Parole dal mondo

Le vesti acquee

1

Nel mare, sempre mutevole, che sempre ridefinisce la sua forma, i subacquei sentirono la vita palpitare attraverso i loro corpi, quando si tuffarono giù in quel vasto mondo in cui esisteva ogni tipo di vita, di luce e di colore. Quel mondo sottomarino era ricco e variegato quanto quello soprastante. In tre andavano e non avevano bisogno di parole, solo di gesti e segnali che tutti loro istintivamente capivano. Ogni cosa là sotto si faceva incorporea, si muoveva lenta, i subacquei erano come ombre, spogliati del volto, nascosti dietro maschere, la pelle nascosta dietro mute, la bocca celata dall’apparecchio per la respirazione, cilindri di ossigeno che rendevano la schiena bitorzoluta e arrotondata. La strana rifrazione della luce; onde di suono soffocate dalla gloria attutente dell’acqua e dallo spazio senza ostacoli. Banchi di pesci guizzavano qua e là, indisturbati dai tre subacquei, che li guardavano affascinati. Di tanto in tanto un pesce dalla sagoma bizzarra, un’apparizione affusolata, passava rotolando e ne seguivano due o tre, perfette repliche l’uno dell’altro, cloni, momenti ricorrenti; le loro forme diafane, distorte, spingevano i subacquei a pensare che il mare contenesse più misteri di qualsiasi altro regno terrestre. Le verità e i sentimenti che si trovavano laggiù non si potevano comunicare a nessuno che non vi fosse stato, in quello scuro abisso luminoso, in quell’astratto giardino sotto il mare.

Uno dei subacquei indicò una conchiglia rigonfia, seminascosta da un arboscello che emanava una luce flebile. L’arboscello sembrava rivestito di una sostanza fosforescente e il più alto del trio estrasse la conchiglia, che somigliava a un orecchio umano allungatosi con bizzarra plasticità. Sprofondava da lato a lato come un ponte di corda sovraccarico. La conchiglia fu prontamente collocata in una cassa sott’acqua dove prese posto insieme a un centinaio di altre simili eppure diverse. Più avanti quelle conchiglie, piccole, grandi, strane, intricate, sgargianti, comuni, sarebbero state incollate a formare mosaici, mosaici raffiguranti scene della mitologia greca. Le opere venivano esposte alla Mediterranean Art Gallery della cittadina di Caphos, sull’isola, e di solito attiravano un sacco di attenzione e di elogi. Giorgios, artista subacqueo e capo dei tre, aveva l’autorevolezza e la spinta di un ghepardo; aveva persino scritto un libro in cui illustrava in maniera dettagliata la sua passione per le conchiglie e per la loro trasformazione in dettagli di opere d’arte, assemblati in maniera meticolosa e amorevole. Gestiva anche una taverna con Dora, sua moglie e compagna di immersioni, che gli fluttuava vicino. Lei allungò una mano senza guanto per toccare la superficie epidermica della conchiglia. Sorrise dietro la maschera e la coppia eseguì una piccola danza di trionfo. Nel mentre Kirsten, che era la più giovane del trio, si sentiva un po’ fuori posto. Loro, dopo tutto, erano legati da promesse coniugali e dall’attività dei lombi. Kirsten non aveva un rapporto del genere con un altro animo umano e diffidava delle persone. Solo nelle camere sott’acqua, nell’abbraccio carezzevole e silenzioso del mare, si sentiva davvero completa, davvero intera e pacificata. Lassù, nel mondo terrestre, nella conchiglia terrena di rumore e lotta la vita era pesante, e le persone non avevano senso, coi loro mutevoli schemi di comportamento, contraddittori, egoisti, e a volte assolutamente crudeli. I subacquei cominciarono a risalire, trascinandosi su come ombre allungate di uccelli diretti verso il cielo. Superarono larghe e corrugate foglie d’oro di macro alghe, che si muovevano lente su e giù come giganti ventagli di piume, palpitanti di vita. Mentre i subacquei salivano a spirale verso lo scintillante soffitto di luce, piccoli pesci a strisce verticali nere e gialle imitavano i loro movimenti arcuati, quasi a preparare un qualche mirabile omaggio alle loro controparti umane. Poi i pesci filarono via, lontano, sparendo nei luoghi segreti che soltanto loro sapevano come raggiungere.

