del doveroso riconoscimento di una diversità. Sono scoperte che arrivano a partire da una conoscenza più approfondita di questo fenomeno, ad un maggior impegno epistemologico e concettuale. Che ci portano anche a verificare che, per esempio, le opere più direttamente autobiografiche sono da attribuirsi spesso ai “migranti scrittori”, mentre quelle più squisitamente letterarie, più complesse ed elaborate a livello formale, quelle con maggior presenza dell’invenzione, dell’immaginario simbolico, appartengono agli “scrittori migranti”.

5) Infine vorremmo chiederti qualcosa sul particolare “spessore” della letteratura degli scrittori migranti rispetto allo spessore della scrittura della nuova generazione di scrittori italiani.

Cominciamo dagli italiani. Non è una novità per nessuno il fatto che gli scrittori del periodo successivo al “boom” economico non hanno ripetuto, per molte ragioni di carattere soprattutto storico, lo spessore psicologico, politico, esistenziale e letterario, la capacità di trasgressione e di sintesi creativa della generazione che li ha preceduti, quella di Pavese, di Moravia, di Pasolini, di Calvino e di Montale, per intenderci. Ma le cose si sono ancora aggravate dopo il 1989, con l’egemonia del pensiero neoliberale e con la prevalenza delle cosiddette “leggi del mercato”. Con l’eccezione forse di quei pochi autori bravi che hanno vissuto gli “anni di piombo” come esperienza fondamentale, di vita e di scrittura, la maggior parte degli altri ha rinunciato a un progetto “alto” di letteratura, a una visione etica e di spessore estetico, d’invenzione e di rottura, per cadere in una scrittura addomesticata, perbenista o “buonista”, piena di stereotipi e di luoghi comuni nel linguaggio ma anche nella trama e nei sentimenti dei personaggi. Tutto questo sotto l’influsso dell’illusione neoliberale che asseriva che i libri sono come le saponette, sono merci come altre, da vendere a milioni di copie: una parte, anche poco espressiva, di una fantomatica “industria dell’intrattenimento”, ed altre frottole del genere. Così, quando sono arrivato in questo paese, nel 1995, mi sono scioccato e rattristato nel leggere le interviste e gli articoli pubblicati dagli scrittori italiani, abbagliati da un miraggio, da una falsa prospettiva di “successo” e di “divismo letterario”, cercando di emulare le star del cinema e della tv come piccoli dandy logorroici. Una cosa piuttosto patetica. Parlavano solo di contratti milionari, di traduzioni all’estero e assegni di anticipo, di brunch con gli agenti letterari, dei festival più trendy e di percentuali di copyright. Parlavano di tutto, tranne di ciò che è importante.

Vedi, io vengo da una tradizione molto diversa. La letteratura latinoamericana del periodo della mia gioventù è stata la grande responsabile del ripristino della democrazia nei nostri paesi, con grandi costi in vite umane, in esilio, in sofferenze. Scrittori come Cortázar, Neruda, Márquez e la Lispector, ma anche giovani come Abreu, la Pizarnik, Ana César, Pellegrini o Quinteros, i miei contemporanei, hanno prodotto una letteratura allo stesso tempo etica ed epica, di grande valore letterario ma anche furiosamente lucida, quasi suicida. Il loro scopo non era quello di comprare la macchina nuova o di essere applauditi nei ristoranti di moda, ma quello di trasformare il mondo. E l’hanno fatto. Questa è la tradizione delle mie origini, quella che ho portato nella mia “valigia esistenziale” quando sono emigrato in Italia, e che oggi vedo attuante e viva nella nuova letteratura della migrazione, tramandando lo stesso spirito dall’America o dall’Africa in Europa. È questo lo spessore storico che gli scrittori migranti portano qui con loro, e che mescolato allo spessore esistenziale nato dal trauma della migrazione stessa, della “morte governata”, rinnovano la letteratura italiana e mondiale nelle sue tematiche, nella profondità umana e nella verità di quei complessi personaggi e degli “io poetico” dei loro versi, con la forte spinta verso la trasformazione e la denuncia del male in tutte le sue forme, spesso camuffate in manifestazione della “modernità”, di tendenza. Forse il nostro contributo più grande, visto dal futuro, sarà stato quello di aver portato da oltremare, da lontani spazi e tempi, le nostre ferite ancora aperte e le nostre folle speranze. Con questo “materiale” si può fare grande letteratura, credimi. Certo più che con la fissa dei contratti milionari o con le divagazioni oziose dei talkshow in seconda serata.

L'autore

El Ghibli

El Ghibli è un vento che soffia dal deserto, caldo e secco. E' il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno, parola contaminata e condivisa.