Recensioni

Non c’è dolcezza

Anilda Ibrahimi
Non c’è dolcezza
Einaudi 2012

«La vita è una ruota che gira senza fine,
e in quel movimento succede di tutto,
si mischiano i destini e uno si trova
con una vita non sua all’improvviso»
A. Ibrahimi

Anilda Ibrahimi, autrice di origini albanesi e da tempo residente in Italia, rientra tra gli esempi di scrittura migrante femminile che si è imposta sempre più nel panorama letterario italiano. La cultura e la scrittura hanno rappresentato, per le donne migranti, l’uscita dal tunnel dell’invisibilità e dell’anonimato, dagli stereotipi di genere che relegano la donna ad un ruolo inferiore rispetto all’uomo. La donna che decide di esprimersi attraverso la scrittura, sceglie per sé e per la propria vita, non accettando, in maniera impassibile, un destino voluto da altri e un ruolo subalterno che la società ha pensato per lei. Narrare rappresenta un’esperienza di riscatto e di rivalsa, di ricomposizione di tutti i frammenti disseminati e sparsi qua e là.

L’autrice ha scelto l’italiano come lingua per le sue narrazioni anche perché, come lei stessa sostiene, dopo aver viaggiato tanto in Europa, ha perso l’orecchio per la sua lingua madre[1]. L’italiano «è la lingua della quotidianità e dei miei figli», sostiene, «è stato l’italiano a scegliere me»[2]. Il pubblico che ha in mente per i suoi libri è quello italiano, anche se, in realtà, alcune delle espressioni usate all’interno dei suoi romanzi mostrano una forte affinità con la sua lingua madre, l’albanese, mescolando lingua e cultura in una splendida armonia per dar vita ad un «italiano albaneggiante»[3].

Il romanzo Non c’è dolcezza[4] è la storia di due donne, Lila ed Eleni, amiche da sempre, nonostante la diversità di carattere.

Lila è una donna forte e caparbia, pronta a tutto per realizzare i propri sogni; Eleni, più remissiva, accetta passivamente gli eventi del destino. Amano lo stesso ragazzo, Andrea, ma la loro amicizia rimane indissolubile. Un giorno, una vecchia tzigana legge le loro mani: «Trascorrerete lontane molti anni delle vostre vite, tagliente sarà la nostalgia […] Poi i vostri destini si riuniranno come due ruscelli d’acqua che si gettano nello stesso fiume»[5]. Il destino sembra allontanare le due amiche, così come previsto dalla tzigana. Infatti, Lila va a vivere nella capitale, sposa Niko, fratello di Andrea, e ha tre bambine; Eleni rimane nel villaggio di Urta, sposa Andrea, il ragazzo amato sin da bambina, e accetta di vivere un legame senza amore, perché Andrea rimane ancorato inesorabilmente alla prima moglie:

Mandeta,-sussurra Andrea,- Mandeta mia, sei tornata. Eleni stringe i pugni come in una resa disperata. Poi si avvicina ad Andrea e lo abbraccia[6].

Per un capriccio del destino, Eleni e Andrea non riusciranno ad avere figli, mentre Lila rimane incinta per la quarta volta, ed è certa che sarà un’altra femmina. In nome dell’amicizia che la lega ad Eleni decide, nonostante le titubanze di Niko, di cedere la bimba in arrivo all’amica. In realtà nascerà un bambino, Arlind, e Lila entra in un profondo stato di crisi, dovuto all’amore viscerale per il figlio, che vorrebbe sempre con sé.  Passati tre mesi, decide comunque di rinunciare a lui e di non venir meno alla promessa fatta ad Eleni. Questa scelta cambierà irrimediabilmente la sua esistenza:

Lila era distante, persa in un posto irraggiungibile e ospitale, dove non nevicava mai eppure il gelo la faceva da padrone. Né vento, né pioggia, in cielo nessun volo d’uccello, nel cuore solo l’attesa[7].