I subacquei, uno a uno, sguisciarono su fino a raggiungere la loro piccola barca, e si arrampicarono di lato per mezzo di una scaletta metallica, togliendosi l’attrezzatura e l’apparecchio per la respirazione e sistemando il tutto a poppa. Il sole tramontava e l’aria era intrisa delle inebrianti, vivide sensazioni dell’estate. Il cielo lassù cominciava a sfumare in un bagliore rosso rosato. La luna era già visibile e Kirsten la spiava coi suoi occhi timidi, furtivi. Com’era diversa questa scena da quelle della sua infanzia e adolescenza, prima che arrivasse ad abbracciare la sua nuova vita mediterranea. Per lei una volta l’estate era un affare tiepido al massimo, in Inghilterra, dove le temperature non superavano mai i venti gradi e il cielo era il più delle volte uno schermo di nuvole e grigiore. Dov’erano in Inghilterra le persone con una bella abbronzatura, la figura miracolosamente ben proporzionata e l’eleganza e l’amore per la vita che avevano i greci? Sebbene non capisse le persone, quantomeno preferiva quelle vive e decise a godersi questo fatto. Preferiva questo sfondo più ricco, più lussureggiante, la sua luce sottile, che adesso moriva, ma per questo era ancora più bella e intensa, la superficie infinita del mare, in costante mutamento, in costante movimento, ma sempre foriera di calma e di gioia, il minuscolo punto panoramico che la barca offriva loro, e l’aria salmastra, che sembrava stringere tutte le fibre della vita nel suo abbraccio invisibile.

Cominciarono a tornare verso la riva, silenziosi e leggermente provati come erano di consueto dopo un’immersione.

Kirsten salutò la coppia e si incamminò verso il suo maggiolone Volkswagen, polveroso e ammaccato, parcheggiato nel vialetto sabbioso che conduceva alla spiaggia. La macchina aveva cocci ovunque, quasi le servisse come promemoria della sua mancanza di grazia ogniqualvolta si trovasse fuori dall’acqua. Da bambina accumulava sempre lividi e vesciche e sembrava avere l’arte di farsi male, picchiare la testa, sbucciarsi le ginocchia, scivolare e rompersi il polso, il fianco, il naso. Sott’acqua tutto era più leggero, l’attrito era privato del potere di ferire, il peso dissipato. Forse era per questo che amava le immersioni…

Tornò in macchina al paesino, dove alloggiava in una villa che i genitori della sua amica Melissa le avevano lasciato per qualche giorno. La villa conteneva mondi di grazia vecchio stile, colmi di eterei piaceri che soltanto a Kirsten (amava pensare lei) era permesso gustare. Da fuori la semplice bellezza del portone di legno blu indaco senza serratura, giusto un chiavistello, alludeva allettante alle dimensioni magiche di ciò che stava oltre la soglia. Il portone rimaneva senza serratura perché la gente del posto e il paesino tutto vivevano ancora in una dimensione di franchezza. A Caphos tutto rallentava, gli autobus erano in ritardo, il caffè veniva sorseggiato piuttosto che ingoiato, il souvlaki veniva cucinato lentamente, le ore passavano lente e non importava, perché o il sole o il mare o qualcosa assicurava che si potesse rinunciare alla risolutezza e andava bene non fare assolutamente nulla, eppure in un modo o nell’altro non era mai noioso né opprimente. Si poteva vivere la vita semplicemente osservando, meditando, essendo.

