Parole dal mondo

Malavika

Si chiamava Malavika. Suo padre era mercante di cardamomo nel Sikkim. Studiava a Bangalore, alloggiava presso un’affittacamere vicino al college.
La cosa strana è che, nonostante si fosse guadagnata voti alti al liceo e fosse arrivata a Bangalore per studiare, non era poi così interessata agli studi. Quale lezione marinare e come farsi segnare presente da un altro; quante classi poteva permettersi di saltare senza andare sotto il minimo consentito, e quali classi saltare per vedere un film alla multisala più vicina – era questo che lei era bravissima a calcolare. Trascorreva la maggior parte del tempo libero a bighellonare per centri commerciali, a parlare a vuoto con i ragazzi – in particolare quelli con capelli lunghi – e a procurarsi informazioni su Bangalore, cosa importante per persone come lei appartenenti a famiglie altolocate. Dove parcheggiare per lo shopping in Commercial Street, quali erano i posti migliori di M G Road per divertirsi, e quali i più economici – o sapeva queste cose, o mostrava un forte interesse per saperle.
Camminava per il campus con l’eccitazione di un animale selvatico, i capelli spuntati che svolazzavano liberi sulle spalle. Si legava i capelli con elastici colorati e a volte ne indossava uno intorno al polso come un orologio. Era capace di messaggiarti giorno e notte e, quando le sedevi davanti, si dava da fare a messaggiare con qualcun altro. Queste erano solo alcune delle cose che notai in lei.
Un giorno mi capitò di andare a donare il sangue con Malavika al Jayadeva Hospital. Il dottore rifiutò di prelevarle sangue poiché il numero dei suoi globuli rossi era basso, e questo la rattristò molto. E, mentre mi trovavo steso sul lettino strizzando lentamente la spugna con la mano da cui veniva prelevato il sangue – di modo che la mano non si addormentasse – mi sorprese vedere il lato più triste della super-luminosa Malavika.
“Triste non aver potuto donare sangue oggi,” aveva detto salendo sul risciò che ci avrebbe riportati al college.
“Il dottore non te l’ha permesso; non potevi farci niente.” Avevo risposto.
Così, la nostra conoscenza diventò, in un certo senso, amicizia. Ogni volta che ci incontravamo ci fermavamo a parlare.
“Non sei diretto come gli altri,” disse un giorno insinuando una mia indisciplina. Come risposta, lessi una poesia intitolata “Sixteen Lines of an Unconscious Person” e cercai di spiegare quanto fosse difficile per gli scrittori seguire la disciplina spasmodica degli uomini d’affari. Ma mi interruppe a metà e mi disse che avrei dovuto scrivere e pubblicare libri e che avrei dovuto prendere seriamente in considerazione di scrivere romanzi. Solamente quando la capacità di una persona viene espressa sottoforma di prodotto o servizio, la si può valutare in denaro – solo le cose con valore economico possono avere un valore. Capii che questa filosofia era dietro ogni sua parola e azione. Non riusciva a vedere nessun valore dietro questo valore, e anche se ci fosse riuscita, come tutti quelli che avevano assorbito i valori decadenti del capitalismo, aveva sistematicamente smussato la sua sensibilità per non essere coinvolta da nessuno di quei valori. “Non dovremmo lasciare che i nostri sentimenti fluiscano ovunque. Perché andiamo al cinema? Ci sono luoghi precisi dove esprimere i nostri sentimenti: dovremmo esprimerli solo in quei luoghi.” Anche se non lo diceva mai con così tante parole, era quello che intendeva ogni volta che mi dava consigli sulla mia “indisciplina emotiva”. A causa di questo suo atteggiamento, esitavo nel parlarle. Dubitava e sospettava che non rispettassi le regole di mercato che lei adorava tanto.
Un giorno, ci fu una funzione presso l’organizzazione non governativa gestita dal nostro college. Dopo la funzione, noi volontari che avevamo lavorato al programma cenammo in un ristorante vicino al college. Mentre mangiavo, sopportando gli scherzetti idioti dei volontari, mi arrivò un sms da Malavika. “È un’ora che piango. Non so perché. Non ce la faccio più.”
Poiché la sua sistemazione era vicina al college, le risposi. “Sono da Sukh Sagar, accanto al college. Esci, ti prego. Che ti è successo, così all’improvviso?” La sua risposta: “No. Lo sai che non posso uscire dopo le otto di sera. Il padrone di casa non me lo permetterebbe. Sto meglio. Non preoccuparti.”
Inviai un messaggio con scritto “Prova a venire,” e la chiamai immediatamente. La sua voce era più tranquilla del solito.
“Non è niente. Stavo solo piangendo. Ci vediamo domani” disse, e riagganciò. Quella sera tornai a casa e, per renderla felice, le scrissi una poesia per sms. “Scrivi così bene. Mi è piaciuta davvero,” rispose.
Quella notte feci un sogno.
Malavika, come l’epitomo della femminilità, sedeva con indosso il maglione ricamato e i jeans. Mentre era seduta, arrossendo e con la testa bassa, riempiendo le labbra carnose di un sorriso timido e silenzioso, il suo intero corpo si trasformò in acqua, e lei divenne un laghetto freddo e ricoperto di alberi nella radura di una foresta. I riflessi sul laghetto – ombre su ombre – si dissolsero lentamente diventando un tutt’uno con il profondo silenzio delle acque. Quando il mio sguardo catturò tutto questo, mi colse un’ansia indescrivibile e, barcollando sulla sponda del laghetto incapace di restare in equilibrio, vi caddi. Ero talmente spaventato che non riuscivo né a nuotare né a respirare, e con la testa in basso e le gambe in alto, mi divincolavo nella profondità delle acque. Quando mi svegliai riuscii a vedere il mio riflesso nel laghetto. Ero un bambino di tre o quattro mesi e il laghetto era pieno della felicità del mio sorriso e della meraviglia dei miei occhi.