Lila vivrà nella tristezza, svilendosi sempre più dentro una vita ormai priva di senso che la condurrà alla morte. In realtà, lei era già morta nel momento stesso in cui aveva ceduto la propria creatura:

Ho lasciato il mio bambino, − ripeteva lei senza sosta, − l’ho abbandonato, e io sono ancora viva. Ma che viva? Sono morta anche se non sono sepolta![8]

Non è possibile cancellare il legame, di sangue e affettivo, che una madre ha con il proprio figlio. Lila soffre, passa mesi e anni in profonda depressione e tutta la sua famiglia ne risente fortemente, in particolar modo Niko, ma anche le altre figlie. Pure Eleni soffre, non riesce ad accudire e allattare Arlind, e dovrà rivolgersi alla tzigana Hava, consumandosi sempre più nella consapevolezza di non essere la vera madre del bambino.  Gli anni passano, Lila torna più spesso a Urta per trovare il “nipote” al quale dedica attenzioni, sorrisi e abbracci continui mettendo da parte la sua famiglia e le figlie, ma è ciò di cui ha bisogno per stordire il dolore, anche se «è il dolore l’ombra che ti resta attaccata per tutta la vita»[9].  Arlind sente un profondo legame con la “zia” Lila e con lei si trova a proprio agio, parla, si confida. Lila sogna la morte che arriva:

Avrebbe voluto salutare un’ultima volta il suo bambino, ma evidentemente la vecchia signora aveva urgenza […]. Lila aveva sentito i passi. Passi leggeri che stavolta non l’avevano ingannata. E allora aveva sorriso[10].

La morte la libera da quell’eterno senso di assenza che, nella vita, è troppo pesante da sopportare. Come la tristezza a un certo punto domina la vita di Lila, così sarà per Eleni che vivrà nella costante paura di perdere Arlind.

Il piccolo mondo che a fatica si era creata, miseramente crolla a pezzi. Arlind, che aveva provato una profonda sofferenza di fronte alla morte improvvisa di Lila, un giorno scopre la verità e, col benestare di Eleni e Andrea, va alla ricerca del padre insieme alla sorella ritrovata. Il romanzo termina lasciando dietro di sé malinconia e inquietudine, un senso di vuoto, incompletezza e abbandono:

Arlind ha sempre vissuto in attesa di qualcosa. Gli sembrava che gli mancasse sempre un pezzo, in ogni momento. Guardava la grande torta che sua madre gli aveva preparato per il compleanno e pensava che mancasse un ingrediente che l’avrebbe resa migliore e così non gli andava più di mangiarla. E anche la tazza di latte che gli portava Eleni al mattino era sempre insufficiente, mancava il resto rimasto nella pentola. Ma poi non riusciva nemmeno a finirla e ci immergeva il gatto. Tutti dicevano che era viziato, ma lui non si sentiva viziato. Piuttosto, incompleto[11].

Egli, «si trova con una vita non sua»[12], con un inganno che si era protratto nel tempo provocandogli vuoto, sofferenza e un senso di inspiegabile incompletezza:

Bugiarda è la vita anche per lui. Con lui sono stati tutti bugiardi. La madre che lo ha partorito e che lo ha dato via per uno stupido sogno e una stupida promessa. Anche l’altra madre che lo ha cresciuto, in quel silenzio che copriva i loro giorni come un mantello pesante pensando di ingannare il destino. Tutti sono stati bugiardi. Tranne il latte di Hava. Il soffio di quella lingua sconosciuta che lo avvolgeva all’alba mentre lui suggeva affamato, l’odore del suo corpo di madre annusato quando lei lo cullava. Solo questo è stato vero[13]

Ritorna imperiosa la questione identitaria: dopo aver scoperto la verità, l’identità familiare di Arlind si frantuma dolorosamente. Il destino ha manipolato anche la sua esistenza. Paura, incertezza e infelicità dominano le vite dei protagonisti come «viaggiatori avvolti nelle pieghe di quella scomoda coperta che si chiama vita»[14].

