Dal balcone dell’eternità si scrutano molteplici orizzonti che si fanno spazio tra le pieghe della memoria, proiettandosi verso prodigiose scoperte. Dagli spazi insondabili del passato, affiora al contempo una strana musica intrisa della forza dei cicloni caraibici, dei terremoti e dei grandi soffi marini, dove si dispiegano i tormenti dei continenti e della storia al ritmo anche della lingua creola. Ci si perde nella complessa attrazione di questa sinfonia che si apre alle vestigie di ciò che è stato, alle turbolenze del presente e ai brividi dell’avvenire. Conduce, inoltre, lo sguardo di chi vi assiste a perdersi, come durante la navigazione su una zattera, nell’oceano dei ricordi, tra forme improbabili ed universi impensabili, al limite dell’ineffabile, in modo da cogliere, come punto di possibile approdo, le vibrazioni diversificate della musica dei secoli, fattasi anche parola.
Veicolo di tali riflessioni è il romanzo La Souvenance di Ernest Pépin, voce considerevole nel panorama letterario internazionale e dell’isola di Guadalupa. Con infinita delicatezza lirica, l’autore si pone sulle tracce di André Schwarz-Bart, scrittore francese di origini polacche ed ebraiche, vincitore del Prix Goncourt nel 1959 grazie al romanzo Le Dernier des Justes. Il testo intende rendere omaggio alla recente testimonianza autobiografica prodotta dalla scrittrice e drammaturga di origine guadalupa Simone Schwarz-Bart, sua consorte, per le Éditions de Grasset, Nous n’avons pas vu passer les jours.
Attraverso un romanzo considerato allo stesso tempo racconto biografico romanzato e ode poetica, Ernest Pépin si impegna a delineare un percorso simbiotico di edificazione di intenti letterari condivisi, ponendovi al centro due coscienze dalla memoria sia ebraica che antillana. È la sua verve narrativa ad alimentare, in letteratura, il modellarsi di una compenetrazione di anime, quella di André ferita dall’esperienza della persecuzione nazista con quella di Simone, alla ricerca di un’identità storica caraibica ben salda.
Tuttavia, un’altra volontà vibra nella corde narrative del poeta. La tensione reiterata nell’essere ancora una volta alla ricerca della parola, dell’espressione più adeguata a descrivere l’energia sottesa all’universo della Guadalupa, non soltanto sua terra natale, ma domicilio un tempo prescelto, all’interno dell’arcipelago, da parte dei sopraccitati autori[1]: « Cette parole sans devant ni derrière n’a pas d’auteur connu et je crois bien qu’elle prend sa source dans la mangrove inextricable de l’imagination sans maman de ceux qui charroient le diable par la queue. Orpheline donc et venue de nulle part, elle prétend partager avec vous les amours extraordinaires des dénommés Simone et André. Cela vaut la peine d’être écouté et plus encore entendu car jamais, il n’y eut du la terre du bon Dieu des personnes pareilles. […]». Parola che vale la pena di essere ascoltata poiché mai ebbe dalla terra del buon Dio simili persone.
La narrazione di Ernest Pépin trova fertile terreno in un linguaggio che attinge ad una forza lirica straordinaria, costituendo, dunque, un intreccio imprescindibile di prosa e poesia.
Lo slancio poetico si rafforza al momento della raffigurazione dell’isola, facendosi più ampio e luminoso dinanzi al delinearsi di ciò che viene osservato come un arcipelago dei dolori : «La Guadeloupe dit-on est l’archipel des douleurs. Elle cache derrière ses bois une âme de résistance. […] Parfois, venus de loin, on perçoit les ronflements du temps de l’esclavage quand la mer, toujours inquiète, déroule ses rouleaux comme des tambours de guerre. Elle danse sur la pointe de ses vagues….». Il narrare di Ernest Pépin, divenuto verso, inquadra l’anima di una terra resistente ai ronzii del tempo che definisce, nell’imagine dei battiti di un tamburo di guerra inquieto come la forza del mare, anche i meccanismi di un passato di schiavismo.
Da luogo della memoria, della rimembranza, della Souvenance, l’isola si fa Maison des Illustres in grado di inglobare, nonostante tutto, due traiettorie convergenti verso un unico monito di speranza.
Come Ernest Pépin dichiara nelle pagine dedicate a André Schwarz-Bart, l’uomo nella generosità della scrittura e nell’attenzione dedicata alla sua stessa realtà attraverso di essa, non lavora per sé, ma vi riversa un desiderio di abbattimento di barriere, di confini, con l’intento di proiettarsi verso l’ampliamento di orizzonti universalmente condivisi, dove ci si possa rendere testimoni di tali tracce di vita.
[1] Loïc Céry, En quête de la parole: Ernest Pépin dans la Souvenance des Schwarz-Bart, Mediapart, 29 Novembre 2019.