Sentii il vero impatto del sogno al risveglio. Sentivo l’intero corpo spezzarsi con un desiderio primordiale. Come se le bocche dei pesci fossero apparse tutte intorno al mio corpo e stessero annaspando per respirare. La mia mente era piena di uno strano dolore e desiderio. Feci un bagno e, avvolgendomi nell’asciugamano, sedetti tremante sulla sedia, e mi chiesi perché proprio a me un sogno del genere. Rimasi a lungo seduto in quel modo. Riuscii solo ad annebbiarmi la mente con la confusione, senza trovare risposta.
2.
Il giorno dopo incontrai Malavika durante la pausa pranzo. Sedemmo su una panchina. Era tanto che non parlavamo. Sembrava esserci una più grande intimità nel silenzio piuttosto che nelle parole, cosa che arrivò con il suo carico di bagaglio psicologico. Almeno fu lei a prendere la parola.
“Ti sei mai sentito così? Come se la vita avesse perso all’improvviso di significato: come se ogni cosa fosse diventata priva di senso, senza un perché… Una sensazione profonda e straziante di non sentirtela più di vivere. Capisci cosa dico?”
Annuii lentamente.
“Una sensazione di dolore assurdo, una condizione d’insensato stupore. Ieri stavo così. Niente aveva più senso per me.”
Confuso, senza saper cosa dire, sedetti fissandomi le dita. Non si trattava di qualcosa che richiedesse la mia comprensione. Le parole non avevano senso di fronte al grande terrore della sua crisi esistenziale. Ma per lei era importante sentirsi consolata. La guardavo: era seduta lì, con il volto di chi si fidava ma continuava ad avere dubbi. Era preoccupata per ciò che aveva appena detto e fremeva d’insicurezza. Io, che non la toccavo mai, le accarezzai la guancia come fosse quella di un bambino.
“Non aver paura. È un periodo che attraversiamo tutti. Ne uscirai più decisa e più forte. Andrà tutto bene,” le dissi prendendole la mano per rassicurarla.
Nonostante sembrasse rincuorata da ciò che le dicevo, il suo volto era pieno di dubbi.
“Ma perché sta succedendo a me? Sono uguale agli altri. Non penso mai troppo, né mi preoccupo. Sono onesta nel mio lavoro. Perché, allora, questa sofferenza – per cosa sono punita?” chiese.
“Perché? Non ho una risposta,” replicai. Ma sentivo che una risposta c’era. All’improvviso mi sentii catapultato dentro me stesso da una strana forza e penso di aver avuto un black out per qualche secondo.
“Vedi, c’è una profonda mancanza d’amore nel mondo.” Esordii con una voce inusuale persino a me. “Come tante persone che si sono adattate alle condizioni disumanizzate del sistema capitalistico, anche tu hai perso la capacità di amare qualcuno con tutto il cuore; di accettare qualcuno con tutta te stessa. Mentre una piccola parte del tuo cervello mostra un po’ di amore e comprensione, il resto è impegnato a calcolare come un uomo d’affari. Sprechi più energia a giudicare e a valutare le capacità di una persona che ad amarla. Questa pazzia aumenta quando non hai più nessuno da giudicare, e cominci a giudicare te stessa. Siamo più sotto il controllo dei nostri istinti e sentimenti irrazionali che dei nostri pensieri razionali. Facendosi sempre più sofisticata, quella dotata di intelligenza e acutezza mentale sopra ogni cosa – trascurando tutto ciò che la rende umana – soccombe alla tragedia.
I sentimenti non sono debolezze – sono segno della nostra umanità. Non averli non dimostra la nostra forza, dimostra la sterilità del nostro cuore. Ignorando e screditando le proprie emozioni, colei che lavora giorno e notte come una pazza con un esagerato senso della propria forza, affronta l’insignificanza a causa di questa intossicazione di potere. Quando inizia a dare importanza a una parte della propria personalità e inizia a ignorare gli altri aspetti, diventa psicologicamente handicappata. Nessuna mania di consumo può colmare il vuoto creato da questo handicap. L’estrema prontezza, causata dalle pressioni della civilizzazione, blocca l’intera crescita di un essere umano; anche se si vanta di essere superiore a chiunque altro, perde l’essenza interiore di pace e, appena se ne rende conto, ha già percorso buona parte del cammino verso lo squallore e l’autodistruzione.”
Restò a lungo in silenzio. Stava strappando piccoli pezzi di pagina del suo diario piegandoli in pezzi ancora più piccoli per poi gettarli davanti alla panchina. In terra, attorno ai suoi piedi, era pieno di questi piccoli pezzi di carta ripiegata.
“Ho iniziato a fumare; riesco a fare solo ciò che penso mi sia facile. Quello che hai detto…” si zittì.
“Sì, per me non è così facile voler bene alla gente,” disse.
Non volli replicare. Prese l’accendino rosso e, mentre lo accendeva due volte, iniziò a ridere forte. Guardandole i nei sul mento, sul labbro superiore e all’angolo della sua morbida bocca, sorrisi anch’io.