Una storia cruda e sottile allo stesso tempo, a tratti tagliente e implacabile che mette in primo piano un percorso identitario non privo di ostacoli e i legami, soprattutto quelli fra donne, che sono sempre i più complessi. Neanche l’amore per lo stesso uomo, la condivisione di un segreto opprimente come un macigno, l’evidente disparità sociale riusciranno a gettare un’ombra sull’amicizia di Lila ed Eleni. Spezzare il suo legame di madre con il proprio figlio permetterà a Lila di salvaguardare la reputazione di Eleni, donna sposata ma senza figli, e tenere ancora saldo il loro rapporto.

Lila, nella sua personale battaglia di donna, rappresenta il riscatto e l’ambizione di molte donne albanesi, la loro forza di volontà e la necessità di emergere dall’abisso di una società che, seppur in misura minore rispetto a tanti altri territori anche dell’Occidente, privilegia l’uomo. Lila, ancora una volta, è una figura dominante anche nella sua relazione coniugale con Niko, fino ad assoggettarlo ad una scelta dolorosa: «Niko stringe i pugni finchè le nocche non sbiancano. Lila non cambierà idea»[15] Questa scelta è anche legata alla promessa che Lila ha fatto ad Eleni, quella parola data, la besa, istituita dal Kanun, un codice culturale rispettato in alcune parti dell’Albania. Si tratta di un elemento importante della cultura albanese e ricorrente in altri romanzi, come in quello di Carmine Abate, scrittore italo-albanese, Il ballo tondo. Sia in questo romanzo che in quello della Ibrahimi, il perno centrale della storia è lo stesso: una promessa da mantenere, nonostante le difficoltà e le complicanze che da ciò possono derivare.

In Non c’è dolcezza è forse la cultura, rappresentata dalla “besa”, alla base della sofferenza delle due amiche? Un messaggio sotteso, quello di un codice culturale forse eccessivamente oppressivo, che si ritrova anche in altre opere di scrittori albanesi, come in La vergine giurata di E. Dones all’interno del quale la protagonista, proprio per effetto della legge del Kanun, è obbligata a travestirsi da uomo e assumerne i ruoli sociali. Vi è però una svolta rispetto ai personaggi di A. Ibrahimi: mentre Lila manterrà, pur nella sofferenza, la parola data, la promessa ad Eleni, Hana, la protagonista della Dones a un certo punto si opporrà alle leggi culturali e partirà per l’America.

Le tzigane, appartenenti al popolo Rom dei paesi danubiani, hanno un ruolo significativo nel romanzo, sin dai suoi esordi:

Arrivano gli tzigani, arrivano gli tzigani! − grida Lila nel cortile di casa pronta per uscire, il grembiule nero addosso e la cartella in mano. […] Dobbiamo trovare la tzigana dell’anno scorso, − fa Eleni a Lila. − Mia madre dice che lei non ha mai sbagliato una volta. […] Poi la vedono, seduta su un tappeto di paglia scuro. […] Che volete sapere? − chiede loro, mentre l’altra donna si allontana asciugandosi gli occhi. Quello che è scritto, risponde Lila con voce sicura. […] E va bene, − ride la tzigana. − Vediamo, − e prende la mano di Lila. Trascorrerete lontane molti anni delle vostre vite, tagliente sarà la nostalgia, − dice. Poi i vostri destini si riuniranno come due ruscelli d’acqua che si gettano nello stesso fiume. […] Che altro si vede? − fa Eleni impaziente. […] Sposerai colui che hai sempre amato, ma… […] colui che non ti ha mai sognato […]. Una ninnananna crudele attraverserà la sua vita, − sussurra la vecchia indicando Lila a una giovane tzigana al suo fianco. − Una ninnananna accanto a una culla vuota. Il suo bambino morirà? − chiede con apprensione la giovane tzigana. No, Hava mia, no intreccerà le sue radici lontano dal grembo della madre. […] Sapevano di muschio le sue parole. Di erba impastata con la terra dopo la pioggia[16].