La villa era uno splendido dono per Kirsten e per tre giorni ne assaporò tutte le delizie, ne carpì i segreti, la vista magnifica sul paesino sottostante e le file e gli sciami delle luci della sera mentre si accendevano per magia, la stanza per la colazione e la cucina, con il suo acquaio stranamente moderno, un brunito e liscio blocco di eleganza, le piante incredibilmente opulente e i gerani e le buganvillee che innaffiava amorevole, la lunga vasca, quasi vittoriana, che era lunga il doppio di lei, il gazebo adiacente al corpo principale della villa e, suprema meraviglia, la piscina all’aperto in cui scivolava tutte le sere a mezzanotte, una piccola, squisita piscina la cui superficie era a malapena disturbata dai movimenti del suo nudo corpo flessuoso, mentre nuotava senza far rumore, afferrando avida quelle vesti acquee, e tirandole verso di sé. Si adoperava per diventare un tutt’uno con l’acqua, per muoversi in indefessi arabeschi, perfetti mentre ogni tocco, ogni bracciata che riusciva a compiere diventava via via una migliore incarnazione di tecnica ed eleganza. Lì, in quel santuario di mezzanotte, fuori, mentre galleggiava sul dorso, lo sguardo all’insù, scrutava nel bacile del cielo notturno e le costellazioni e gli ammassi di stelle erano efelidi sul viso dell’universo. Eccola la perfezione che aveva sognato: una setosa, quasi erotica abbondanza d’acqua, il suo stesso profilo che si dissolveva, vi si scioglieva, quasi diventava acqua con tutta la sua libertà proteiforme, lo scenario naturale intorno, dove le pietre e i fiori esistevano in simbiotica, apnoica armonia, come se la realtà fosse diventata un’acquaforte e il cielo ghiacciato, immobile, il vuoto del silenzio assoluto, lontanissimi dal rumore e dalla gente. Nuotava con meraviglia e gratitudine mentre la notte si allungava a farle l’amore.

2

Un lembo selvaggio di costa con una spiaggetta.

Vicino alla riva mucchi di scogli formavano minuscole isole che catturavano la luce del sole; i bambini vi si arrampicavano, i genitori si allungavano su di loro. In lontananza, venendo via dal mare, un complesso di appartamenti nuovi, brutti, appena costruiti. Kirsten li odiava. Lontano lontano, a grande distanza, il relitto di una nave era incastonato nell’orizzonte. Un piroscafo turco con un carico di legname si era incagliato sugli scogli attorti qualcosa come quattordici anni prima e se ne stava lì, uno statico, rugginoso monolite d’acciaio e decadenza. I turisti lo avvistavano e si chiedevano perché fosse ancora lì giorno dopo giorno e non si spostasse mai finché qualcuno fece notare che non si sarebbe più mosso. Qualcosa teneva Kirsten avvinta al relitto e lei non smetteva mai di fissarlo quando era giù alla spiaggia, coi suoi ombrelloni di legno e i turisti britannici costolette di maiale e i russi plumbei, seri. Lo fissava per ore e a volte rabbrividiva mentre la sua forma scura diventava il simbolo del male puro. Un’immobile presenza malevola che, mentre le ombre della notte si radunavano, diventava ancora più scura ed evocava la dannazione. La perpetua stasi di questo enorme carbuncolo in decomposizione sembrava realmente creare un’incisione nel mare e scombussolarne le aggraziate pulsazioni e spezzarne la fluidità. Quando Kirsten guidava lungo la strada polverosa, che correva parallela alla spiaggia, ma in un punto sopraelevato, con lo sguardo cercava sempre il relitto. E quello non mancava mai di fare la sua comparsa, alla fine si faceva sempre vedere e in qualche modo era diventato parte del mare, persino mentre lo ossidava, un ibrido d’acciaio e acqua, preso in trappola dagli scogli con cui aveva iniziato a fondersi. Kirsten cominciò a sentire che in quel relitto si nascondeva il segreto della vita e nella sua mente si fece strada il pensiero che in qualche modo doveva affrontare quel relitto, trovarvisi faccia a faccia.

