Racconti e poesie

Silloge (parte II)

11)
La larghezza della tua schiena
sopporta sempre le mie indecisioni.
Se oggi piove – dopo molto – lo devo
a te che mi apri le palpebre, e gli occhi,
e fai grondare le mie convinzioni
di sotterrate purezze nella camera
da letto, quella che avevamo, che ora
anche qui abbiamo, ma è diversa, certo.
Non è la stessa larghezza che ci apparteneva,
più piccole le mani, più piccole le idee,
ma i sogni ingigantiscono i giorni lontani,
quelli dove i ricordi si mangiano a stomaco
vuoto, con i crampi che scolpiscono il domani.
Se la notte respiro male è per l’aria che brucia
lungo il tunnel dove la mia voce si dilata.
Il tuo gomito mi salva dall’apnea notturna.
Se mi giro ti ritrovo intatta, cristallizzata
nell’amore che mi ha voluto: ho desiderato
essere il tuo primo amore, poi l’ultimo.

12)
Non è qui che si celebra il vacuo
della quotidiana e manesca follia.
Non qui, non ora, in questo taglio
che finalmente si lacera di luce.
Vorrei nascondermi dal male, amen,
ma non posso abbassare la testa
a terra, dove gli occhi si fanno neri
come la terra che piangono amara.
Sentire il fiato di una giornata finita
nel docile attimo della buonanotte
del sole, quando saluta la tua bocca
e tutte le palpebre si fanno chiuse.
Penelope , per un attimo le mani
intrecciano il tempo lungo la tela,
lungo gli istanti dilatati dai sospiri
così vani che i giorni sbattono le ali.

13)
Cosa importa al mondo
se ascolto il mare in una conchiglia
o il tuo sospiro dall’angolo della casa.
Non è il mondo il mondo intero,
se destinati siamo a vita eterna, o morte
apparente, solo Dio ci conoscerà,
o ci conosce già.
Cosa importa al mondo
se del mio amore ne faccio un mausoleo
o di notte apro la gabbia
per rincorrere i fuochi del sogno.
Ma cosa importa al mondo
se carbone è la pelle di chi mi ama
o di lavica pietra le sue ruvide mani,
o se la donna abbraccia la donna, il bimbo,
o l’uomo sfiora la mano dell’uomo,
cosa importa.

14)
Anche questo è ritrovarsi.
Vederti dormire nello spazio del tempo
dedicato alla nascita di una nuova parola.
Momento, il silenzio si fa discorso per
Noi. Le infiltrazioni d’acqua sulla zattera
non porteranno sempre serenità impensata.
Eppure abbiamo imparato a nuotare le onde
e capire quando è ora di far finta di annegare.

15)
Non pretendo di appartenerti
come perla alla conchiglia
ma di morire nelle tue rughe future
per ritrovarmi giovane, e sentire
le mie stesse rughe benedire la vecchiaia.
Un giorno lo pretendo, perché ho smesso
di crearti nell’istante che ti ho avuto
e ho sorpreso i miei dubbi origliare
dalle porte del reale.
16)
Certe nuvole
amano scherzare,
oppure chiedere
mentre assisti all’infinito
da una finestra di metallo,
finita per centimetri di materia
ad essere cornice di un solo cielo.
Guardando bene c’è un albero,
tutto nero come la notte annunciata,
dietro esso una -camaleontica-
distesa di domande affaccendate
a trovare risposte sopra continenti.
Non ci sono. Non ce n’è,
questo dice quel Signore,
risposta alcuna non c’è.
17)
È parlando dell’amore perso
che si arriva a comprendere
il tempo, lo spazio, l’attimo
di vita tra qui e l’Universo.
Quando non amavo, credevo
alla vita: ma era solo l’ombra
di un desiderio futuro.
Quando ti ho amata, ero vita,
credevo di avertelo detto:
eri tutto l’amore di quel futuro.

18)
E starò a guardare
i tuoi occhi lanciarsi
per i pendii desolati
dei miei sogni fumanti:
tu, ferrosa gaiezza di me.
Se per nulla lottammo
questo è il tutto che desidero
di noi, cigni umidi baciati
dall’unguento d’acqua fiumana
che discioglie queste aride zolle
dove la vita rimase incastrata.

19)
Vivere con te
è vivere sempre,
ma sempre vivere
con il terrore
della tua assenza.
Se sacra certezza avessi
di poterti guardare
fino all’ultimo dei giorni,
riscoprirei nei solchi del tuo viso,
nelle dilatazioni del tempo,
i nostri occhi sempre uguali.
Se avessi questa sacra certezza
potrei pensare anche di sorridere
alla morte, poiché avrebbe paura
dei nostri intimi accordi d’amore.

20)
È per l’ubriachezza dell’assenza
che ci ricordiamo di vivere sempre.
Per quel momento dove il fiato s’arresta
e le mani si fanno pianura di ghiacciaio.
Poi, si risanano le memorie come lunghe
orazioni da fissare sul piano del marmo.
E sappiamo – finalmente – d’essere soli
nell’eterno esistere della nuda presenza.
La bellezza ci richiama, di lacrimazione
contaminata, a riordinare immagini remote.
Il muretto della casa – sopra il quale la mia mano
posava – sentiva il calor fatuo del sole di giugno,
e racchiuse in sospensione l’estate a mezzogiorno.
Un procedere d’intermittenze l’upupa ci donava.
Tuttavia, risiede quell’istante di dolcissima apatia
nei sempre celesti angoli del profondo ricordare.

 

L'autore

Valentina Callista

Nata a Roma il 22 giugno 1983. Attualmente è PhD Scholar in Italian Studies alla University of Reading (UK) che la vede impegnata in un progetto di ricerca sul discorso biblico e mistico nella poesia italiana contemporanea con focus sulla poesia di David Maria Turoldo e Alda Merini. Gestisce il suo blog personale dove pubblica i suoi testi (valentinacalista.wordpress.com).
Premio Palmaria giovane, poesia inedita 3°posto (2006), Premio Claudia Fioroni, poesia inedita 1°posto (2003), Premio Gianfranco Rossi per la giovane letteratura, segnalazione di merito (2011).

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