L’atmosfera di mistero e il segreto che legherà per sempre le due donne viene affidato alla bocca di una tzigana, figura a tratti profetica, che prevede il destino implacabile per le due amiche. Le tzigane simboleggiano il forte legame di solidarietà che unisce le donne, il senso della condivisione che fortifica di fronte alle avversità della vita. Infatti, di fronte allo struggimento di Eleni per non poter allattare Arlind, la tzigana Hava si fa avanti per aiutare la donna in difficoltà, e sarà lei a dare il latte al bambino al posto di Eleni:

Hava prende Arlind dalle mani di Theodora e lo accosta al seno. Non si attacca subito, ma sentendo il calore del petto comincia a cercare con la bocca. Si agita. Hava lo aiuta avvicinandogli il capezzolo alla bocca. Finalmente riesce. Succhia con gli occhi aperti e lucidi. Sembra fissare il seno scuro di Hava. È la prima poppata da quando sua madre non c’è più. Lei lo stringe tra le braccia. Lui non vuole più staccarsi. […]. Nei giorni successivi è Hava a salire fino a casa loro. A volte si ferma lì per tutto il giorno. I due bambini dopo le poppate dormono nella stessa culla, uno chiaro e l’altro scuro[17]

È un romanzo di sentimento, un romanzo vero, di sensazioni impetuose e sofferenti, a tratti triste e a tratti coraggioso che scava nell’interiorità dei personaggi presentandone l’esistenza ingenerosa e amara: una vita dove non c’è dolcezza, perché «la nebbia dei ricordi non si dirada mai del tutto»[18]e il vuoto e l’assenza si intrecciano con trame così fitte da non lasciar filtrare più nulla, se non il rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere e che non è stato, a causa di un destino che ha giocato ininterrottamente ed inesorabilmente con le vite di tutti.

«La vita ha mille porte che conducono dappertutto e da nessuna parte. Passaggi nascosti dove si cancellano le vite e le persone diventano spettri senza tombe»[19]


[1] Si veda: https://www.literaturfestival.com/autoren-en/autoren-2010-en/anilda-ibrahimi
[2] http://www.letteratura.rai.it/articoli/anildaibrahimi-quando-arrivavano-glitsigani/16165/default.aspx
[3] http://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Rosso-come-una-sposa-42207
[4] Ibrahimi, A. (2012). Non c’è dolcezza. Torino. Einaudi
[5] Vd. IBRAHIMI 2012, cit. p.
[6] Ivi, p. 230
[7] Ivi, p. 13
[8] Ivi, p. 130
[9] Ivi, p.166.
[10] Ivi, p. 128.
[11] Ivi, p. 209.
[12] Ivi, p. 210.
[13] Ivi, p.180-181
[14] Ivi, p. 165.
[15] Ivi, p. 73.
[16] Ivi, pp. 3-7.
[17] Ivi, pp. 85-86
[18] Ivi, p. 16
[19] Ivi, p. 216

Luisa Emanuele

L'autore

Luisa Emanuele

Nata a Catania nel 1975, vive per un periodo a Nicosia (En), dove compie i propri studi fino al conseguimento del diploma liceale. Nel ’94 si iscrive all’Università degli studi di Catania e nel ’98 si laurea in Lettere moderne. Nel 2011 consegue una seconda laurea in Filologia moderna, e nello stesso anno collabora con l’Università di Catania, con il ruolo di assistente alla cattedra di Letteratura comparata. Ha frequentato diversi master e corsi di specializzazione, acquisendo competenze nell’ambito della letteratura italiana e delle letterature antiche. Dal 1998 è docente di italiano e latino presso istituti di istruzione superiore, e dal 2008 è insegnante di ruolo presso il liceo scientifico “E. Boggio Lera” di Catania. Attualmente sta conseguendo il titolo di Dottore di ricerca, lavorando ad un progetto sulla letteratura migrante.

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