In una notte ventosa di luna quasi piena mise fuori la piccola barca e si lasciò trasportare sempre più dalla corrente verso il relitto, impaurita e incerta di ciò che vi avrebbe trovato, ma sapendo che affrontare la sua paura le avrebbe recato una sorta di pace. Una parte di lei si aspettava di vedere cadaveri ghignanti. Mentre si avvicinava all’orbita del relitto – perpetui spruzzi di schiuma intorno all’acciaio e agli scogli – fermò la barca a qualche metro di distanza, trattenuta, spaventata, ipnotizzata da quell’immensa, fredda forma morta, che torreggiava al di sopra di lei e della sua minuscola barca. Si sentì accapponare la pelle mentre un terrore senza nome la accerchiava. Si sedette congelata sul retro della barca, tentando di arrestare anche i più minimi movimenti del corpo, anche il respiro, gli occhi in cerca di un predatore che con un balzo sarebbe sbucato dall’oscurità per aggredirla. Il chiaro di luna catturava frammenti della membrana acquosa che la circondava, l’acqua era piena di cose insondabili, e un’oscura bellezza era nata. Avanzò lentamente e il suo orrore aumentò mentre le onde mugghiavano e si infrangevano senza posa nello scafo derelitto, come per tentare di ammaccarlo, e spettri bizzarri prendevano forma in quello scontro tra acqua e metallo morto, bizzarri riverberi che attraversavano con passi corti e rapidi il corpo della nave. Kirsten era stata gettata in un mondo sonoro in cui rumori arcani, largamente amplificati, si succedevano veloci l’uno all’altro.

Sentì la pelle diventare fredda e umida. Scariche di adrenalina la percorrevano in ogni parte mentre tirava fuori la torcia e la puntava verso la nave. Lì, in quel fascio di luce intensa, riuscì a distinguere un grosso squarcio nel metallo e vi proiettò la torcia, e dentro fu svelato in parte un mondo freddo, abbandonato. Era come se il sipario di un teatro si fosse sollevato per non svelare nulla, un’illusione, dietro quella facciata c’era il mero vuoto, il mondo interno della nave era stato staccato e scavato da tempo come le interiora di un pesce sventrato. Rimaneva soltanto il terribile guscio dell’esterno, rinchiuso dentro la scogliosa matrice sottostante che lo aveva afferrato e non lo avrebbe liberato mai più. Avvicinò la barca, poi la avvicinò ancora di più finché non tremava per la violenza della corrente. Poi, quando il suo piccolo vascello toccava l’ampio fianco del piroscafo, si alzò e si diresse incerta verso il bordo, le ginocchia premute contro il fianco della barca, e allungò il collo e trapassò con entrambe le mani il grosso squarcio nello scafo. Le mani, poi le braccia, erano scivolate dall’altra parte, allora stese tutte le dita, poi posizionò l’orecchio contro il duro, freddo muro di metallo e si mise in ascolto. Le onde che sbattevano contro la nave le rimbombavano nei timpani; il rumore era amplificato, colossale, si tuffava in Kirsten con tentacoli annaspanti. Lei era inghiottita dal rumore riverberante, il rumore le comprimeva ogni singola fibra. Ne era impregnata, assordata, stordita. Era come se il suo corpo fosse un conduttore di energia, come se l’avessero attaccata alla corrente senza nome dell’universo e ora questa circolasse, le corruscasse dentro, attraverso le ossa, il cuore, le arterie, il cervello.