Traduzione Erika Orlandini

L'autore

Ankur Betageri

Ankur Betageri (1983) è un poeta, scrittore, fotografo, traduttore, e attivista artistico indiano. Indicato come uno dei dieci migliori scrittori nazionali dall’Indian Express, ha rappresentato l’India, come poeta, alla terza edizione degli International Delphic Games di Jeju, Corea del Sud (2009), e al Lit Up Writers Festival di Singapore (2010). È considerato uno tra i più versatili poeti di lingua inglese e kannada e un apprezzato autore di racconti, caratterizzati sia da un estremo realismo che da metafore surreali e capaci di mostrare sia gli aspetti rurali che quelli urbani della società indiana. È, inoltre, fondatore della piattaforma Hulchul, conosciuta per la valorizzazione delle installazioni artistiche e della poesia performativa.
Ha tradotto opere di P. Lankesh, Edgar Allan Poe, Fernando Pessoa, Marin Sorescu, Arthur Rimbaud, Pablo Neruda, Pier Paolo Pasolini.
È autore di The Sea of Silence (2000), Hidida Usiru (2004), Idara Hesaru (2006), Haladi Pustaka (2009), Bhog and Other Stories (2010), Malavika mattu Itara Kathegalu (2011), Basant Badal Deta Hai Muhavr (2011), The Bliss and Madness of Being Human(2013).