Cosa c’era dall’altra parte? Perché moriva dalla voglia di raggiungerlo, di toccarlo? Perché si stava inoltrando in questa folle esperienza? Cosa c’era là che cercava di toccare allungando le dita, le nocche bianche che le bruciavano dalla tensione? Forse quel giorno finale che si spegne nella notte senza alcuna speranza di un’alba redentrice (la sua mano che deterge gettata negli angoli del buio e delle tenebre, a sollevare entrambi mentre la luce purificatrice esilia ogni ombra). Forse era in cerca di un eterno imbrunire, un’eterna ombra, un cessare dei sensi. Voleva passare dall’altra parte, dire che aveva dimorato in quel vuoto laggiù, quel guscio, quella cavità, ma alla fine non poté più sopportarlo e allontanò l’orecchio dallo scafo e ritirò le braccia, semisorpresa che le mani vi fossero ancora attaccate, tremando forte, poi cadde pesantemente all’indietro sulla barca, che segava il mare con la risacca, e giacque allungata, in preda alla violenza del moto, incapace di muoversi o parlare o addirittura pensare. Semplicemente giaceva lì, mezzo morta, catturata in quel vortice, il mare era un groviglio di festoni e lei era sospesa lì, sbatacchiata nel suo inesauribile epicentro…

Ma finalmente riacquisì un briciolo di forza e si trascinò sulle mani e le ginocchia fino alla barra e accese il motore e cominciò a muoversi. In lontananza riuscì a distinguere puntini di luce sparpagliati lungo la costa e ne fu rincuorata. Risoluta fissò lo sguardo sulle luci mentre la barca procedeva vibrando. Guardandole, accovacciata laggiù sul ponte, le onde di terrore si abbassarono e lei si sentì al sicuro, quasi protetta.

Sentì che aveva fatto abbastanza adesso, poteva tornare indietro. Aveva dimostrato qualcosa, affrontato il terrore, il terrore non mappato del ventre molle della vita. Si meritava qualcosa da bere, qualcosa di forte. Stava per raggiungere la costa. Le arrivò un messaggino sul cellulare, il che era strano visto che non c’era segnale laggiù. Era Dora che le chiedeva se voleva fare un’immersione il giorno dopo. All’improvviso si sentì di sapere qualcosa che la coppia perfetta non sapeva, di avere finalmente una storia tutta sua da raccontare, di essersi immersa più a fondo di loro stavolta. Poi, cacciando via questi pensieri, si ricordò della nuotata di mezzanotte alla villa che ancora la attendeva e questo le accese un fuoco dentro, le dette un senso di calore quasi fisico. Ormeggiò la barca.

Nella cabina indossò un paio di jeans e una camicetta trasparente color salmone. Dando un’occhiata alla sua immagine nello specchio pensò che aveva un’aria un po’ scossa e allampanata. Perciò si sciacquò il viso con l’acqua della bottiglia, si tamponò con un fazzoletto di carta, e si mise un rossetto scarlatto acceso, strofinandosi le labbra in maniera uniforme. Si pettinò i capelli con cura, quasi con amore. E notò che questi gesti, che di solito non le riuscivano facili e spesso finivano in un disastro, erano piuttosto piacevoli. Si guardò di nuovo e mormorò: “Non male, ma puoi fare di meglio”. Rovesciò il contenuto della borsetta e trovò una collana con un dente di squalo placcato in argento, la indossò e la sua bellezza raffinata, glaciale, era accentuata dall’impalpabilità della camicetta. Poi picchiettò un po’ di profumo su polsi e guance. Adesso era pronta.

Mentre camminava lungo la costa si accorse che continuava a respirare molto velocemente; ci stava impiegando tanto tempo a tornare alla normalità. A un certo punto sulla spiaggia trovò un baretto, annunciato da file di lanternine colorate, ordinò un ouzo, e cominciò a sentirsi piuttosto bene. Qualche vecchio greco non rasato giocava a backgammon, uno schermo televisivo gigante occupava un angolo brutto, dei bambini piccoli sguazzavano in una piscina. Due ragazzi sui vent’anni fumavano sigarette e chiacchieravano rilassati. Indossavano jeans strappati e avevano una splendida abbronzatura. Avevano entrambi un’aria colta, intelligente, sorseggiavano caffè greco e dividevano un piatto di baklava. Una situazione più lontana da quella in cui si era appena trovata era impossibile da immaginare. Si sentiva colma di una dolce spossatezza, che allo stesso tempo era la gioia residua scivolata tra le maglie di uno sforzo fisico e di una paura schiaccianti, e la vita era ineffabilmente dolce. I posti bellissimi, l’oceano che era suo, il futuro invitante con la promessa di piaceri non ancora gustati e la possibilità dell’amore, come un menu che le avevano appena portato, zeppo di piatti delicati, squisiti. In quel momento nulla avrebbe potuto renderla triste o contrariata.

Sarebbe andata a fare un’immersione con Dora e Giorgios l’indomani? Non ne era ancora certa. Si chiedeva se i due ragazzi – che adesso la stavano squadrando – potevano supporre ciò che aveva appena fatto. Non riuscivano a fare a meno di fissarla con interesse straordinariamente manifesto. Capivano che Kirsten in quel momento era leggera, che era gonfia di elio, era sul punto di sollevarsi, meravigliosamente imperturbabile. E quando dardeggiò un sorriso abbagliante in direzione di entrambi, rimasero spiazzati, non sapendo se provare imbarazzo o sentirsi incoraggiati o insicuri o affascinati, così finirono entrambi per provare tutto ciò. C’era qualcosa di esplosivo negli occhi di Kirsten in quel momento, un affetto malizioso per quei tipi, un amore inspiegabile nei loro confronti che era in totale contrasto con la loro condizione di perfetti sconosciuti, mentre li guardava e si faceva domande sul loro conto e concludeva che erano ragazzi limpidi, dolci, in totale soggezione di fronte a lei e ai suoi modi già nell’attimo in cui era capitato loro di incrociarla, e capiva che erano talmente in soggezione che non si sarebbero mai sognati di iniziare una conversazione o di venire da lei. Così ci pensò un po’ su, continuando a guardarli a distanza, e poi alla fine decise che toccava a lei, perciò tracannò l’ouzo che restava e camminò verso di loro a grandi passi quasi pigri e il modo in cui solcava l’impiantito era ardentemente provocante, il modo in cui faceva ondeggiare i fianchi e il sedere e disponeva le labbra a metà tra il broncio e il sorriso aperto, e poi sollevò una sedia e si sedette e disse morbida: “Ciao, mi chiamo Kirsten. Le mie mani poco fa erano dentro il relitto di una nave”.

(Traduzione di Elena Moncini)

 

versione in lingua originale

L'autore

Baret Magarian

Baret Magarian è anglo-armeno. Nato a Londra nel 1968, dopo avere conseguito un dottorato all’Università di Durham, ha pubblicato narrativa sulla rivista di nuova scrittura Panurge (diretta da John Murray). A Londra ha svolto l’attività di giornalista freelance, scrivendo recensioni e articoli per The Times, The Guardian, The Daily Telegraph, The Independent, The Observer, The New Statesman, e The Times Literary Supplement. È stato anche regista teatrale d’avanguardia (Il misantropo di Molière, e Cocktail Molotov, uno spettacolo di cabaret e canzoni). Si è poi trasferito in Italia, dove ha recitato in video musicali e trailer di film, ha fatto il modello di nudo, ha cantato e suonato la chitarra in vari bar della Toscana. Ha pubblicato poesie su Collettivo R a Firenze, e sul Journal of Italian Translation a New York. Ha inoltre pubblicato narrativa breve in Darker Times, sulle riviste online Sagarana e El Ghibli e nell’antologia HoTell (Whitefly editore, 2014). Attualmente sta mettendo a punto un romanzo, Oscar Babel, e ha ultimato una raccolta di 14 racconti brevi e novelle dal titolo The Melting Point. Ha inciso un CD di canzoni rock – Floto: We Specialize in Broken Dreams – disponibile su Amazon e iTunes. È anche un appassionato pianista dilettante. Per contatti: baretbmagarian@hotmail.com

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